CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 giugno 2017, n. 14088
Tributi – Professionista – Accertamento – Verifica movimentazioni bancarie – Ricavi non contabilizzati
Massima:
Alla Legge Finanziaria del 2005 ( L. n. 311 del 2004, artt. 402 e 403) deve riconoscersi funzione ampliativa dei poteri di indagine della Amministrazione finanziaria. Quest’ultima può ampliare la portata applicativa della prova presuntiva legale (artt. 32 – D.P.R. n. 600 del 1973- e 51- D.P.R. n. 633 del 1972- ) con riguardo non solo alle movimentazioni emergenti dai conti bancari ma anche a qualsiasi variazione della situazione economico-patrimoniale derivante da rapporti od operazioni bancarie, non giustificata dal contribuente, che può integrare il fatto noto – conseguimento di ricavi o corrispettivi – dal quale trarre come conseguenza il fatto ignorato – maggiore reddito prodotto da recuperare ad imponibile- Invece non può incidere sul rapporto di diritto sostanziale perché non deve individuare nuove componenti positive di reddito assoggettabili ad imposta
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle entrate emetteva nei confronti di S.D., esercente la professione di medico, avviso di accertamento di maggiori redditi, di un maggiore valore della produzione ed un maggior volume di affari, rispettivamente ai fini IRPEF, IRAP ed IVA, relativamente all’anno di imposta 2004, emersi a seguito della verifica delle movimentazioni bancarie effettuate dal predetto professionista nel periodo di imposta considerato.
2. L’impugnazione proposta dal contribuente avverso detto atto impositivo veniva accolta dalla Commissione tributaria provinciale di Latina e l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate veniva rigettato dalla Commissione tributaria regionale del Lazio con sentenza n. 916 del 27 dicembre 2011. Sosteneva la Commissione di appello che i giudici di primo grado avevano censurato la mancata allegazione all’atto notificato del provvedimento di autorizzazione alle indagini bancarie, mentre il motivo di appello proposto dall’ufficio concerneva l’obbligo di motivazione del predetto provvedimento, che la produzione di quest’ultimo in appello era irrituale e priva di rilevanza, che non era applicabile retroattivamente la legge n. 311 del 2004, artt. 402 e 403 (di modifica degli artt. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 d.P.R. n. 633 del 1972), che incombeva all’amministrazione finanziaria l’onere di provare che le movimentazioni bancarie costituissero <ricavi non contabilizzati> del professionista, che il contribuente aveva adempiuto al proprio onere probatorio dimostrando che tutte le operazioni finanziarie contestate dall’ufficio finanziario, peraltro quasi tutte effettuate con bonifici, erano transitate sul conto corrente.
3. Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. L’intimato replica con controricorso e memorie illustrative.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 182 cod. proc. civ. nonché 12, comma 1, e 3 d.lgs. n. 546 del 1992, sostenendo che i giudici di appello avevano omesso di rilevare <l’inesistenza e/o la mancanza e, comunque, l’irritualità della procura alle liti> che il contribuente avrebbe rilasciato al nuovo difensore per il grado di appello.
1.1 Il motivo, prima ancora che infondato, è inammissibile.
1.2. Al riguardo deve darsi continuità al principio affermato da questo Giudice di legittimità, secondo cui <la parte che propone ricorso per cassazione, deducendo la nullità della sentenza per un vizio dell’attività del giudice, lesivo del proprio diritto di difesa, ha l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che, nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, l’impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole a quella cassata> (ex multis, Cass. n. 26157 del 2014)
1.3. Premesso che <nel processo tributario, è ammissibile la costituzione dell’appellato in udienza, senza l’osservanza dei termini e dei modi indicati nell’art. 23 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, atteso che la sanzione processuale dell’inammissibilità non è prevista dalla norma e la sua applicazione impedirebbe alla parte, in violazione dell’art. 24 Cost., di partecipare alla discussione orale della causa all’udienza e di esercitare il diritto fondamentale alla difesa, confutando le ragioni della controparte e la ricorrenza delle norme da questa invocate> (Cass. n. 2925 del 2010), nel caso di specie la ricorrente nulla ha dedotto in merito al pregiudizio subito dalla dedotta mancanza della procura nelle <memorie e comparsa di risposta> depositate dal contribuente nel giudizio di appello e, quindi, dalla (eventuale) irregolarità della costituzione dell’appellato, non essendo ciò ricavabile, sic et simpliciter, dal rigetto dell’impugnazione proposta dall’ufficio finanziario avverso la sentenza di primo grado.
2. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 58, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, sostenendo che aveva errato il giudice di appello nel ritenere irrituale ed irrilevante la produzione in quel grado di giudizio dell’atto autorizzativo delle indagini bancarie.
2.1. Il motivo, che è ammissibile ancorché proposto ai sensi del n. 3, anziché del n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., stante la chiara esposizione delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta – secondo l’indirizzo meno formalistico propugnato dalle Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 17931 del 2013, cui deve aderirsi, sufficiente a superare il profilo di inammissibilità del motivo di ricorso erroneamente prospettato – è palesemente fondato, in quanto <in materia di contenzioso tributario, l’art. 58 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, consente la produzione nel giudizio di appello di qualsiasi documento, pur se già disponibile in precedenza> (cfr. Cass. n. 22776 del 2015) ed il giudice d’appello può fondarvi la propria decisione (Cass. n. 3661 del 2015).
2.2. E’, quindi, incorso in evidente errore di diritto il giudice di appello che ha ritenuto quel documento (atto autorizzativo alle indagini bancarie) <irrituale e di alcuna rilevanza>, precisandosi al riguardo che il contenuto dello stesso non ampliava il thema decidendum, in quanto l’eccezione, che quel documento era finalizzato a superare, era stata proposta in giudizio proprio dal contribuente (v. pag. 5 del controricorso) e che la controparte, ove avesse voluto censurarne il contenuto, avrebbe potuto farlo ai sensi del combinato disposto dagli artt. 24 e 61 d.lgs. n. 546 del 1992.
3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, come modificato all’art. 1, comma 402 della legge n. 311 del 2004 (c.d. Legge Finanziaria 2005), per avere la CTR ritenuto inapplicabile retroattivamente la <novella contenuta nella legge 311/04> ancorché la possibilità di effettuare accertamenti bancari a carico di soggetti diversi dagli imprenditori, quali artigiani e professionisti fosse consentita in forza della citata disposizione anche anteriormente alle modifiche apportate nel 2004.
3.1. Il motivo è fondato e va accolto, atteso che è orientamento consolidato, al quale questo Collegio intende dare continuità, quello secondo cui la presunzione legale posta dall’art. 32 d.p.r. citato, <doveva ritenersi applicabile, fin dall’origine, a tutti i redditi derivanti non soltanto dall’esercizio della impresa (i prelevamenti vengono imputati a “ricavi”) ma anche da lavoro autonomo – arti o professioni – (i prelevamenti vengono imputati a “compensi”), e dunque la modifica introdotta dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 402 si è limitata a chiarire in modo espresso tale interpretazione secondo la quale, già in precedenza, alla espressione “ricavi” doveva essere attribuita valenza onnicomprensiva di qualsiasi incremento reddituale, senza distinzione tra le differenti voci di reddito> (Cass. n. 14026 del 2012, che richiama, altresì, Cass. n. 4601 del 2002; n. 11750 del 2008; n. 14041 del 2011), avendosi avuto cura di precisare (nella sent. n. 14026/2012 cit.) che <alle modifiche normative apportate dalla Legge Finanziaria del 2005 deve riconoscersi, da un lato, funzione esplicativa del maggiore imponibile che è oggetto della presunzione speciale prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), dall’altro funzione ampliativa dei poteri di indagine della Amministrazione finanziaria>, e <non investe – modificando retroattivamente gli effetti già prodotti – il momento genetico, né il momento funzionale dei rapporti tributari già insorti in data anteriore la entrata in vigore della legge. Le nuove norme, infatti, non incidono sul rapporto di diritto sostanziale, in quanto non individuano nuove componenti positive di reddito assoggettabili ad imposta, precedentemente esenti, né modificano le precedenti aliquote d’imposta, né ancora immutano gli elementi costitutivi del presupposto d’imposta, né intervengono a sanzionare condotte precedentemente lecite, limitandosi soltanto ad ampliare la portata applicativa della prova presuntiva legale (non solo le movimentazioni emergenti dai “conti bancari” ma qualsiasi variazione della situazione economico-patrimoniale “derivante da rapporti od operazioni bancarie”, non giustificata dal contribuente, può integrare il fatto noto – conseguimento di ricavi o corrispettivi – dal quale trarre come conseguenza il fatto ignorato – maggiore reddito prodotto da recuperare ad imponibile)>.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 e 2728 cod. civ., sostenendo che aveva errato la CTR nel porre a carico dell’amministrazione finanziaria un onere probatorio che non le competeva, ponendo il citato art. 32 una presunzione legale a favore della medesima che spettava, invece, al contribuente superare, fornendo la prova di aver contabilizzato gli importi risultanti dalle movimentazioni bancarie o che questi fossero estranei ad operazioni imponibili.
