CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 giugno 2017, n. 14137
Tributi – Accertamento – Reddito d’impresa – Prestazioni di servizi – Sanzioni tributarie
Massima:
La sanzione pecuniaria per violazione della disciplina antitrust non può essere inserita nelle sopravvenienze passive poiché non deriva da un’attività connessa all’ esercizio dell’impresa – anzi appare antitetica al suo corretto svolgimento-. Pertanto la sua irrogazione e il relativo importo non è un costo deducibile dal reddito imprenditoriale perché si neutralizzerebbe la ratio punitiva della penalità se si trasformasse in un risparmio d’imposta – sostanzialmente il suo inserimento tra i costi configurerebbe un premio per le imprese che abbiano agito in violazione delle norme antitrust
Fatti di causa
Pagata una sanzione antitrust inflittale dalla Comunità europea, B.U. s.p.a. ne deduceva l’equivalente dal reddito imponibile e con fatture ne addebitava una quota a proprie controllate successivamente incorporate; era quindi raggiunta in data 5 agosto 2005 da due avvisi di accertamento per il recupero sia dell’IRPEG non versata che dell’IVA detratta.
La Commissione tributaria provinciale di Alessandria accoglieva l’impugnazione degli avvisi di accertamento unicamente quanto alle sanzioni tributarie, annullandole per l’esimente dell’incertezza normativa.
La Commissione tributaria regionale del Piemonte respingeva l’appello della società riguardo al debito principale, come anche l’appello incidentale dell’ufficio riguardo alle annullate sanzioni. B.U. ricorre per cassazione con due motivi, illustrati da memoria.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso e formula ricorso incidentale.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 25 e 53 Cost., art. 75 (oggi 109) d.P.R. 917/1986, per aver il giudice d’appello confermato l’indeducibilità delle sanzioni antitrust ai fini IRPEG.
1.1. Il motivo è infondato.
La Corte ha ormai chiarito che la sanzione antitrust non è un costo deducibile dal reddito d’impresa ai sensi dell’art. 75 d.P.R. 917/1986, poiché essa non è funzionale alla produzione di quel reddito (Cass. 11 aprile 2011, n. 8135, Rv. 617641).
Detta sanzione non può essere qualificata come sopravvenienza passiva del reddito d’impresa, attesa l’impossibilità di collegarla a ricavi o altri proventi (Cass. 3 marzo 2010, n. 5050, Rv. 611823).
D’altronde, la condotta anticoncorrenziale non può integrare un fattore produttivo, essendo non soltanto autonoma ed esterna rispetto alla normale vita dell’impresa, ma radicalmente antitetica al suo corretto andamento, sicché l’imputazione della sanzione antitrust al reddito d’impresa quale sopravvenienza passiva neutralizzerebbe la ratio punitiva della misura, trasformandola in un risparmio d’imposta (Cass. 26 ottobre 2012, n. 18368, Rv. 624230).
Questo orientamento resiste agli argomenti del ricorso principale, ove la deducibilità della sanzione antitrust è affermata perché: a) l’indeducibilità amplificherebbe l’effetto sanzionatorio della misura, in spregio ai princìpi di legalità e capacità contributiva; b) trattasi di un costo inerente all’impresa, in quanto conseguente ad opzioni imprenditoriali; c) trattasi di una sanzione di natura risarcitoria, o quantomeno a componente risarcitoria; d) trattasi di illeciti non penali, mentre l’art. 14, comma 4-bis, I. 537/1993 esclude la deduzione solo per i costi dei fatti-reato.
In senso contrario deve ribadirsi che: a1) l’indeducibilità non è una sanzione addizionale, bensì l’effetto obiettivo della natura extraimprenditoriale dell’attività illecita; b1) l’illiceità della condotta spezza il nesso di inerenza all’attività d’impresa; c1) non può avere componenti risarcitorie una sanzione prescindente dalla diretta correlazione con un evento di danno; d1 ) l’art. 14, comma 4-bis, I. 537/1993 riguarda «costi» e «spese» funzionali all’illecito, viceversa la sanzione non è un mezzo dell’illecito, bensì un suo effetto giuridico.
Conforme a una giurisprudenza interna ormai consolidata, questa ricostruzione aderisce inoltre alla giurisprudenza unionale, ove si è rimarcato come l’efficacia della sanzione inflitta a garanzia della concorrenza potrebbe essere sensibilmente ridotta dalla sua deducibilità fiscale, che avrebbe l’effetto di compensarne il peso con una diminuzione degli oneri tributari (Corte giust. 11 giugno 2009, C-429/07, Inspecteur van de Belastingdienst).
2. Il secondo motivo del ricorso principale denuncia omissione di pronuncia, in subordine omissione di motivazione, in ulteriore subordine violazione o falsa applicazione degli artt. 3 e 19 d.P.R. 633/1972, per aver il giudice d’appello pretermesso la censura attinente alla detrazione dell’IVA sulle fatture di riaddebito infragruppo dell’onere sanzionatorio.
2.1. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente principale sostiene di aver posto in essere la condotta anticoncorrenziale anche nell’interesse delle società controllate e riaddebitate, così fornendo loro «prestazioni di servizi».
Tuttavia, per essere rilevante ai fini IVA, a norma dell’art. 3 d.P.R. 633/1972, la prestazione di servizi deve avere una base obbligatoria, seppur a fonte aperta; base obbligatoria neppure dedotta nella fattispecie, giacché questa attiene a una condotta illecita.
La prestazione di che trattasi è fuori campo IVA per difetto del requisito oggettivo dell’imposta.
Quindi, l’omissione di pronuncia del giudice d’appello non risulta decisiva.
3. Il ricorso incidentale denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 8 d.lgs. 546/1992, art. 6 d.lgs. 472/1997, per aver il giudice d’appello confermato l’esimente dell’incertezza normativa.
3.1. Il ricorso è infondato.
Il giudice d’appello ha ritenuto che la sussistenza di un indirizzo dottrinale favorevole alla rilevanza fiscale degli oneri sanzionatori determinasse un’obiettiva incertezza normativa.
Tra i c.d. fatti-indice dell’incertezza normativa la Corte annovera anche il contrasto tra opinioni dottrinali (Cass. 29 luglio 2014, n. 17250, Rv. 632243; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26030, Rv. 638206).
Non si configura una violazione di legge, quindi, né l’Agenzia delle entrate ha denunciato un’insufficienza motivazionale (come pure avrebbe potuto, vigente ratione temporis l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. anteriore alla I. 134/2012).
4. Rigettati entrambi i ricorsi, le spese sono compensate per reciproca soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e l’incidentale, compensando le spese di giudizio.
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