CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 novembre 2017, n. 26267

Rapporto di agenzia – Ripetizione delle somme erogate – Mancato raggiungimento degli obiettivi concordati – Previsione contratto individuale – Minimo provvigionale garantito – Subordine al verificarsi di condizione di fatto futuro ed incerto -Condizione riferita ad un avvenimento in sostanza irrealizzabile – Obbligo restitutorio non sussiste

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Milano rigettava il gravame proposto da C. E. S.p.a. – C. avverso la sentenza n. 2855/08, pubblicata il 24 giugno 2008, con la quale il locale giudice del lavoro aveva respinto le domande della società, volte ad ottenere la restituzione delle somme erogate all’agente S., in ragione di 102 milioni di lire di allora, a titolo di minimo provvigionale garantito, anticipate, non dovute per il mancato raggiungimento da parte del convenuto degli obiettivi concordati, di cui all’art. 2 dell’allegato al contratto di agenzia, pur risultando pacifico che lo S. non avesse rispettato il target della raccolta gestita, prefissato in cinque miliardi, entro i primo dodici mesi dall’inizio del rapporto.

La succitata pronuncia, n. 406 in data 11 maggio – 15 settembre 2011, veniva impugnata dal C. E. Gruppo Bancario C. E. C. S.p.A. mediante ricorso per cassazione, notificato come da relata del 13 settembre 2012 ed affidato a due motivi, in seguito illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

S. Marino è rimasto intimato.

Motivi della decisione

Mediante contratto di agenzia in data 27 febbraio 2001 C. E. S.p.A. conferiva al signor Marino S. l’incarico di promuovere, per suo conto, la collocazione fuori sede di prodotti bancari e dei prodotti servizi finanziari ed assicurativi indicati nell’allegato A, costituente parte integrante del contratto in questione. Il rapporto, inoltre, veniva integrato in pari data con la sottoscrizione dell’allegato C – atti aggiuntivi, il cui articolo due prevedeva tra l’altro che: <<In alternativa all’applicazione della tabella provvigionale di cui all’allegato A, fatta comunque salva la corresponsione a suo favore sulla base di tale tabella delle commissioni di ingresso (c.d. enter fee), ove previste, la società Le (all’agente) riconoscerà, per un periodo di 24 mesi dalla data di perfezionamento del mandato, un importo annuo, al lordo delle ritenute di legge, pari a lire 102 milioni, a titolo di “minimo provvigionale garantito”, alle seguenti condizioni:

2.1l’erogazione di tale Importo annuo è subordinata alla raggiungimento, relativamente ad affari conclusi con la clientela a lei direttamente riferibile, del seguente obiettivo di raccolta gestita (riferita prodotti di cui all’art. 8; di seguito “GESTITA”, LM 5 miliardi entro i primi 12 mesi… .

2.2 il raggiungimento dell’obiettivo sopra descritto verrà verificato dalla società allo scadere del termine indicato; nel caso in cui il grado di raggiungimento dello stesso

risultasse inferiore a 100%, la società si riserva sin d’ora il diritto di erogare il compenso “minimo provvigionale garantito”, relativo al periodo successivo, in proporzione al grado di raggiungimento dell’obiettivo effettivamente ottenuto;

2.3 l’importo di cui sopra verrà erogato dalla società in quote mensili di lire 8.500.000, al lordo delle ritenute di legge;

2.4 Le verrà comunque conferita fa facoltà, esercitatile una sola volta a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento ed in qualsiasi momento durante il periodo di validità del compenso “minimo garantito”, di richiedere la liquidazione delle provvigioni di volta in volta maturate sulla base della tabella di cui all’allegato A).

Tale modalità di liquidazione dell’applicata della società a decorrere dalla data di ricevimento della sua lettera scritta, con la conseguente definitiva cessazione dell’erogazione suddetto “minimo provvigionale garantito”>> (n.b.: il testo che precede è quello riportato dalla ricorrente, che però differisce in qualche parte dal testo in corsivo riprodotto a pag. 3 della sentenza di appello).