5. Con il quinto motivo deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata per avere i giudici di appello annullato l’atto impositivo recependo acriticamente le argomentazioni del contribuente, omettendo l’esame analitico dei singoli versamenti e della relativa giustificazione ed i rilievi dell’ufficio finanziario trascritti, per autosufficienza, nel motivo e consistenti nella <apoditticità di alcune giustificazioni (cambio assegni a favore di soggetti a volte non identificati lett. N, O, P, Q, R, U), prelevamenti per spese personali non documentate (E, G, I, M, Sentenza, Z), pagamenti società recupero crediti in assenza di qualsivoglia giustificativo (V), generici rapporti di corrispondenza a fronte di dichiarati prestiti (lett. A, B, D)> (ricorso pag. 24).
6. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati e vanno accolti.
6.1. La statuizione della sentenza impugnata, secondo cui <le movimentazioni bancarie, sul conto riferibile al contribuente, non conducono inequivocabilmente a ricavi non contabilizzati ed il contribuente non ha l’obbligo e l’onere di allegare in sede contenziosa l’eventuale documentazione per dimostrare la loro imputabilità a rapporti diversi, pertanto è l’ufficio che deve dare la prova della corrispondenza alla realtà dell’imputazione> (sentenza pag. 3, lett. c)), <si pone in palese contrasto con la disciplina della prova presuntiva legale, suscettibile di prova contraria, prevista ai fini della determinazione del maggiore reddito imponibile, atteso che tanto la presunzione, stabilita dall’art. 51, secondo comma, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in tema di accertamento dell’IVA (secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 del medesimo decreto presidenziale, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili), quanto la presunzione di cui alla analoga norma dell’art. 32, primo comma, n. 2, Dpr n. 600/1973, dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), presentano un contenuto complesso, consentendo di riferire a redditi/ricavi imponibili tutti i movimenti bancari rilevati dal conto all’attività economica svolta dal contribuente, qualificando gli “accrediti” come ricavi, e> (ove trattasi di imprenditori, per come si dirà in seguito) <gli “addebiti” egualmente come manifestazione di ricchezza in quanto considerati spese per corrispettivi versati per acquisti di beni e servizi reimpiegati nella produzione di maggiori ricavi di ammontare non inferiore agli importi prelevati: la presunzione legale “juris tantum”, può essere vinta dal contribuente soltanto se offre la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti e gli addebiti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che vengano indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 26692 del 06/12/2005; id. Sez. 5, Sentenza n 20199 del 24/09/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 16650 del 29/07/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 26173 del 06/12/2011 -con riferimento all’art. 32 Dpr n. 600/73 in materia di imposte sui redditi- ; id. Sez. 5, Sentenza n. 15217 del 12/09/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 1418 del 22/01/2013; id. Sez. 5, Ordinanza n. 6595 del 15/03/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 21303 del 18/09/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 20668 del 01/10/2014. La presunzione legale in questione ha superato il vaglio di costituzionalità in relazione agli artt. 3 e 53 Cost. -sentenza Corte cost. in data 8 giugno 2005 n. 225-: cfr. Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13036 del 24/07/2012. Vedi Corte cost. ord. in data 6.7.2000 n. 260; Corte cost. ord. in data 23.5.2008 n. 173; Corte cost. sentenza in data 6.10.2014 n. 228)> (così in Cass. 26111 del 2015).
