CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2017, n. 26583
Licenziamento illegittimo – Reintegrazione nel posto di lavoro – Superamento del periodo di comporto – Assenze etiologicamente ricollegabili a infortunio sul lavoro – Mancato computo – Accertamento negativo operato dall’Inail – Non rileva – Valutazione del giudice – Assenze del lavoratore causate da infermità – Responsabilità del datore di lavoro
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato in data 26 giugno 2006 da Trenitalia s.p.a. a G. C. e ne ha ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro condannando la convenuta a risarcire il danno che ha quantificato nelle retribuzioni maturate e non erogate dal recesso alla reintegrazione con gli accessori di legge oltre che al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
2. La Corte territoriale, ritenuto che la mancata contestazione del giudizio delI’Inail non precludesse al giudice di accertare le cause della malattia a cui si riferivano le assenze, in esito all’accertamento medico legale disposto ha verificato che delle assenze computate per ritenere superato il periodo di comporto (dal 2 settembre 2004 all’ 8 febbraio 2005 e dal 15 marzo 2005 al 1 giugno 2006) quelle dal 2 settembre 2004 all’8 febbraio 2005 e dal 15 marzo 2005 al 1 maggio 2006 fossero etiologicamente ricollegabili all’infortunio sul lavoro subito il 2 settembre 2004 e, come tali, non potessero essere considerate ai fini del compimento del periodo di comporto che dunque non era maturato.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre Trenitalia s.p.a. che articola tre motivi cui resiste il G. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. per insistere, ciascuna, nelle conclusioni già prese.
Ragioni della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, 2697 cod. civ. e 3 della legge n. 604 del 1966 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.. Sostiene la società ricorrente che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, l’unico strumento nella disponibilità del lavoratore per infirmare l’accertamento negativo operato dall’Inail era l’impugnazione giudiziale del provvedimento negativo dell’Inail da proporre nel termine di tre anni dal giorno dell’infortunio ovvero dalla data in cui la malattia professionale si era manifestata. Incontestato il numero delle assenze il G. ha ritenuto che le stesse fossero riferibili all’infortunio censurando l’operato dell’Inail senza tuttavia convenirlo in giudizio e comunque contestandone la decisione quando il termine di tre anni era oramai decorso (provvedimento comunicato il 17.2.2006 e ricorso introduttivo depositato il 17.11.2009 e notificato il 7.3.2010). Evidenzia inoltre la società che la parte ricorrente avrebbe dovuto, sin dal ricorso introduttivo, allegare documentazione medica e clinica idonea a smentire le conclusioni alle quali era pervenuto l’Istituto assicuratore nel negare la copertura assicurativa da infortunio. Pertanto, in violazione dell’art. 2697 cod. civ., la Corte di merito aveva disposto la consulenza medico legale. Aggiunge che, peraltro, nell’accertamento medico disposto si era proceduto ad indagini del tutto generiche inidonee a sovvertire le conclusioni alle quali era invece pervenuto l’Istituto assicuratore. Inoltre le conclusioni del consulente, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, erano state specificamente contestate dalla società e non avevano ricevuto risposta neppure con i successivi chiarimenti.
5. Il motivo è infondato.
5.1. L’art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, per quanto qui viene in rilievo, prevede che l’azione per conseguire le prestazioni elencate dall’art. 66 dello stesso d.P.R. (indennità giornaliera per l’inabilità temporanea, rendita per l’inabilità permanente, assegno per l’assistenza personale continuativa,rendita ai superstiti e un assegno una volta tanto in caso di morte, cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici e fornitura degli apparecchi di protesi) si prescrive nel termine di tre anni dal giorno dell’infortunio o da quello della manifestazione della malattia professionale. La disposizione è finalizzata a determinare un ambito temporale entro il quale la parte può far valere, nei confronti dell’Istituto assicuratore, la sua pretesa ma non implica che all’accertamento amministrativo dell’Istituto, eseguito per il fine specifico dell’attribuzione della prestazione dallo stesso erogabile, una valenza che esorbita dall’ambito per il quale è stata prevista. La qualificazione dell’infermità del lavoratore (riconducibile o meno ad una causa lavorativa) effettuata in sede amministrativa dall’Istituto non preclude al giudice di conoscere e decidere la questione se le assenze del lavoratore – causate dalla stessa infermità – risultino, comunque, imputabili a responsabilità del datore di lavoro e, come tali, non siano computabili nel periodo di comporto di cui all’art. 2110 cod. civ. (arg. ex Cass. 30/08/2006 n. 18911).