Orbene, con il primo motivo di ricorso è stata denunciata la violazione e la falsa applicazione degli articoli 1362 e 1363, nonché 1353 del codice civile, in relazione al disposto di cui all’articolo due allegato C del contratto di agenzia, tanto ai sensi dell’articolo 360 numero tre c.p.c.. La Corte di merito, nell’esaminare la suddetta clausola, aveva centrato la propria attenzione sull’espressione letterale “minimo provvigionale garantito”. Secondo la ricorrente, detta interpretazione letterale era errata, in quanto in contrasto con la corretta applicazione dell’articolo 1362 c.c., alla stregua dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità (nella ricerca della comune intenzione delle parti contraenti al momento della conclusione del contratto, il primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dalle parole ed espressioni del contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, restando escluso, ove esse indichino un contenuto sufficientemente preciso, che l’interprete possa ricercare un significato diverso da quello letterale in base ad altri criteri ermeneutici, il ricorso ai quali presuppone una rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale – così Cass. lav. n. 2153 del 05/02/2004 ed altre citate a pag. 8 del ricorso).

Era, dunque, evidente che l’espressione contenuta nella prima parte dell’articolo 2 non poteva essere letta disgiuntamente dalla successiva precisazione, laddove si accennava alle indicate condizioni cui veniva subordinata l’erogazione. Se, dunque, il riconoscimento di tale compenso, definito minimo provvigionale garantito, non era assoluto, ma lo si faceva dipendere, come invece precisato dalle espressioni letterali adoperate, dal raggiungimento del richiamato obiettivo di produzione, era evidente che ove non si fosse verificata la condizione (evento futuro incerto), diveniva ineluttabile l’effetto risolutivo della corresponsione di tale compenso, mentre l’eventuale antinomia, che sì fosse voluta cogliere nell’espressione minimo provvigionale garantito, mai avrebbe potuto sottrarre il riconoscimento del compenso a detta specificata condizione. Non c’era bisogno di ricordare la portata dell’articolo 1353 c.c., secondo cui le parti possono subordinare la validità, o meglio l’efficacia, anche di un solo patto, ad un avvenimento futuro incerto.

Secondo la ricorrente, era inconferente sul piano logico ed erroneo sotto il profilo giuridico, il riferimento al fatto che sarebbe impossibile per un agente il raggiungimento dell’obiettivo annuo di 5 miliardi, inteso in termini di raccolta gestita, da ritenersi relativamente modesto. Non poteva essere confusa l’eventuale e presunta difficoltà di realizzare una raccolta del genere con la condizione impossibile, che si determina quando è riferita ad un avvenimento irrealizzabile, sia dal punto di vista naturale, sia da quello giuridico. Poiché, dunque, non poteva parlarsi di condizione impossibile, la Corte di merito anche se l’avesse voluto, non avrebbe comunque potuto non tener conto del patto relativo al compenso definito minimo provvigionale garantito, che era sottoposto a condizione risolutiva, per cui affermare che le parti non avrebbero previsto le conseguenze del mancato raggiungimento dell’obiettivo era giuridicamente errato, in quanto il mancato verificarsi di una condizione risolutiva comportava, ex se, l’obbligo di restituzione degli importi pagati subordinatamente all’avverarsi di un tale evento. In altre parole, l’obbligo restitutorio discendeva automaticamente dal mancato verificarsi della condizione, la quale in quanto risolutiva faceva venir meno gli effetti dell’attribuzione, che intanto avrebbe potuto consolidarsi in quanto l’agente avesse effettivamente raggiunto l’obiettivo condizionante. Né poteva affermarsi che la clausola in questione avrebbe determinato la possibilità per l’agente di non ottenere alcun compenso. Infatti, l’allegato C al contratto prevedeva un compenso alternativo a quello previsto dall’allegato A allo stesso contratto di agenzia, sicché l’agente, in caso di mancato verificarsi della condizione relativamente ad una annualità o ad altre annualità, avrebbe avuto diritto alla liquidazione delle provvigioni in relazione a quanto previsto appunto dall’allegato A), alternativo al compenso previsto dall’allegato C).

