Agevolazioni “prima casa” – Immobile di lusso – Potestà di revocare l’agevolazione
Svolgimento del giudizio
E.S. propone due articolati motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 95/28/12 del 21 maggio 2012 con la quale la commissione tributaria regionale del Lazio, in riforma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione ed irrogazione di sanzioni notificatole dall’agenzia delle entrate (il 12 gennaio 2010) a titolo di decadenza dalle agevolazioni “prima casa” fruite sull’acquisto (registrato il 14 febbraio 2007) di un immobile in Roma, località Olgiata, reputato di lusso.
In particolare, ha ritenuto la commissione tributaria regionale che:
– l’amministrazione finanziaria non fosse decaduta dalla potestà di revoca, applicandosi nella specie non già il termine biennale di cui all’articolo 76, co.1 bis, d.P.R. 131/86, bensì quello triennale di cui al secondo comma della medesima disposizione (stante il rilascio in atto di dichiarazioni mendaci sulle caratteristiche non di lusso dell’immobile compravenduto);
– la revoca dalla agevolazione fosse fondata, trattandosi nella specie di immobile di lusso ai sensi degli articoli 5 e 6 D.M. 2 agosto 1969 (“cat.A/7, cl.8, vani 24, con superficie utile abitativa di oltre 200 m2, ed avente area di pertinenza scoperta che supera di gran lunga di sei volte l’area coperta”).
L’agenzia delle entrate si è costituita al solo fine dell’eventuale discussione in udienza.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la S. lamenta violazione o falsa applicazione dell’articolo 57 d.lgs. 546/92, omessa pronuncia, nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Per non avere la commissione tributaria regionale pronunciato alcunché sulla dedotta inammissibilità dell’eccezione opposta dall’agenzia delle entrate, per la prima volta in appello, sull’applicabilità nella specie del termine triennale di decadenza di cui al secondo comma dell’articolo 76 d.P.R. 131/86 cit..
Il motivo è infondato sotto tutti i profili nei quali si articola (nn.3, 4 e 5 art. 360 1° co. cod. proc. civ.).
La commissione tributaria regionale ha dato correttamente ingresso al motivo di appello basato dall’agenzia delle entrate sull’erronea applicazione alla fattispecie, da parte del primo giudice, del termine di decadenza biennale di cui all’articolo 76, co.1 bis cit., in luogo del termine triennale di cui al 2° co. della disposizione in oggetto.
Nel prendere in esame tale questione, il giudice di secondo grado ha ritenuto di implicitamente disattendere l’eccezione di inammissibilità mossa dalla contribuente, non ravvisando nella specie la paventata violazione del divieto di novità in appello ex art. 57 d.lgs. 546/92.
Tale conclusione deve ritenersi giuridicamente corretta, dal momento che il divieto di nuove eccezioni in appello si riferisce esclusivamente alle eccezioni in senso stretto o proprio, rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se manchi l’allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo. Detto divieto non può mai riguardare, pertanto, i fatti e le argomentazioni posti dalle parti medesime a fondamento della domanda, che costituiscano oggetto di accertamento, esame e valutazione da parte del giudice di secondo grado; il quale, per effetto dell’impugnazione, deve a sua volta pronunciarsi sulla domanda accolta dal primo giudice, riesaminando perciò fatti, allegazioni probatorie ed argomentazioni giuridiche che rilevino per la decisione (Cass. 6391/13 ed altre).
Nel caso di specie, la questione della decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà impositiva era stata affrontata dal primo giudice in accoglimento dell’eccezione di perenzione mossa dalla contribuente; ed è proprio su tale presupposto – la sua deduzione a fondamento dell’accoglimento in primo grado del ricorso introduttivo – che l’amministrazione finanziaria ha formulato uno specifico motivo di appello rimarcando l’errore di diritto nel quale era incorsa la commissione tributaria provinciale (sotto il profilo della applicabilità, nel caso in esame, del termine di decadenza triennale, e non biennale).
Si trattava dunque, non già di sostenere l’avviso di liquidazione sulla base di una ragione di revoca della agevolazione “prima casa” diversa da quella inizialmente formulata e tenuta ferma per tutto il corso del giudizio (immobile di lusso); e nemmeno di estendere il contraddittorio all’accertamento di “fatti” diversi da quelli dedotti fin dall’avviso di liquidazione medesimo (tipologia e caratteristiche di lusso dell’immobile compravenduto), bensì di individuare il più appropriato regime giuridico della fattispecie decadenziale nell’ambito delle varie ipotesi contemplate dall’articolo 76, cit..
