CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 giugno 2017, n. 14078
Tributi – Avviso di accertamento – Controversia – Processo verbale di constatazione
Ritenuto in fatto
1. L’avviso di accertamento oggetto della presente controversia trae origine dal processo verbale di constatazione notificato, in data 27 dicembre 2006, alla O. S.p.A. (ora T. S.p.A.) dall’Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Accertamento, relativo al periodo d’imposta 2001. I funzionari verificatori contestarono ad O. S.p.A. l’omessa esposizione in dichiarazione di componenti economici positivi, rilevanti ai fini dell’IRAP, per un importo pari ad € 557.091.700,00. In particolare, i rilievi contenuti nel P.V.C. – cui l’avviso di accertamento rinviava in toto – riguardavano la violazione delle norme in materia di IRAP, con riferimento alla fattispecie di seguito descritta.
2. In data 30 luglio 2001, O. S.p.A. stipulò con B. S.A. un contratto di acquisto ad esecuzione differita di n. 1.552.662.120 azioni ordinarie di O. S.p.A. al prezzo complessivo di € 6.482.364.351,00 (e cioè € 4,175 per azione); nei mesi immediatamente successivi la stipula del contratto e, comunque, prima che le parti dessero esecuzione alle obbligazioni ivi contenute, il titolo O. venne travolto dal crollo dei mercati finanziari intervenuto anche a seguito dei noti accadimenti dell’11 settembre 2001. In particolare, il titolo subì una riduzione di valore di oltre il 56% rispetto a quello corrente alla data di stipula del contratto di compravendita e rispetto anche al prezzo pattuito tra le parti; in considerazione di ciò, O. S.p.A. contestò alla parte venditrice la sussistenza delle condizioni di sopravvenuta eccessiva onerosità ex art. 1467 c.c. e, conseguentemente, richiese la riduzione del prezzo stabilito nel contratto, in alternativa alla risoluzione; in data 19 settembre 2001 venne quindi sottoscritto un atto integrativo del precedente accordo che, recependo la comune volontà delle parti di ridurre il prezzo di compravendita, prevedeva l’impegno di B. S.A. ad erogare ad O. S.p.A. un finanziamento di € 1.032.920.000,00, che quest’ultima avrebbe utilizzato per l’acquisto delle azioni oggetto del contratto del 30 luglio 2001, ma con l’obbligo di rimborso mediante consegna di azioni O. il cui valore di acquisto a termine, alla data di erogazione, era pari ad C 476.935.000, sicché, alla suddetta data, il valore di rimborso del finanziamento, concesso sotto forma di prestito obbligazionario, risultava inferiore di circa il 56% rispetto all’importo finanziato. In altri termini, il rimborso del prestito concesso nella misura di circa 1 miliardo di euro doveva avvenire consegnando azioni aventi un valore alla data di erogazione di circa 470 milioni di euro; in considerazione di tale accordo, O. S.p.A. ritenne soddisfatta la sua richiesta di riduzione del prezzo ai sensi dell’art. 1467, comma 3, c.c., rinunciando, pertanto, a far valere la risoluzione del contratto di compravendita delle azioni in sede giurisdizionale; in data 5 ottobre 2001, le parti dettero esecuzione all’anzidetto accordo integrativo mediante l’emissione da parte di O. S.p.A. di obbligazioni in favore di B. S.A. per un valore complessivo di €. 1.032.920.000 e con un tasso di interesse annuo dell’1,5%. Il regolamento del prestito prevedeva l’obbligo di rimborso in azioni, alla data di scadenza del 5 ottobre 2007, in ragione di un’azione per ogni obbligazione; alla data dell’emissione del prestito, il valore di acquisto a termine sul mercato di ciascuna azione (€ 1,81) era inferiore di circa il 56% rispetto al valore nominale di ciascuna obbligazione (€ 3,92); alla data dell’emissione – 5 ottobre 2001 – O. S.p.A. rilevò in contabilità generale un debito di ammontare pari al valore nominale del prestito; nel novembre 2001 O. S.p.A. “monetizzò” lo sconto ottenuto da B. S.A. tramite la sottoscrizione del prestito obbligazionario, stipulando con due soggetti terzi – Unicredit Banca Mobiliare S.p.A. e Caboto Intesa BCI S.p.A. – due distinti contratti di compravendita a termine aventi ad oggetto un numero complessivo di azioni pari a quello necessario a rimborsare il debito contratto con B. l S.A. a fronte del prestito obbligazionario; a seguito della conclusione dei contratti a termine, a chiusura dell’esercizio 2001, O. S.p.A., che aveva inizialmente iscritto il prestito obbligazionario in contabilità generale per un importo pari al suo valore nominale, ne rettificò in diminuzione l’ammontare esponendo in bilancio tale passività per un importo corrispondente al prezzo complessivo di acquisto a termine delle azioni. La rettifica in diminuzione del valore contabile del debito relativo al prestito obbligazionario dette origine all’emersione di un componente positivo di reddito – evidenziato in contabilità generale tra gli “Oneri straordinari” (in “Avere”, ossia a riduzione di tali oneri) per un importo complessivo di € 557.091.700,00 -, che non concorreva alla determinazione della base imponibile IRAP della società per il periodo d’imposta 2001.