Con il secondo motivo, poi, la società ricorrente ha dedotto incongrua e logica motivazione su di un punto decisivo della controversia, ex articolo 360 n. 5 c.p.c., laddove la Corte di merito non aveva considerato il collegamento tra il punto relativo al minimo provvigionale garantito ed il successivo periodo, contenuto nello stesso articolo due, inerente alla condizione cui veniva subordinata l’erogazione dell’importo. La sentenza impugnata non aveva spiegato la ragione per cui non era stato considerato che gli stessi contraenti, prevedendo il suddetto tipo di compenso, concordavano altresì che esso non fosse dovuto in ogni caso, ma soltanto nell’ipotesi in cui il promotore avesse raggiunto l’obiettivo di una raccolta gestita pari a 5 miliardi. Non aveva, in altre parole, la Corte di merito esplicitato le ragioni per le quali non aveva ritenuto di considerare che la pattuizione contenesse una vera e propria condizione per l’attribuzione del compenso “minimo provvigionale garantito”, così aggirando completamente la stessa, né spiegato le ragioni per le quali il raggiungimento dell’obiettivo di cinque miliardi sarebbe stato chimerico se non impossibile. Dunque, la sentenza impugnata conteneva affermazioni apodittiche, che non venivano spiegate, così da rendere ragione dell’effettivo percorso logico seguito per giungere alla conclusione che l’importo corrisposto non avrebbe dovuto essere restituito, anche in presenza dell’accertato e comunque pacifico non raggiungimento dell’obiettivo di 5 miliardi di raccolta gestita in ragione di anno. D’altra parte, se la Corte territoriale avesse ritenuto impossibile la condizione avrebbe dovuto comunque spiegarne la ragione, essendo noto che l’impossibilità giuridica, idonea a far ritenere come non apposta a condizione, non è certamente configurabile nell’ipotesi in cui viene fissato un obbiettivo di produzione, in quanto, sia naturalmente, sia giuridicamente, l’evento futuro incerto, dedotto nella condizione in questione, non può essere considerato impossibile sotto alcun profilo.

Tanto premesso, le anzidette censure, che per la loro evidente connessione possono esaminarsi congiuntamente, vanno disattese in base alle seguenti considerazioni.

Ed invero, occorre prendere le mosse da quanto correttamente rilevato dalla sentenza qui impugnata, laddove dalla lettura della sua narrativa ben si comprende come in effetti la Corte di merito avesse individuato le ragioni del gravame interposto dalla società, che aveva già lamentato l’errata interpretazione della clausola in questione, sostenendo che fosse chiara nel prevedere che l’indicato minimo provvisionale era subordinato solo alla condizione che l’agente avesse raggiunto l’obiettivo prefissato, ciò che non si era verificato, di modo che, inoltre, l’interpretazione fornita da primo giudicante aveva di fatto venir anche meno la funzione del minimo provvigionale, privo di corrispettività.

Orbene, la Corte di merito, nell’esaminare i fatti di causa, con adeguate argomentazioni ha giudicato infondate le critiche di parte appellante, previa riproduzione del testo essenziale della clausola contrattuale in parola, citando le condizioni ivi previste, ivi compresa quindi quella concernente l’erogazione dell’importo annuo subordinata al raggiungimento dell’indicato risultato.