Non era dunque qui invocabile il divieto di novità in appello, dal momento che la questione posta dall’agenzia delle entrate in appello si poneva in diretta ed immediata consequenzialità non già con il contenuto impositivo dell’avviso di liquidazione ed i fatti costitutivi della pretesa tributaria, bensì con la stessa pronuncia di primo grado che aveva ravvisato la decadenza biennale all’esito di una determinata, e non condivisa, applicazione normativa.
Così facendo, l’ufficio ha devoluto al giudice di appello una questione non nuova né integrante eccezione in senso stretto, in quanto: – già dibattuta nel corso del primo grado di giudizio; – insuscettibile di determinare la necessità di prova o decisione su nuovi e diversi fatti materiali; – correlata all’individuazione del più pertinente regime giuridico.
Aspetto, quest’ultimo, che anzi esulava dai limiti dello stesso potere dispositivo delle parti, per senz’altro rientrare nel potere/dovere ufficioso del giudice.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360, 1° co. nn. 3 e 5 cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’articolo 76, secondo comma, d.P.R. 131/86, nonché omessa motivazione su un aspetto decisivo e controverso del giudizio; costituito dal fatto che il termine triennale di decadenza doveva ex lege riferirsi unicamente al caso di mendacità delle dichiarazioni concernenti aspetti (residenza nel comune di ubicazione dell’immobile acquistato con l’agevolazione; assenza di altri immobili in proprietà; mancata pregressa fruizione dell’agevolazione; intento di destinazione abitativa) tutt’affatto diversi da quello qui contestato (immobile di lusso). Dal che derivava l’applicazione nella specie del termine biennale previsto dall’articolo 76, co.1 bis, cit., relativo all’accertamento di maggior imposta.
Nemmeno questo motivo può trovare accoglimento.
Si ritiene infatti che non vi siano ragioni per discostarsi dall’ orientamento di legittimità, secondo cui: a. in base all’art. 42, comma primo, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, l’imposta di registro liquidata dall’ufficio a seguito dell’accertata insussistenza dei presupposti del trattamento agevolato in relazione all’acquisto della “prima casa”, applicato al momento della registrazione dell’atto di trasferimento della proprietà di un bene immobile (nella specie, la natura di abitazione non di lusso dell’immobile trasferito), va qualificata come imposta “complementare”; non rientrando nelle altre specie, positivamente definite, dell’imposta “principale” (in quanto applicata in un momento successivo alla registrazione) e dell’imposta “suppletiva” (in quanto, rivedendo “a posteriori” il criterio di liquidazione in precedenza seguito, non è rivolta ad emendare errori od omissioni commessi dall’ufficio in sede di registrazione); b. in conseguenza di ciò, ai sensi dell’art. 76, secondo comma, del d.P.R. n. 131 del 1986, la pretesa in questione deve essere fatta valere con apposito atto di imposizione tributaria entro il termine di decadenza di tre anni, da ritenere decorrente – in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 2964 cod. civ. – dalla data della registrazione, a partire dalla quale l’ufficio del registro ha la facoltà di contestare al contribuente la perdita del trattamento agevolato (Cass. n. 26407 del 05/12/2005).
Quest’ultima decisione ha posto, in particolare, in evidenza che: – la revoca dell’agevolazione non investe “un accertamento d’imponibile maggiore rispetto a quello dichiarato, che è stato ritenuto congruo dall’ufficio, perché il contribuente ha solo chiesto l’applicazione di una riduzione della quantità del contenuto dell’imposta basandosi sull’attribuzione al bene, oggetto dell’atto registrato, di una natura idonea a beneficiare del beneficio della prima casa”) – conseguentemente, l’atto impositivo adottato dall’ufficio, “ancorché denominato avviso di liquidazione, attribuendo al bene oggetto dell’atto da registrare una natura diversa da quella affermata dal contribuente nella sua richiesta di registrazione o nell’atto registrato, non ha come contenuto di specie una mera operazione liquidatoria, ma ha, in realtà, per contenuto di specie una nuova e diversa pretesa impositiva, perché essa presuppone una qualità dell’oggetto dell’imposta diversa da quella identificata e attribuita dal contribuente”; – sicché, in tal caso, l’ufficio tributario definisce “il bene oggetto dell’atto registrato come privo delle caratteristiche deH’edilizia economica e popolare”, così operando “una qualificazione diversa da quella asserita dal contribuente, facendo venir meno il presupposto per l’esercizio del potere di mera liquidazione”; per cui “quello che l’amministrazione finanziaria ha chiamato avviso di liquidazione è, dunque, un vero e proprio atto di accertamento, e la relativa imposta applicata e pretesa è un’imposta di registro complementare”; – trattandosi, dunque, di imposta di registro complementare, la relativa pretesa dev’essere fatta valere, con apposito atto d’imposizione tributaria, entro il termine decadenziale di tre anni dalla data della registrazione, ai sensi del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 76, 2° co..; poiché è da questo momento che, ponendo in essere il comportamento assoggettato a decadenza ex art. 2964 cod. civ., l’ufficio ha la facoltà di contestare al contribuente la perdita del trattamento agevolato (Cass. SSUU 1196/00; Cass.12988/03).
