CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 gennaio 2018, n. 280
Collaborazione – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – Mansioni di commessa – Assenza di previsione di termine, di un’attività autonoma ex art. 2222 c.c., di contratto scritto – Potere di controllo e di direzione del datore di lavoro
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Brescia, in riforma della decisione di primo grado, accertata la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra N. T. e M. B., ha condannato quest’ultimo al pagamento della somma di € 22.444,44, oltre rivalutazione ed interessi legali, a titolo di differenze retributive.
1.1. Il giudice d’appello ha affermato la natura subordinata del rapporto inter partes sulla base delle seguenti considerazioni: la attività, sostanzialmente di commessa, svolta dalla T. nel negozio di souvenirs del B., per contenuto e modalità era più agevolmente riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato; in forza dell’art. 86 d. Igs n. 276 /2003 la collaborazione in oggetto, senza previsione di termine e senza un’attività autonoma della lavoratrice ex art. 2222 cod.civ., in assenza di contratto scritto, sarebbe stata convertita in rapporto di lavoro subordinato quanto meno con decorrenza dall’anno successivo all’entrata in vigore del decreto citato; la prestazione resa nella sede aziendale del datore di lavoro, luogo dove può essere esercitato senza limiti il potere di controllo e direttiva, costituisce presunzione della natura subordinata del rapporto; il regolamento degli aspetti fiscali e contributivi, propri di una collaborazione coordinata e continuativa doveva ritenersi simulato; le mansioni di commessa, confermate dai testi escussi, comportavano l’inquadramento nel IV liv. ccnl settore terziario confcommercio del quale non era contestata l’applicazione; le conseguenti differenze retributive, commisurate all’ effettivo orario di lavoro osservato, inferiore a quello allegato dalla lavoratrice, determinavano la condanna del B. al quantum calcolato sulla base dei conteggi predisposti dall’appellante T..
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso M. B. sulla base di tre motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso successivamente illustrato con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., insufficiente motivazione circa un fatto decisivo con riferimento all’accertamento della natura subordinata del rapporto e, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione di legge con riferimento agli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. e 2729 cod. civ.. Censura, in sintesi, l’accertamento della natura subordinata del rapporto deducendo carenza di prova dell’eterodirezione esercitata dal B.; osserva che il giudice di appello si era affidato esclusivamente alla presunzione nascente dal fatto che la prestazione era effettuata presso la sede aziendale; evidenzia che, comunque, tale sede non coincideva con l’esercizio commerciale nel quale la T. aveva prestato la propria attività e che dagli atti la presenza del B. nel negozio di S. risultava del tutto discontinua. In altra prospettiva assume la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per avere il giudice di appello fatto riferimento a elementi tratti dal materiale probatorio acquisito, non posti dall’appellante a fondamento del gravame.
2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., contraddittorietà della motivazione in relazione all’accertamento della natura subordinata del l’attività prestata dalla T. per avere la sentenza impugnata, nella dimostrazione dell’eterodirezione, utilizzato elementi in altro punto considerati insufficienti e non idonei alla qualificazione del rapporto. Invero la affermazione secondo la quale l’espletamento della prestazione nella sede aziendale aveva comportato il continuo esercizio del potere di controllo e direttiva del B., appariva in contraddizione con le emergenze probatorie che evidenziavano una discontinuità di presenza di questi nel negozio di S.; si poneva, inoltre, in contrasto con il rilievo del giudice d’appello secondo il quale nessuno dei testi era stato in grado di indicare quali erano stati esattamente gli accordi intercorsi fra le parti e se vi fossero e con quale contenuto disposizioni specifiche di M. B. per l’esecuzione dell’attività lavorativa. Contraddittorietà di motivazione sussisteva anche in relazione alla ricostruzione dell’orario lavorativo avendo la Corte dato atto che le deposizioni dei testi G., R. e P. erano un pò approssimative mentre, quanto alla deposizione del R., ex marito della T. e nipote del B., il giudice di appello non aveva considerato che proprio il rapporto di vicinanza del B. rendeva plausibile la instaurazione di un rapporto di lavoro connotato da autonomia.
3. Con il terzo motivo di ricorso deduce insufficienza e contraddittorietà della motivazione con riferimento all’accertamento dell’orario osservato. Premesso che a fronte della rilevata approssimazione degli elementi tratti dalle altre deposizioni testimoniali, la sentenza di appello, nel ricostruire l’orario di lavoro aveva preso in considerazione essenzialmente la deposizione testimoniale dell’ex marito della T., sostiene, in sintesi, che le relative dichiarazioni non erano state correttamente interpretate in quanto il teste era stato in grado di riferire solo in merito agli orari osservati nei giorni festivi.
4. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, trattati congiuntamente per evidente connessione, sono infondati.
4.1. Preliminarmente deve essere dichiarata la inammissibilità del motivo con il quale si denunzia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., violazione non configurabile, a differenza di quanto sembra sostenere parte ricorrente, in presenza di pronunzia resa sulla domanda effettivamente proposta (rectius sul motivo di gravame formulato nell’atto di appello), restando irrilevante, in relazione al vizio prospettato, che la decisione di accoglimento sia stata fondata, come dedotto, sulla base di elementi probatori diversi da quelli invocati dall’appellante.