3. Il ricorso proposto dalla società nei confronti dell’avviso di accertamento venne accolto dalla C.T.P. di Milano, che annullò l’atto impositivo.
4. Proposto appello dall’Ufficio, la C.T.R della Lombardia, con sentenza del 1° giugno 2009, ha confermato la sentenza impugnata. Il giudice di appello ha ritenuto che l’avviso di accertamento fosse illegittimo, in quanto fondato sull’errata qualificazione quale provento finanziario, assoggettabile ad IRAP ai sensi dell’art. 6, comma 1-bis, lettera a) del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, del componente positivo rilevato da O. S.p.A. a fronte dello sconto sul prezzo di vendita delle azioni O. concesso da B. l S.A. mediante la sottoscrizione del prestito obbligazionario.
Ha rilevato che, anteriormente alla stipula del contratto di compravendita di n. 1.552.662.120 azioni O., il valore di borsa dei titoli subiva un decremento di oltre il 56%, circostanza che alterava il quadro della convenienza economico-finanziaria dell’operazione, rendendo eccessivamente oneroso l’adempimento degli obblighi assunti da O. S.p.A. con B. S.A. Le due società pervenivano, quindi, ad una intesa sulla riduzione del prezzo che prevedeva l’impegno da parte dei soci di B. S.A. a sottoscrivere un prestito obbligazionario di € 1.032.920.000 che O. S.p.A. avrebbe emesso a condizioni palesemente fuori mercato e penalizzanti per la società B., così da consentire il riequilibrio delle posizioni contrattuali alterate dal crollo inaspettato dei mercati finanziari e del valore delle azioni O., riconoscendo così ad O. S.p.A. una riduzione del prezzo di acquisto delle azioni O. divenuto eccessivamente oneroso. In seguito O. S.p.A. rettificava in diminuzione il valore contabile del prestito, rilevando in contabilità generale un componente positivo di € 557.091.700,00 che, rappresentando lo sconto ottenuto da B. S.A., veniva evidenziato in “Avere tra gli oneri straordinari” e per tale ragione detto componente positivo non aveva concorso alla determinazione della base imponibile IRAP relativa al periodo d’imposta 2001.
5. Avverso la suddetta decisione, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, sulla base di un motivo.
Resiste con controricorso la T. S.p.A., che ha depositato memoria nonché osservazioni scritte ex art. 379, comma 4, c.p.c. in replica alle conclusioni del P.G.
Considerato in diritto
1. Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia “Omessa o insufficiente motivazione su un punto di fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.”.
Sostiene che da tutti gli elementi di fatto evidenziati nei passaggi dell’atto di appello, trascritti in ricorso, derivava la correttezza dell’impostazione sottesa alla pretesa erariale, secondo la quale il componente positivo risultante dalla svalutazione del prestito obbligazionario andava a concorrere alla formazione del valore della produzione netta a fini IRAP, ai sensi dell’art. 6, comma 1 bis, lett. a) del D.Lgs. n. 446/97 (applicabile ratione temporis). La C.T.R. avrebbe dovuto esaminare le suddette allegazioni ed indicare le ragioni per le quali riteneva le stesse infondate; di tale doverosa disamina non vi era traccia nella sentenza impugnata, con conseguente sussistenza del vizio denunciato.
Formula il seguente momento di sintesi: “fatto decisivo e controverso del giudizio era la qualificazione delle diverse operazioni intercorse tra le parti in relazione all’acquisizione del pacchetto di controllo della O. da parte della società O.; dalla qualificazione quale contratto complesso finalizzato alla concessione di uno sconto per sopravvenuta eccessiva onerosità delle operazioni poste in essere tra le parti ovvero dalla loro corretta scomposizione quali singole operazioni dotate di una valenza autonoma derivava la correttezza del computo della svalutazione del prestito obbligazionario B. nel valore della produzione netta a fini IRAP ai sensi dell’art. 6, comma 1, bis, lett. a) del D.Igs. 446/97; la CTR ha aderito alla prospettazione della contribuente, omettendo qualunque valutazione degli elementi di fatto allegati dall’ufficio e riportati nel corpo del motivo, che avrebbero condotto ad una soluzione di segno opposto, in tal modo incorrendo nel vizio denunciato in rubrica”.