Si tratta di orientamento in continuità con quelle decisioni che hanno messo in evidenza come la liquidazione dell’imposta dovuta a seguito di revoca dell’agevolazione sull’acquisto di immobile di lusso si ponga all’esito di una dichiarazione del contribuente che – nel definire invece non di lusso l’immobile compravenduto – si qualifica come mendace.
In tal senso si è espressa Cass. n. 9150/00 (in termini: Cass. 8748/02), secondo cui: (l’eccezione è infondata) “se si tiene conto della struttura del meccanismo, prefigurato dalla legge n.168 del 1982 (e dalle altre che si sono succedute nel tempo fino alla vigente formulazione dell’art. 1 e della nota II-bis all’art. 1 della Parte I della Tariffa allegata al d.P.R. n.131 del 1986, introdotta, rispettivamente, dall’art. 16 comma 1 del d.l. n. 155 del 1993 cit. e dall’art. 3 comma 131 della legge n.549 del 1995; cfr. anche, per l’i.v.a., l’attuale formulazione del n.21 della Parte II della Tabella A allegata al d.P.R. n.633 del 1972 cit.), che disciplina il regime agevolativo in questione. Infatti, l’agevolazione è applicata dall’ufficio del registro, che liquida la relativa imposta principale, al momento della registrazione dell’atto, sulla base delle sole dichiarazioni in esso contenute da parte di chi ritiene di averne diritto (cfr. combinato disposto degli artt. 16 comma 1 e 54 comma 1 del d.P.R. n.131 del 1986); l’accertamento (successivo, in forza degli strumenti, diretti ed indiretti, predisposti dalla legge), da parte dell’ufficio, della insussistenza del carattere “non di lusso” dell’abitazione (come di ogni altro requisito) determina la decadenza dell’agevolazione per “dichiarazione mendace” e l’applicazione dell’imposta (complementare) di registro nella misura ordinaria e delle altre conseguenze “sanzionatone” previste dalla legge” (nel senso del mendacio, più di recente: Cass.13141/16).
La decisione della CTR qui impugnata deve pertanto ritenersi giuridicamente corretta, perché ha fatto puntuale applicazione di questi principi; con conseguente esclusione della eccepita decadenza dell’amministrazione finanziaria.
3. Si rileva come non risulti formulata – nella presente sede di legittimità – alcuna specifica censura (non potendo quest’ultima ritenersi integrata dalle generiche affermazioni riportate a pag.13 del ricorso per cassazione) sulla ulteriore ratio decidendi del giudice di appello (peraltro basata su considerazioni fattuali, per loro natura insindacabili in questa sede); ratio decidendi affermativa della legittimità della revoca dell’agevolazione vertendosi, nel caso concreto, di immobile di lusso secondo i su menzionati parametri tipologici ex artt. 5 e 6 D.M. 2 agosto 1969.
In proposito, va ancora osservato che i presupposti della revoca dell’agevolazione permangono integri anche alla luce dello jus superveniens di cui all’articolo 10, primo comma, lettera a) d.lgs. n.23/11 il quale, nel sostituire il secondo comma dell’art. 1 della Parte Prima Tariffa allegata al d.P.R. 131/86, ha sancito il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso – non ammesso, in quanto tale, al beneficio “prima casa” – sulla base dei parametri di cui al D.M. LL.PP. 2 agosto 1969.
In forza della disposizione sopravvenuta, infatti, l’esclusione dalla agevolazione non dipende più dalla concreta tipologia del bene e dalle sue intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie (individuate sulla base del suddetto D.M.), bensì dalla circostanza che la casa di abitazione oggetto di trasferimento sia iscritta in categoria catastale A1, A8 ovvero A9 (rispettivamente: abitazioni di tipo signorile; abitazioni in ville; castelli e palazzi con pregi artistici o storici).
Senonché, il nuovo regime trova applicazione ai trasferimenti imponibili realizzati successivamente alla modificazione legislativa; e, in particolare, successivamente al 1° gennaio 2014, come espressamente disposto dall’art. 10 co.5 d.lgs. 23/11 cit..
Il trasferimento dedotto nel presente giudizio, antecedente a questo discrimine temporale, continua pertanto ad essere disciplinato in base alla previgente disciplina; come detto incentrata sui requisiti del citato D.M..
