CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 gennaio 2018, n. 345
Sottoscrizione di contratti di co.co.co. – Mansioni di carattere elementare e routinario – Stabile inserimento nell’organizzazione imprenditoriale – Assoggettamento al potere direttivo ed organizzativo datoriale – Sussistenza rapporti di lavoro subordinato a termine – Accertamento nullità del termine – Conversione del rapporto a tempo indeterminato
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Firenze in accoglimento dell’appello proposto da S.C. ed altri nove lavoratori qualificati come contratti a termine in regime di subordinazione i rapporti di co.co.co. intercorsi con la T.E.E. s.r.l. ha dichiarato la nullità dei termini ed ha condannato la società a riammettere gli appellanti nel posto di lavoro ed a corrispondere a ciascuno un indennità risarcitoria nella misura di 2,5 mensilità globali di fatto secondo il c.c.n.l. applicabile.
2. La Corte territoriale ha ritenuto che il rapporto intercorso tra la società ed i dieci lavoratori, che avevano sottoscritto con la T.E.E. s.r.l. dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, presentava i tratti della subordinazione poiché, in relazione alla tipologia della prestazione con mansioni di carattere elementare e routinario, ed alle modalità con cui era resa, era emerso lo stabile inserimento nell’organizzazione imprenditoriale e l’assoggettamento al potere direttivo ed organizzativo datoriale con obbligo per i lavoratori, pur nell’ambito di un certo margine di autorganizzazione, di rispettare turni ed orari predisposti e di comunicare le assenze, restando comune con gli altri lavoratori dipendenti il regime dei permessi.
2.1. Qualificati i contratti a tempo determinato, e ritenuto che la domanda debba essere qualificata come richiesta di accertamento della nullità del termine volta anch’essa, al pari della domanda di accertamento della inefficacia del licenziamento orale, ad ottenere la ricostituzione del rapporto ed il risarcimento del danno, ha quindi verificato che i contratti non erano sorretti da una adeguata causale e perciò i termini apposti erano nulli con conseguente ripristino del rapporto a tempo indeterminato.
2.4. Quanto alle conseguenze dell’accertata illegittimità del termine ha applicato l’art. 32 della legge 4 novembre 2010 n. 183 e le ha quantificate nella misura minima di 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto spettante.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre S.C., unico socio e poi liquidatore della T.E.E. s.r.l. dichiarata estinta successivamente alla sentenza di appello, ed ha articolato due motivi ai quali hanno resistito con controricorso S.C., M.V.P.S., F.P. e S.N. mentre gli altri lavoratori sono rimasti intimati.
Ragioni della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2222 e 2967 cod. civ. oltre che dell’art. 115 cod. proc. civ. oltre che la carenza di motivazione, in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 cod. proc. civ..
4.1. Sostiene il ricorrente che contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello l’istruttoria testimoniale non aveva univocamente confermato gli elementi che sono stati ritenuti dal giudice di secondo grado essenziali per dimostrare la natura subordinata dei rapporti. Il giudice di appello aveva valorizzato le dichiarazioni rese da testi interessati in quanto parti di un altro analogo giudizio e comunque gli elementi raccolti non erano sufficienti ad avvalorare l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato. A ciò aggiunge che proprio le modalità di svolgimento della prestazione che prevedevano un rilevante margine di autorganizzazione avrebbe dovuto convincere la Corte della natura autonoma dei rapporti.
5. La censura è in tutti gli aspetti in cui viene prospettata inammissibile.
5.1. In disparte l’ inammissibilità ravvisabile nella proposizione in una medesima censura di diversi profili di doglianza ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, la cui formulazione rende difficoltosa l’individuazione delle questioni prospettate (cfr. Cass. 17/03/2017 n. 7009 e già S.U. 06/05/2015 n. 9100) va rammentato che la qualificazione del rapporto di lavoro operata dal giudice del merito è censurabile davanti al giudice di legittimità ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. con riguardo agli artt. 2094 e 2222 cod. civ. soltanto in relazione alla determinazione dei criteri astratti e generali per il giudizio di sussunzione dei fatti accertati nell’invocato tipo contrattuale del lavoro subordinato. Costituisce invece apprezzamento di fatto sindacabile da questa Corte nei limiti del vizio di motivazione, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., la valutazione del concreto atteggiarsi del rapporto di causa.