2. Il ricorso è inammissibile, in relazione a molteplici profili. Nella specie, trova applicazione ratione temporis il disposto dell’art. 366 bis c.p.c., essendo stata la sentenza impugnata pubblicata il 1° giugno 2009. Alla stregua di tale disposizione, il motivo di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 360 n. 5 c.p.c., deve contenere, a pena di inammissibilità, “la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.
L’onere di indicare chiaramente tale fatto e la sua decisività, nonché le ragioni per le quali la motivazione della sentenza impugnata è da ritenersi viziata, deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo e consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (ex plurimis, Cass. civ., sez. trib., 07-08-2015, n. 16602). Si è inoltre rilevato che la ratio che sottende la disposizione di cui all’art. 366 bis c.p.c., associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso in cassazione, impone di porre il giudice di legittimità in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito (Cass. civ., sez. trib., 18-11-2011, n. 24255).
Tanto premesso, ritiene la Corte che il momento di sintesi (c.d. quesito di fatto) formulato dalla ricorrente non corrisponda ai parametri fissati dalla giurisprudenza di legittimità. Ed invero, la ricorrente, prospettando quale fatto decisivo e controverso del giudizio la qualificazione delle diverse operazioni intercorse tra le parti in relazione all’acquisto delle azioni O., ha poi censurato la decisione impugnata per avere aderito alla prospettazione della contribuente secondo cui, ai fini della esclusione dalla base imponibile IRAP della svalutazione del prestito obbligazionario, le operazioni poste in essere tra le parti dovevano essere qualificate come contratto complesso finalizzato alla concessione di uno sconto per sopravvenuta eccessiva onerosità, e non – come sostenuto dall’Ufficio – quali singole operazioni dotate di una valenza autonoma, pervenendo la C.T.R. a tale conclusione omettendo qualunque valutazione degli elementi di fatto allegati dall’Ufficio, come riportati nel corpo del motivo, che avrebbero condotto ad una soluzione di segno opposto.
Appare dunque evidente come la ricorrente abbia indicato quale fatto controverso non uno specifico elemento fattuale, sia pure complesso, bensì una questione giuridica, concernente la qualificazione delle diverse operazioni intercorse tra le parti, in quanto tale inidonea ad integrare il requisito richiesto dall’art. 366 bis c.p.c. in relazione al vizio di motivazione.
Va, inoltre, osservato che non risultano adeguatamente esplicitate, nella formulazione del momento di sintesi, le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renderebbe inidonea a giustificare la decisione, essendosi limitata la ricorrente a richiamare – del tutto genericamente – le deduzioni formulate nei passaggi dell’atto di appello riportati nel corpo del motivo, senza tuttavia sinteticamente riportarle nel quesito, asserendo poi, in modo apodittico e senza alcuna argomentazione, che la loro valutazione avrebbe condotto ad una soluzione di segno opposto.
Le considerazioni sin qui espresse in merito alla formulazione del momento di sintesi rendono altresì palese un ulteriore profilo di inammissibilità del ricorso.
Giova premettere che l’art. 360 n. 5 c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, prevede l’«omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione», come riferita ad «un fatto controverso e decisivo per il giudizio» ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a «questioni» o «argomentazioni» che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (Cass., sez. trib., 08-10-2014, n. 21152). Analogamente, si è rilevato che il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell’art. 360 n. 5, c.p.c., come modificato dall’art. 2 D.Lgs. n. 40 del 2006, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il «fatto» controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per «fatto» non una «questione» o un «punto» della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo (Cass., sez. I, 08-09-2016, n. 17761).
Come innanzi evidenziato, la ricorrente ha censurato la qualificazione giuridica attribuita dalla C.T.R. alle operazioni poste in essere tra le parti, denunciando, nella sostanza, la questione inerente all’interpretazione data dal giudice di appello agli accordi negoziali intercorsi tra le due società, senza tuttavia porre a fondamento del lamentato vizio motivazionale un preciso accadimento o un determinato fatto storico. Va, al riguardo, osservato come costituisca principio di diritto consolidato quello secondo il quale, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass., sez. III, 10-02-2015, n. 2465). In definitiva, la ricorrente propone una diversa lettura delle risultanze processuali rispetto a quella operata dal giudice di merito, cui spetta invece, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (in termini, Cass. civ., sez. trib., 16-12-2011, n. 27197).
Anche sotto tale profilo, dunque, si manifesta la inammissibilità del ricorso, avendo la ricorrente censurato il risultato interpretativo cui è pervenuto il giudice di merito, limitandosi a prospettare una propria differente valutazione delle risultanze processuali, senza peraltro denunciare la violazione di specifici canoni ermeneutici.
3. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della T. S.p.A. delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 27.000,00, oltre rimborso forfetario nella misura del 15% ed accessori di legge.
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