5.2. Correttamente pertanto il giudice di merito, al quale era stata opposta una mera decisione amministrativa adottata dall’Istituto assicuratore per i diversi fini di cui si è detto, pur dando atto dell’esistenza di tale determinazione, ne ha escluso il valore preclusivo di ulteriori approfondimenti ed ha proceduto ad indagini peritali d’ufficio che hanno accertato, in adesione alla prospettazione del lavoratore, che i periodi di assenza in contestazione erano dovuti a malattie ricollegabili all’infortunio sul lavoro occorso al G. in data 2 settembre 2004 e dunque imputabili a responsabilità dello stesso datore di lavoro ed è onere del lavoratore provare il collegamento causale fra la malattia – che ha determinalo l’assenza (e, segnatamente, il superamento del periodo di comporto) – e l’infortunio sul lavoro subito.
6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ., l’omessa pronuncia sulla domanda di chiamata in causa dell’Istituto — formulata dalla società a pagina 10 della memoria di costituzione in primo grado e riproposta in appello a pagina 13 della memoria e ribadita negli atti successivi per essere manlevata nel caso di accoglimento della domanda — di cui la sentenza non dà neppure atto, tanto in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e con conseguente nullità della sentenza.
7. Anche tale motivo è infondato.
7.1. Osserva il Collegio che per configurarsi l’omessa pronuncia sull’ eccezione formulata nella memoria di costituzione in appello è necessario che la stessa risulti essere stata ritualmente sollevata in giudizio e totalmente ignorata dal giudice del gravame. Tale condizione non si è realizzata nel caso in esame in cui la Corte ha dato conto di aver ben presente la complessiva situazione di fatto che aveva dato luogo al recesso e soprattutto l’incidenza della valutazione da parte dell’Inail delle malattie nel computo di quelle rilevanti ai fini del comporto ed aderendo implicitamente alla valutazione di primo grado con riguardo alla presenza in giudizio dell’Istituto, nel disporre la consulenza medico legale ha implicitamente disatteso la richiesta di chiamata in causa.
7.2. Va rammentato poi che in tema di controversie di lavoro, la disposizione del comma 9 dell’art. 420 c.p.c. non implica un automatico obbligo di adozione dei provvedimenti conseguenti all’istanza di chiamata in causa, in quanto il giudice conserva, secondo i principi generali, il potere di valutare la comunanza della causa e le ragioni d’intervento del terzo, sicché è configurabile un vizio del processo, tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado a norma dell’art. 383 c.p.c., solo in caso di omesso esame dell’istanza stessa ovvero di omesso rilievo del difetto del contraddittorio in costanza di litisconsorzio necessario (cfr. Cass. 09/02/2016 n. 2522 e 26/06/1999 n. 6657).
8. Con il terzo motivo di ricorso, infine, è denunciata la nullità della sentenza che sempre in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. avrebbe omesso ogni pronuncia sulla eccezione formulata sin dal primo atto del giudizio di detrazione dalle somme
riconosciute a titolo risarcitorio dell’aliunde perceptum e comunque dell’ aliunde percipiendum ex art. 1227 cod. civ.. Sottolinea la società ricorrente che nel corso del giudizio di appello era stata acquisita documentazione attestante la percezione, successivamente al licenziamento, di somme consistenti di cui tuttavia la sentenza non aveva tenuto conto.
9. La censura deve essere accolta.
9.1. La Corte territoriale ha del tutto omesso di pronunciare sulla domanda pure ritualmente formulata e ritualmente richiamata davanti a questa Corte, di valutazione, nella liquidazione del danno del c.d. aliunde perceptum e percipiendum. Il giudice di appello si è infatti limitato a prendere atto del fatto che la statuizione di condanna da parte del Tribunale -a restituire le somme percepite in relazione alla natura professionale della malattia spettando solo quelle per malattia comune – non era stata impugnata dal lavoratore ed era passata in giudicato ma nulla dice circa la richiesta di detrarre, nel liquidare il danno, le somme eventualmente medio tempore percepite da altri datori di lavoro.
9.2. Per tale aspetto la sentenza deve essere cassata e rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che procederà all’esame dell’eccezione e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo di ricorso, rigettati gli altri. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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