CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 luglio 2017, n. 17006
Licenziamento – Superamento del periodo di comporto – Comportamenti vessatori – Risarcimento danni
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 12.2.2015, la Corte d’appello di Messina, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, ha accertato la legittimità del licenziamento intimato, il 2.4.2005, per superamento del periodo di comporto da L.N., titolare dell’omonima ditta, a G.G. ed ha, inoltre, respinto la domanda di risarcimento del danno per comportamenti vessatori, condannando il lavoratore al pagamento delle spese di lite per entrambi i gradi di merito.
2. Il giudice d’appello ha, in particolare, ritenuto che fra la ditta individuale e la società G. s.r.l. non sussisteva alcuna comunanza di gestione amministrativa ed imprenditoriale, che non erano stati raccolti elementi probatori sufficienti ad prova della perpetrazione di abusi psicologici nei confronti del G., che il periodo di riferimento entro cui calcolare – ai sensi dell’art. 93 del c.c.n.I. settore Terziario – il numero complessivo delle assenze per malattia (“un anno solare”) decorreva dall’inizio dell’evento di riferimento ovvero, a ritroso, dalla data del recesso, e non dal primo giorno di ogni anno.
3. Il lavoratore ricorre per la cassazione di questa sentenza con otto motivi (seppur erroneamente numerati), illustrati da memoria. La società G. s.r.l. resiste con controricorso. Il L. ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.) avendo, la Corte, omesso una statuizione sul profilo ritorsivo del licenziamento, a fronte delle azioni giudiziarie proposte, in passato, dal Giambo nei confronti della società G. s.r.l. L’aspetto ritorsivo è chiaramente deducibile dalla sussistenza di una comunanza di gestione amministrativa ed imprenditoriale fra la ditta individuale di L. e la società G. s.r.l. dimostrata da circostanze obiettive quali: il ricorso di entrambi all’opera dello stesso commercialista, l’effettiva efficacia del contratto di affitto di ramo di azienda un mese dopo (1.7.2004) la data prevista nel contratto stesso, l’obbligo del L. di acquistare tutta la merce necessaria dalla società G., la vigilanza del settore macelleria all’interno del punto vendita gestito dalla ditta individuale da parte di C.C. (responsabile del settore macelleria di tutti i supermercati G.), l’identità delle iniziative pubblicitarie delle due imprese commerciali, il rapporto interpersonale tra L.N. e l’amministratore unico della società G. (A.C.).
2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 132 cod.proc.civ. nonché vizio di motivazione (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, omesso l’esame di fatti decisivi (quali quelli innanzi illustrati) che avrebbero portato a riconoscere il collegamento organico, funzionale e tecnologico dei due imprenditori.
3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, omesso una pronuncia sulla declaratoria di mera “inefficacia” del licenziamento (anziché di nullità) dichiarata dal giudice di prime cure, nonostante specifico motivo di appello.
4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, omesso una pronuncia sul mancato riconoscimento, da parte del giudice di prime cure, della retribuzione da licenziamento alla riammissione in servizio, nonostante specifico motivo di appello.
5. Con il quinto ed il sesto motivo si denunzia nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 132 cod.proc.civ. nonché vizio di motivazione (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod.proc.civ.) avendo, la Corte, disatteso con affermazioni apodittiche le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio in relazione alle condizioni di abuso psicologiche sopportate dal G..
6. Con il settimo motivo si denunzia violazione falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1364, 1366 cod.civ. con riferimento all’art. 93 c.c.n.I. 20.9.1999 (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, interpretato l’espressione “un anno solare” posta dalla contrattazione di settore quale parametro di riferimento per il superamento del periodo massimo di 180 giorni ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto quale intervallo di 365 giorni da computarsi “a decorrere dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia (se continuativa) ovvero, a ritroso, dalla data del licenziamento” e non quale periodo che inizia il 1° gennaio e finisce il 31 dicembre di ciascun anno.
7. Con l’ottavo motivo si denuncia violazione falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod.proc.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte, ritenuto di condannare il lavoratore alle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio di merito invece di accogliere l’appello proposto da Giambo e accogliere tutte le domande del lavoratore.
8. I primi due motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente per la stretta connessione logico giuridica, non sono fondati.
La Corte distrettuale ha ritenuto di respingere la prospettazione avanzata dallo stesso lavoratore che deduceva la natura ritorsiva del licenziamento dalla “comunanza di gestione amministrativa ed imprenditoriale fra il L. e la G. s.r.l. in relazione al punto vendita di Barcellona P.G. in cui il ricorrente ha prestato la sua attività lavorativa” (anche successivamente all’affitto del ramo di azienda dalla G. al L.), comunanza che avrebbe condotto il cessionario L. a licenziare il G. per rappresaglia avverso le azioni giudiziarie promosse nei confronti della società cedente G. e che emergeva “a piene mani alla luce delle risultanze probatorie (sia orali sia documentali) acquisite al processo”. In particolare, la Corte distrettuale ha ritenuto che nessuna prova era stata raggiunta in giudizio in ordine alla sussistenza di un fenomeno di collegamento, non potendosi ravvisare una comunanza di gestione amministrativa ed imprenditoriale per il solo fatto che entrambe le imprese si avvalessero dell’opera del medesimo commercialista ovvero che l’esercizio dell’azienda da parte del L. fosse iniziato l’1.7.2004 (data indicata, peraltro, in tutta la documentazione prodotta).