5.2. Nel caso in esame il motivo censura in massima parte la valutazione di specifiche questioni di fatto – in punto di organizzazione dell’attività da parte di un responsabile dell’impresa, della mera messa a disposizione dell’attività lavorativa e della previsione di un compenso in misura fissa – e si duole della mancata valorizzazione di altri elementi, pure acquisiti al processo, con riguardo ai quali la motivazione sarebbe stata del tutto omessa.
5.3. Si tratta tuttavia di valutazione che attiene al piano della ricostruzione della fattispecie concreta che può essere esaminata in questa sede solo nei limiti del vizio della motivazione, ex articolo 360 n. 5 cod. proc. civ., ma non anche sotto il profilo del vizio di «sussunzione» ex articolo 360 n. 3 cod. proc. civ. ovvero di non corretta applicazione dell’articolo 2094 cod. civ. e dell’art. 2222 cod. civ..
5.4. Neppure è ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ. che si verifica nel caso in cui il giudice abbia posto a carico della parte che non ne è onerata l’onere di dimostrare i fatti oggetto della pretesa azionata, così come la motivazione della sentenza non si espone alla censura per vizio di motivazione articolata. Ancora una volta pur denunciandosi, apparentemente, una violazione di legge ed una carente motivazione della sentenza di secondo grado, si chiede in realtà a questa Corte di pronunciarsi ed interpretare questioni di mero fatto non censurabili in questa sede mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto dei fatti storici quanto le valutazioni di quei fatti espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone alle proprie aspettative (Cass. n. 04/04/2017 n. 8758).
6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata l’insufficiente ed erronea motivazione con riguardo alla qualificazione la domanda con conseguente violazione degli artt. 112 e 101 secondo comma cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 cod. proc. civ..
6.1. Sostiene il ricorrente che erroneamente la Corte di merito aveva deciso sulla legittimità dei termini apposti ai contratti sebbene i lavoratori non lo avessero specificatamente chiesto avendo sempre insistito per la inefficacia o illegittimità dei licenziamenti e, solo in appello, avevano tardivamente dedotto che nella richiesta di declaratoria di illegittimità del recesso doveva intendersi compresa la denuncia della illegittimità del termine. In definitiva il giudice di appello nell’interpretare l’atto introduttivo del giudizio sarebbe incorso in un vizio di motivazione ritenendo che la domanda formulata potesse essere così riqualificata.
6.2. La censura è infondata. Va premesso che l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito e, ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata ed era compresa nel thema decidendum, tale statuizione, prima ancora che sotto il profilo dell’ ultrapetizione, deve essere indagata sotto il profilo della erroneità della motivazione nei limiti di cui all’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. (v. Cass. 27/10/2015 n. 21874, 05/02/2014 n. 2630, Cass. 31/01/2007 n. 2096, Cass. 18/04/2006 n. 8953, Cass. 21/02/2006 n. 3702).
6.3. Va del pari rammentato che nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, poi, il giudice del merito non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante. (cfr. Cass. 19/10/2015 n. 21087 e 31/07/2017 n. 19002). Sussiste, infatti, il vizio di “ultra” o “extra” petizione ex art. 112 cod. proc. civ. quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato.
6.4. Nell’accertare tale vizio, tuttavia, occorre tenere in considerazione il principio “iura novit curia” di cui all’art. 113, primo comma, cod. proc. civ.. Resta pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (13/12/2010 n. 25140)
6.5. Nel caso in esame, la Corte territoriale sulla base delle allegazioni di fatto delle parti e nel rispetto del contraddittorio, ha prima qualificato il rapporto di lavoro come subordinato e poi ha accertato che lo stesso era assoggettato ad un termine di cui ha accertato la invalidità e, conseguentemente, ha convertito il rapporto e, coerentemente, risarcito il danno applicando la disciplina sopravvenuta dettata dall’art. 32 della L. 4 novembre 2010 n. 183.
7. In conclusione, e per le esposte considerazioni, il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei contro ricorrenti che si liquidano in € 6000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre ad accessori dovuti per legge.
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