6.2. Nel caso di specie, inoltre, poiché il contribuente un lavoratore autonomo e non un imprenditore, dovrà tenersi conto della pronuncia della Corte costituzionale da ultimo citata (n. 228 del 2014) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della sopra riportata disposizione <limitatamente alle parole “o compensi”>, ritenendo che la presunzione posta dalla citata norma con riferimento ai compensi percepiti dai lavoratori autonomi fosse <lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito>. E’, pertanto, definitivamente venuta meno la presunzione di imputazione dei prelevamenti operati sui conti correnti bancari ai ricavi conseguiti nella propria attività dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale, che la citata disposizione poneva, spostandosi, quindi, sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare che i prelevamenti ingiustificati dal conto corrente bancario e non annotati nelle scritture contabili, siano stati utilizzati dal libero professionista per acquisti inerenti alla produzione del reddito, conseguendone dei ricavi.
6.3. Con riferimento ai versamenti effettuati dai predetti soggetti (lavoratori autonomi) sui propri conti correnti, come si è detto sopra, resta invariata la presunzione legale posta dalla predetta disposizione a favore dell’Erario, che data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 cod. civ. per le presunzioni semplici, superabile da prova contraria fornita dal contribuente (Cass. n. 6237 del 2015 e n. 9078 del 2016), “il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili” (Cass. sent. n. 18081 del 2010; cfr. anche sent. n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014).
6.4. Pare opportuno precisare, infine, che le disposizioni in esame vincolano anche il giudice, <il quale non può limitarsi ad un accertamento generico e non puntuale degli elementi di prova contraria offerti dal contribuente, dovendoli invece sottoporre ad attenta verifica, individuando analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative> (Cass., Sez. 6 – 5, ord. n. 7694 del 2016 che cita, tra le altre, Cass. sent. n. 25502 del 2011, n. 25365 del 2007; sent. n. 16896 del 2014 ed ord. n. 2781 del 12/02/2015) e men che mai all’equità (Cass., sez. 6 – 5, ord. n. 13035 del 24/07/2012; v. anche Cass. sez. 5, n. 2958 del 10/02/2006,secondo cui <In tema di IVA, non è consentito al giudice di far ricorso a criteri di equità, mutando il sistema di determinazione del reddito imponibile ai fini delle imposte dirette allo scopo di determinare il volume di affari ai fini dell’IVA, che sconta unicamente il regime di detrazioni d’imposta fissato dall’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633>).
6.5. A tali principi non si è attenuta la CTR che ha reso sul punto una motivazione davvero insufficiente ed incongrua rispetto alla questione posta nel giudizio, essendo del tutto irrilevante, alla stregua dei principi giurisprudenziali sopra riportati, che <le operazioni finanziarie contestate dall’ufficio […] sono transitate sul C/C dell’odierno appellato>, che le stesse siano <transazioni effettuate con bonifici bancari>, non avendo il giudice di merito esternato, né essendo comprensibile dal supporto motivazionale della sentenza, come tali circostanze comportino adempimento da parte del contribuente dell’onere probatorio sul medesimo incombente, incorrendo la CTR anche in evidente contraddizione laddove, dapprima esclude che tale onere gravasse sul contribuente (lett. c) della motivazione) e poi afferma che invece tale onere sia stato efficacemente adempiuto (lett. d) della motivazione).
7. In estrema sintesi, va dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso, accolti gli altri, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, per nuovo esame e per la regolamentazione delle spese processuali, alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione.
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