In primo luogo, secondo la Corte distrettuale, non poteva non rilevarsi che l’espressione usata “minimo provvigionale garantito” mal si conciliava con un compenso soltanto anticipato: non a caso l’espressione normalmente usata nei contratti di agenzia era di “anticipo” provvigionale, questo sì soggetto a restituzione, qualora non coperto da provvigioni via via maturate. L’espressione minimo garantito era dunque ambigua e non chiara, come invece diversamente sostenuto da parte appellante. La poca chiarezza usata legittimava, quindi, un’interpretazione sistematica, che tenesse conto dell’intera clausola, così come argomentato dal primo giudicante. Non poteva non sottolinearsi, poi, la difficoltà (non già impossibilità) estrema per ogni nuovo promotore finanziario di realizzare già nel primo anno un target di ben cinque miliardi: tale più che impegnativo obiettivo poteva allora giustificare un’erogazione per il primo anno di un compenso minimo, sganciato dalla necessaria corrispettività della maturazione di altrettante provvigioni. Inoltre, la previsione di minimi garantiti non faceva certamente venir meno, nel contratto di agenzia, quella corrispettività che l’appellante richiedeva per la validità del contratto stesso (affermazione, che invero, trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità. V. infatti Cass. IlI civ. n. 3684 del 16/12/1971, secondo cui la garanzia di un compenso minimo non è incompatibile col rapporto di agenzia, giacché tale elemento della retribuzione dell’agente, se può ridurre il suo rischio, non lo abolisce).

La Corte di Appello, nel richiamare la sentenza di primo grado, osservava, altresì, che le parti avevano previsto la possibilità del mancato raggiungimento del target e ne avevano regolato le conseguenze prevedendo, per il secondo anno, un’erogazione parametrata al solo effettivo grado di raggiungimento conseguito. Infatti, lo S. nel secondo anno aveva ricevuto un compenso di gran lunga inferiore al primo, come poteva evincersi dai prospetti dei compensi percepiti, esposti nella memoria di costituzione. Dunque, il meccanismo scelto dai contraenti, lungi da prevedere un semplice anticipo provvigionale per 24 mesi, risultava finalizzato in realtà ad incentivare l’attività del nuovo promotore, senza penalizzarlo in maniera tanto pesante, ma allo stesso tempo neanche prevedendo per la banca committente una perdita sicura: la riproporzionalità del minimo garantito dopo il primo anno all’effettiva capacità di produzione dell’agente metteva al riparo la società dall’erogare anche per il secondo anno somme “a fondo perduto”. La possibilità, inoltre, lasciata all’agente promotore di ritornare, anche successivamente all’inizio del rapporto, alla liquidazione delle effettive provvigioni maturate in base di affari conclusi, secondo la tabella A, allegata al contratto, non contrastava con l’interpretazione fornita, costituendo soltanto un’opzione ulteriore a favore del promotore più produttivo anche per la stessa banca.

Pertanto, l’operazione ermeneutica condotta nella specie dalla Corte distrettuale non appare errata nei sensi prospettati dalla società ricorrente, la quale, in effetti sulla scorta dei medesimi elementi di fatto, già considerati dai giudici di merito, pretende una loro diversa valutazione -però inammissibile in questa sede di legittimità- solo perché ritenuta soggettivamente più appagante.

Invero, la Corte territoriale ha compiutamente esaminato i fatti ed in particolare il testo contrattuale in questione, ha tenuto conto delle censure dell’appellante, pressoché analoghe a quelle poi riproposte con il ricorso de quo, confermando quindi la decisione impugnata, nel senso che l’espressione minimo provvigionale garantito appariva poco chiara e dunque ambigua, giudizio di merito in verità oggettivamente ragionevole, visto che la garanzia appare in contrasto con la condizione ivi contestualmente apposta, quest’ultima a sua volta poco compatibile con la pedissequa pure ipotizzata riserva di erogazione, però limitatamente al secondo anno, nel caso di mancato raggiungimento al 100% dell’obiettivo.