Dall’insufficienza di elementi probatori concernenti il collegamento gestionale tra i due imprenditori, configurato dallo stesso lavoratore quale presupposto prodromico all’adozione di un licenziamento ritorsivo da parte del L. (per azioni giudiziarie promosse dal lavoratore nei confronti di altro imprenditore), ne è derivato il rigetto nanda di nullità del licenziamento per ritorsione.
Inoltre, la Corte distrettuale ritenendo accertata la giustificazione del licenziamento (per sussistenza dei requisiti previsti dalla contrattazione collettiva per intimare un licenziamento per superamento del periodo di comporto) ha escluso, per definizione, il motivo illecito ritorsivo, posto che – per consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. nn. 24648/2015, 3986/2015, 17087/11, 6282/11, 16155/09) – l’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore deve essere l’unica ragione del provvedimento espulsivo.
9. Il terzo ed il quarto motivo non sono fondati posto che la natura del licenziamento (inefficace o nullo) e la determinazione del regime risarcitorio del licenziamento illegittimo (come accertato dal giudice di prime cure) sono aspetti assorbiti dalla ritenuta legittimità del licenziamento da parte della Corte distrettuale.
10. Il quinto ed il sesto motivo, strettamente connessi tra loro, non sono fondati.
La Corte distrettuale ha rilevato che il Giambo risultava – come accertato tramite consulenza tecnica d’ufficio – affetto da patologia di natura psichica ma ha, altresì, evidenziato che «non sussiste prova alcuna dell’etiologia professionale di tali affezioni con l’ambiente lavorativo si da potere ritenere che esse trovino la propria genesi determinante nelle condizioni di lavoro. Le condizioni di abuso psicologico cui il CTU fa riferimento sono, infatti, frutto del riferito dal periziato e non hanno trovato, nella prova testimoniale, conferma alcuna».
La Corte distrettuale si è, pertanto, conformata al principio di diritto già statuito da questa Corte secondo cui la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze; ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume (cfr. Cass. nn. 3130/2011, 9461/2010). In assenza della prova del fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno biologico (e dell’imputabilità della malattia all’inadempimento all’obbligo di protezione da parte del datore di lavoro) la Corte ha correttamente respinto la domanda del lavoratore.
11. Il settimo motivo non appare fondato.
Precisato che, a seguito della novella del D.lgs. n. 40 del 2006, sussiste il sindacato diretto della Cassazione sulle disposizioni dei contratti collettivi nazionali, appare del tutto conforme ai principi di logica, di ragionevolezza nonché di parità di trattamento tra lavoratori assenti per malattia per periodi rientranti o meno nell’anno di calendario, ritenere che la base annua cui va rapportato il comporto si identifica nell’anno solare, cioè nell’intervallo di 365 giorni decorrente dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia (se continuativa) ovvero, a ritroso, dalla data del licenziamento.
Come già statuito da questa Corte proprio con riferimento alla contrattazione collettiva applicata nel caso di specie (contratto collettivo settore commercio), una diversa interpretazione del significato di anno, come anno di calendario, condurrebbe, infatti, all’assurdo di riconoscere un periodo di comporto di durata diversa a fronte di assenze per malattie di identica natura e durata – parimenti disciplinate dalla contrattazione collettiva – per la circostanza, del tutto casuale ed estrinseca, della loro datazione (cfr. Cass. nn. 26005/2015, 6599/1992; medesimo approdo esegetico è stato scelto per dizione analoga contenuta nel D.L.C.P.S. n. 1304 del 1947 da Cass. n. 13396/2002; diversamente, Cass. n. 13374/2003 ha fatto riferimento all’arco temporale 1° gennaio – 31 dicembre di ogni anno, a fronte – peraltro – della specificazione in tal senso contenuta nel c.c.n.I. settore socio assistenziale).
La Corte distrettuale si è conformato al principio di diritto innanzi esposto ritenendo, correttamente, che in presenza di un unico elemento morboso protrattosi a cavallo di due successivi anni di calendario, il periodo di conservazione (pari a 180 giorni) del posto di lavoro va computato a decorrere dal primo episodio morboso, ossia dall’inizio della malattia.
12. L’ottavo motivo non è fondato.
Questa Corte ha statuito che il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicché viola il principio di cui all’art. 91 cod. proc. civ., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado (Cass. nn. 11423/2016, 6259/2014).
La Corte distrettuale ha correttamente posto le spese di lite a carico del lavoratore soccombente – in grado di appello – su tutte le domande proposte.
13. In conclusione, il ricorso va rigettato. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: «Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso». Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge per ciascun controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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