CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 giugno 2017, n. 14189
Collocamento obbligatorio – Mobbing – Esercizio vessatorio del potere datoriale – Danno alla salute – Risarcimento
Rilevato
Che con sentenza in data 3/03/2011 la Corte d’Appello di Venezia, a conferma della decisione del Tribunale di Padova n. 571/2008 ha rigettato il ricorso di M.C.M., dall’11/03/1996 al 30/11/1998 dipendente di A.P.S. s.r.l., assunta dalle liste del collocamento obbligatorio con la quaalifica d’impiegata amministrativa e inquadramento nel V livello c.c.n.l. del settore terziario, la quale si doleva di un complessivo comportamento vessatorio, persecutorio e mobizzante, tenuto nei suoi confronti dalla datrice di lavoro fin dall’inizio del rapporto e ne chiedeva la condanna al risarcimento del danno subito;
Che avverso tale sentenza M.C.M. interpone ricorso in Cassazione affidato a due motivi, cui resiste A.P.S. s.r.l. con controricorso la quale deposita altresì memoria difensiva.
Considerato
Che con il ricorso è denunciata:
1. La violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2049, 2103 cod. civ. in relazione all’art. 176 del c.c.n.I. del settore terziario e all’art. 32 Cost. per avere, la sentenza gravata, dato un’interpretazione eccessivamente restrittiva della normativa vigente, nell’ammettere che, seppure l’esame probatorio orale aveva palesato condotte vessatorie nei confronti della ricorrente, esse non erano tali da configurare un vero e proprio intento persecutorio da parte della datrice di lavoro, ma, tutt’al più, la sussistenza di una più lieve forma di straining, inteso come mero disagio o malessere causato dall’ambiente di lavoro nel suo complesso, dunque, al di fuori di un sistematico, ripetuto e continuativo esercizio vessatorio del potere datoriale;
2. L’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, che parte ricorrente riscontra nell’omessa valutazione degli esiti della C.t.u. rinnovata in secondo grado, dove si riconosceva la sussistenza del nesso causale tra il fatto contestato e il danno alla salute della ricorrente ex art. 2087 cod. civ.;
Che quanto al primo motivo si rileva un profilo assorbente d’improcedibilità del ricorso. Non risulta, infatti, depositato il contratto collettivo della cui violazione o falsa applicazione la ricorrente si duole in questa sede, riguardante un obbligo di legge (art. 369 cod. proc. civ., così come modificato dal d.lgs. n. 40/2006) che, secondo il costante orientamento di questa Corte non si limita al solo l’estratto delle singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, bensì si estende all’integrale testo del contratto o accordo collettivo di livello nazionale contenente le disposizioni di cui si domanda l’applicazione, dovendo tale adempimento rispondere alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di Cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione del contratto collettivo di livello nazionale (per tutte Cass. sez. lav., n. 4350/2015);
Che l’onere del deposito così come contemplato dalla novella dell’art. 369 cod. proc. civ. può dirsi soddisfatto solo con il deposito da parte del ricorrente dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, circostanza, questa che non ricorre nel caso esaminato, dove del c.c.n.I. del settore terziario non si fa menzione neanche nell’elencazione in calce al presente ricorso, subito dopo le conclusioni, non essendo sufficiente, ai fini che qui interessano, il mero richiamo ai fascicoli del giudizio di merito;
Che comunque la Corte del merito con accertamento di fatto, come tale insindacabile in questa sede di legittimità, pone a base del suo decisum, il fondante rilevo secondo il quale non vi è una sistematicità di condotte vessatorie aventi finalità persecutorie trovando tutti i comportamenti denunciati una motivata giustificazione e quindi tale da escludere il nesso causale;
Che quanto al secondo motivo la ricorrente, non ha riportato integralmente il testo della Ctu, in violazione del criterio di autosufficienza del ricorso;
Che, sempre in merito alla funzione della Ctu, parte ricorrente mostra di attribuirvi valore di mezzo di prova, mentre essa è mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, come ritenuto dal consolidato orientamento di questa Corte, al fine di valutare elementi acquisiti o questioni fondanti la pretesa dedotta in giudizio che richiedono specifiche conoscenze (Cass., sez. 3, n. 6155/2009; Cass., sez. 1, n. 15219/2007);
Che la motivazione esprime nel suo iter logico argomentativo le ragioni che hanno indotto la Corte territoriale a escludere la ricorrenza del comportamento mobizzante in capo alla datrice di lavoro, rendendo superflua l’analisi delle risultanze della rinnovata CTU, la quale, costituendo non un mezzo di prova, bensì un ausilio istruttorio per il giudice, non avrebbe potuto condurre con certezza ad una decisione difforme da quella assunta;
Che il giudice del gravame, nel suo libero convincimento, ha inteso privilegiare la ricostruzione delle risultanze probatorie che a suo giudizio sorreggesse meglio la motivazione, secondo un prudente apprezzamento del fatto, di cui egli è interprete in via esclusiva;
Che, pertanto, il ricorso va rigettato con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3.500 per compensi professionali, 200 per esborsi, oltre le spese generali al 15% ed oneri di legge.
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