CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2016, n. 22746
Tributi – Accertamento – Maggiori imposte – Scostamento tra ricavi dichiarati ed accertati – Studi di settore
Fatto
La Commissione Tributaria Regionale della Sicilia con sentenza n. 124 del 10 novembre 2008 rigettava l’appello proposto da F. C., esercente l’attività di commercio al dettaglio di capi di abbigliamento, avverso l’avviso di accertamento di maggiori imposte ai fini IVA, IRPEF ed IRAP relativamente all’anno 1998, a seguito di rideterminazione del reddito e del volume di affari operata mediante l’applicazione degli studi di settore di cui all’art. 62 bis e segg. del d.l. n. 331 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427 del 1993, sostenendo che il reddito dichiarato nell’anno in verifica era irrisorio e che il contribuente, esclusa la produzione di alcune foto riproducesti la strada ove è ubicato il punto vendita, non aveva prodotto alcuna documentazione contabile atta a giustificare lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli accertati mediante applicazione degli studi di settore.
Ricorre il contribuente per la cassazione della sentenza impugnata, sulla base di due motivi, cui replica l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.
Motivi della decisione
Il primo motivo, con cui il ricorrente deduce “violazione si legge ex art. 360 n. 5 c.p.c. in relazione all’art. 132 c.p.c. – omessa motivazione su un punto decisivo della controversia – Violazione dell’art. 42 DPR n. 600/1973, commi 1 e 2”, lamentando che il giudice di appello aveva omesso di esaminare il primo motivo dell’atto di appello, con cui aveva dedotto il difetto di motivazione della sentenza di primo grado, che aveva “liquidato” l’eccezione di illegittimità dell’avviso di accertamento perché carente di motivazione, “con una unica, semplice e lapidaria frase”, è inammissibile perché prospetta cumulativamente il vizio di violazione di norme di diritto (nella specie, dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973) e quello di motivazione (da ultimo Cass. n. 24781 del 2015), in relazione al quale non risulta formulato, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile alla fattispecie ratione temporis, trattandosi di impugnazione di sentenza pubblicata in data 10 novembre 2008, il c.d. momento di sintesi, e perché denuncia come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame da parte della Commissione di secondo grado di un motivo di appello – di cui è omessa la trascrizione nel ricorso, in violazione anche del principio di autosufficienza del medesimo – che, andava denunciato come error in procedendo, ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. in relazione all’art. 112 cod. proc. civ., in ossequio al noto principio giurisprudenziale – cui il ricorrente non si è attenuto – secondo cui “l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5 c.p.c., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell’art. 112 c.p.c.” (Cass. n. 11844 del 2006; S.U. n. 17931 del 2013).
Il secondo motivo, con cui il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 62 bis del d.l. n. 331 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427 del 1993, sostenendo che l’accertamento fondato sull’applicazione degli studi di settore non può fondarsi sul solo scostamento tra quanto dichiarato e quanto accertato, avendo l’Amministrazione finanziaria, specie in presenza di una contabilità regolare, come nel caso di specie, l’onere di fornire “ulteriori elementi di fatto, o quantomeno indizi tali da dimostrare l’inesattezza dei dati fomiti dal contribuente”, è palesemente infondato in quanto il giudice di merito si è correttamente attenuto alla regola di giudizio rinvenibile nel consolidato principio giurisprudenziale (cfr. Cass. S.U. n. 26635 del 2009; conf. Sez. 5A, n. 20414 del 2014, n. 3415 del 2015 e n. 6114 del 2016) secondo cui, una volta che nella fase amministrativa l’Amministrazione finanziaria ha instaurato il contraddittorio con il contribuente, che non ha fornito né in quella fase né nel giudizio di merito un qualche elemento probatorio idoneo a scalfire la pretesa tributaria, consentiva di attribuire alla presunzione semplice basata sui parametri quelle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza idonee a determinare l’inversione dell’onere della prova (in tal senso cfr. Cass. n. 27822/2013 e n. 14066 del 2014), che invece il ricorrente erroneamente contesta.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato in quanto il primo motivo è inammissibile ed il secondo infondato ed il ricorrente, rimasto soccombente, va condannato al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo ai sensi del d.m. Giustizia n. 55 del 2014 nonché al rimborso in favore dell’Agenzia delle entrate delle eventuali spese prenotate a debito.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso ed infondato il secondo e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in € 2.000,00 oltre spese prenotate a debito.
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