Questa Corte, del resto, già in altra analoga occasione ha ritenuto infondate le censure mosse da C., il cui ricorso veniva quindi rigettato come da sentenza n. 5559 del 23/01 – 06/03/2013, confermando quindi la pronuncia ivi impugnata. Infatti, la Corte del merito aveva ritenuto che la formulazione dell’esaminato contratto era tale, in rapporto al suo preciso tenore letterale, da non autorizzare l’interpretazione sostenuta dalla società, secondo la quale il minimo provvigionale garantito era dovuto solo in ipotesi di raggiungimento del 100% dell’obiettivo e che, in caso contrario, lo stesso non era dovuto, né sussisteva alcun obbligo di riparametrare il compenso secondo il grado di raggiungimento dell’obiettivo, poiché si trattava di una mera facoltà della preponente. Il giudice del gravame aveva ritenuto che il beneficio non costituiva un anticipo provvigionale, configurandosi invece un minimo garantito, e che l’interpretazione complessiva della clausola era tale da condurre alla conclusione che il raggiungimento dell’obiettivo poteva ritenersi condizione necessaria all’esito della prima verifica, dopo dodici mesi, mentre, a partire dal secondo anno, la preponente aveva solo la facoltà di riparametrare e riproporzionare il compenso al grado di raggiungimento dell’obiettivo.

In proposito, dunque, questa Corte ha ritenuto come dovesse ribadirsi che, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. e segg.. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (cfr. Cass. 9.10.2012 n. 17168, e tra le altre, Cass. 2.5.2012 n. 6641, Cass. 22.11.2010 n. 23635, Cass. 30.4.2010 n. 10554). Corollario di tale principio era l’inammissibilità del motivo di ricorso fondato sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione, che si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa, senza indicare alcun elemento, dotato dei carattere di rilevanza e decisività, idoneo ad incidere sulla diversa soluzione della questione interpretativa, risolta del giudice del merito dando rilievo alla volontà delle parti ricostruita in primo luogo attraverso il senso letterale delle parole utilizzate e la loro comune intenzione quale emersa dal comportamento anche successivo alla conclusione del contratto, nonché attraverso la lettura complessiva del contratto.

Dunque, pure nel caso esaminato dalla sentenza n. 5559/13 la Corte territoriale aveva spiegato che non si trattava di anticipi provvigionali, ma di minimo garantito, mentre la ricorrente aveva censurato tale ricostruzione, proponendo unicamente una diversa soluzione interpretativa, asseritamente riconducibile al tenore testuale della clausola, ma ciò non valeva, per le considerazioni svolte, ad inficiare l’interpretazione fornitane dal giudicante, rispetto alla quale non si indicava come i canoni interpretativi specificamente violati potessero condurre ad una differente valutazione. L’infondatezza della censura, pertanto, non consentiva di ritenere erroneamente ricostruita la volontà delle parti.

Invero, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito, che si ;

traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. IlI n. 2465 del 10/02/2015, Conformi Cass. Ili civ. n. 10891 del 26/05/2016 e n. 2074 del 13/02/2002.

V. altresì Cass. lav. n. 13456 del 09/10/2000: costituisce questione di merito, rimessa al giudice competente, valutare il grado di chiarezza della clausola contrattuale, ai fini dell’impiego articolato dei vari criteri ermeneutici; deve escludersi, quindi, che nel giudizio di cassazione possa procedersi a una diretta valutazione della clausola contrattuale, al fine di escludere la legittimità del ricorso da parte del giudice di merito al canone ermeneutico del comportamento successivo delle parti. Conforme Cass. IlI civ. n. 5624 del 15/03/2005. Cfr. ancora, più recentemente, Cass. IlI civ. n. 5795 – 08/03/2017, secondo cui l’omesso esame della questione relativa all’interpretazione del contratto non è riconducibile al vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., in quanto l’interpretazione di una clausola negoziale non costituisce “fatto” decisivo per il giudizio, atteso che in tale nozione rientrano gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi).

Pertanto, il ricorso va respinto, peraltro senza disporre alcun provvedimento in ordine al regolamento delle relative spese, nonostante la soccombenza di parte ricorrente, essendo lo S. rimasto intimato senza lo svolgimento di alcuna difesa in proprio favore.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.