4.2. In relazione alle censure concernenti l’accertamento della natura subordinata del rapporto si premette che questa Corte ha più volte affermato “requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo. In sede di legittimità è censurabile solo la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – incensurabile in tale sede, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale” (v. fra le altre Cass. 21 novembre 2001, n. 14664; Cass. 12 settembre 2003, n. 13448; Cass. 6 giugno 2002, n. 8254; Cass. 4 aprile 2001, n. 5036; Cass. 3 aprile 2000, n. 4036; Cass. 16 gennaio 1996, n. 326, nonché da ultimo Cass. 4 maggio 2011, n. 9808). “Elemento indefettibile – quindi – del rapporto di lavoro subordinato – e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione,l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della prestazione medesima nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con l’attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali – lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall’assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, appunto, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l’apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull’atteggi arsi del rapporto. Inoltre, non è idoneo a surrogare il criterio della subordinazione nei precisati termini neanche il “nomen iuris” che al rapporto di lavoro sia dato dalle sue stesse parti (cosiddetta autoqualificazione), il quale, pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le concrete modalità del rapporto medesimo” (v. Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500).
4.3. La decisione impugnata risulta coerente con i parametri sopraindicati in quanto la natura subordinata del rapporto è stata ancorata oltre che alle caratteristiche intrinseche dell’attività di commessa, pacificamente espletata dalla T., che rendevano difficilmente configurabile un rapporto di collaborazione autonoma, all’espletamento di tali mansioni in un luogo – esercizio commerciale nella titolarità del B. – che consentiva la possibilità di esercizio “senza limiti” del potere di controllo e direttiva da parte del soggetto indicato come datore di lavoro, alla volontà, solo classificatoria, “non incidente sugli aspetti fondamentali e qualificanti del rapporto” emergente dalla regolazione fiscale e contributiva . L’affermazione della (astratta) possibilità di un incisivo potere di direzione e controllo in ragione dello svolgimento dell’attività lavorativa all’interno dell’esercizio commerciale di S. non si . pone poi in contrasto, come, al contrario, sostenuto dalla parte ricorrente, con la saltuarietà di presenza del B. all’interno del negozio, avendo il giudice di appello evidenziato, in altro punto della motivazione, che la semplicità e ripetitività dei compiti di commessa non richiedevano direttive e controlli continuativi e penetranti. Del tutto ininfluente è poi il fatto che, secondo quanto dedotto dal ricorrente, il negozio sito in S. non coincideva con la sede aziendale, sita in Brescia, in quanto il riferimento alla “sede aziendale” nelle argomentazioni del giudice di appello stava solo a significare che il luogo della prestazione lavorativa, pacificamente nella disponibilità del B., costituiva elemento sintomatico della natura subordinata del rapporto, in quanto consentiva, in astratto, un potere direttivo e di controllo più incisivo da parte del titolare.
4.4. Parimenti non sono ravvisabili elementi di contraddittorietà del ragionamento decisorio nell’affermazione del giudice di appello in ordine al rilievo non dirimente delle deposizioni testimoniali, atteso che, come si evince dal contesto argomentativo nel quale è inserita tale affermazione, la stessa si riferisce al contenuto degli iniziali accordi tra le parti, rispetto ai quali nessun teste era stato in grado di riferire sul se vi erano state e con quale contenuto disposizioni specifiche da parte del B. . In ordine agli accordi assunti al momento della instaurazione del rapporto, del resto, il giudice di appello motiva ampiamente sulle ragioni per le quali, la regolazione degli aspetti fiscali e contributivi, non era decisiva al fine della configurabilità di un rapporto di lavoro autonomo che doveva ritenersi simulata.
4.5. Infine, in ordine al mancato ricorso al ragionamento presuntivo, questa Corte ha chiarito che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v., tra le altre, Cass. 2 aprile 2009. n. 8023; Cass. 11 maggio 2007 n. 10847). La censura articolata risulta quindi inammissibile non essendo stata evidenziata alcuna assoluta incongruità o illogicità nella scelta del giudice di appello in ordine al mancato utilizzo del ragionamento presuntivo nel senso preteso dalla odierna ricorrente. Il terzo motivo di ricorso è anch’esso infondato in quanto la ricostruzione dell’orario di lavoro espletato è frutto di una valutazione complessiva delle deposizioni testimoniali ed in particolare della deposizione del teste R. ritenuto di sicura attendibilità in quanto ex marito della T. e nipote del B., ricostruzione che ha tenuto conto evidentemente anche delle esigenze di apertura di un esercizio commerciale e della conoscenza di tali orari comunque acquisita, da parte del teste, conoscenza non implicante necessariamente, come sembra sostenere parte ricorrente, che il R. si recasse anche nei giorni feriali presso il negozio. Non sussiste quindi la dedotta contraddittorietà di motivazione con riferimento agli esiti della prova orale richiamata in sentenza e tanto è sufficiente a determinare il rigetto del motivo in esame , in coerenza con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonché scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge ( Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 dicembre 2011 n. 2197; Cass. 21 settembre 2006 n. 20455; Cass. 4 aprile 2006 n. 7846; Cass. 7 febbraio 2004 n. 2357).
6. Al rigetto del ricorso segue la regolazione delle spese di lite secondo soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.
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