Fermo dunque restando il pregresso regime impositivo sostanziale, si ritiene – dando con ciò continuità a quanto stabilito, in identica fattispecie, da Cass. ord. 13235/16 – che una diversa soluzione si imponga invece per quanto concerne le sanzioni applicate con l’atto qui impugnato.
In proposito, si ravvisano i presupposti per l’applicazione del secondo comma dell’articolo 3 d.lvo 472/97, secondo cui, in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie: “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato”.
La ricorrenza del principio di legalità e di favor rei in materia tributaria – già ampiamente valorizzato, in presenza di sanzioni amministrative di sostanziale valenza penale, anche ex artt. 49 della Carta dei diritti fondamentali UE, e 7 CEDU – si impone, nella specie, sotto il profilo che tali sanzioni vennero inflitte per avere il contribuente dichiarato che l’immobile acquistato possedeva, contrariamente al vero, qualità intrinseche ‘non di lussò (sempre secondo i suddetti parametri ministeriali); vale a dire, per aver reso una dichiarazione che, per effetto della modifica normativa, oggi non ha più alcuna rilevanza per l’ordinamento.
In altri termini, il mendacio contestato – costituente l’espresso fondamento della sanzione, così come stabilito dal quarto comma dell’articolo 1, Parte Prima, Tariffa d.P.R. 131/86 cit. – non potrebbe più realizzarsi, in quanto caduto su un elemento (caratteristiche non di lusso dell’immobile) espunto dalla fattispecie agevolativa.
E’ vero che la modifica normativa non ha abolito né l’imposizione (nella specie individuabile nel recupero a piena tassazione dell’agevolazione indebitamente fruita), né le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla falsa dichiarazione; e tuttavia, è proprio l’oggetto di quest’ultima, costituente elemento normativo della fattispecie, ad essere stato cancellato dall’ordinamento. Tanto che, in base al regime sopravvenuto, l’agevolazione ben potrebbe sussistere (in assenza di iscrizione nelle categorie catastali ostative) anche in capo ad immobili abitativi in ipotesi connotati dalle caratteristiche la cui mancata o falsa dichiarazione ha costituito il motivo della sanzione.
Il che rende del tutto peculiare la presente fattispecie rispetto a quelle con riguardo alle quali è stato affermato che – in difetto di “abolitio criminis” – permane a carico del contribuente tanto l’obbligo del versamento dell’imposta dovuta prima della modificazione normativa, quanto quello sanzionatorio (Cass. 25754/14; Cass. 25053/06).
Va poi considerato come ci si trovi qui di fronte ad una situazione di favore per il contribuente ancor più radicale ed evidente di quella (prevista nel terzo comma dell’articolo 3 d.lvo 472/97) del sopravvenire di un regime sanzionatorio semplicemente più mite. Perché qui non di questo si tratta, ma proprio di riformulazione ex novo della fattispecie legale di non spettanza dell’agevolazione; fondata su un parametro (quello catastale) del tutto differente da quello, precedentemente rinvenibile, fatto oggetto di mendacio.
In maniera tale che l’amministrazione finanziaria mantiene, come detto, la potestà di revocare l’agevolazione in questione per il solo fatto del carattere di lusso rivestito – al momento del trasferimento, e sulla base della disciplina all’epoca applicabile – dall’immobile trasferito; senza però avere titolo per applicare delle sanzioni conseguenti a comportamenti che, dopo la riforma legislativa, non sono più rilevanti; non certo in quanto tali (false dichiarazioni), ma in quanto riferiti a parametri normativi non più vigenti.
In definitiva, l’applicazione dello jus superveniens induce al parziale accoglimento del ricorso, limitatamente alla non debenza delle sanzioni applicate con l’atto opposto.
Conclusione, quest’ultima, che deriva da una scelta interpretativa di favore suscettibile di essere attuata, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio; e quindi anche in sede di legittimità (tra le altre: Cass. 1856/13; Cass. 4616/16; Cass.16679/16 e Cass. ord. 13235/16 cit.).
Ciò perché, stante l’avvenuta contestazione da parte del contribuente della legittimità della revoca dell’agevolazione, è per ciò solo escluso che sia divenuto definitivo il provvedimento di irrogazione delle sanzioni che da tale revoca consegue. Né – trattandosi di eliminazione delle sanzioni, e non di loro rimodulazione all’esito di una determinata opzione per il regime più favorevole concretamente applicabile – si richiedono accertamenti fattuali di sorta.
All’esito del giudizio, sussistono i presupposti per l’integrale compensazione delle spese dei gradi di merito e legittimità.
P.Q.M.
– accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione;
– cassa la sentenza impugnata in relazione ai profili accolti e, decidendo nel merito, dichiara non dovute le sanzioni;
– compensa integralmente le spese dell’intero giudizio.