CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 dicembre 2017, n. 29653

Ingiunzione fiscale – R.D. n. 639 del 1910 – Vizi di legittimità formale dell’ingiunzione – Esistenza ed entità del credito – Nessuna pronuncia

Fatti di causa

Con ordinanza emessa ai sensi dell’art. 3 del R.D. 14 aprile 1910, n. 639, l’Intendenza di Finanza di Potenza, a ciò delegata dal Ministero dell’Industria, ingiunse alla I. M. S.p.A. il pagamento della somma di lire 29.679.702.000 (oltre interessi ed accessori), quale restituzione dei contributi erogati in virtù dell’art. 39, comma 11, del D.Lgs. 30 marzo 1990, n. 76, restituzione conseguente al decreto del Ministero dell’Industria n. 85 del 31 marzo 1994, di decadenza della predetta società dal godimento dei benefici di cui al citato decreto legislativo.

Nello spiegare opposizione, la società intimata dedusse la nullità dell’ordinanza ingiunzione, argomentando dall’illegittimità del decreto di revoca dei contributi per inefficacia del provvedimento «a monte» di concessione degli stessi, quale conseguenza della pronuncia del lodo arbitrale con cui era stata dichiarata risolta, per inadempimento della P.A. concedente, la convenzione relativa al progetto finanziato con l’ammissione a contributo.

Sull’eccezione sollevata ex art. 4 della legge 25 marzo 1958, n. 260, dalle PP.AA. evocate in giudizio (Ministero delle Finanze e Ufficio del Registro di Potenza), venne ordinata ed eseguita l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Ministero dell’Industria (nel corso del giudizio divenuto, per mutamento di denominazione, dapprima Ministero delle Attività Produttive e poi, all’attualità, Ministero dello Sviluppo Economico), ente titolare del credito controverso.

Il Tribunale di Potenza, affermata la legittimazione passiva di tutte le PP.AA. convenute, accolse l’opposizione, sul rilievo dell’annullamento giudiziale ad opera del T.A.R. Lazio del decreto ministeriale di decadenza dai benefici presupposto dell’ingiunzione.

Sull’impugnazione proposta dalle PP.AA., la Corte di Appello di Potenza, con la sentenza n. 458/2014 del 6 maggio 2014, ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate (succeduta ex lege all’Intendenza di Finanza), e confermato, per il resto e nel merito, la decisione di primo grado.

Ricorre per cassazione, affidandosi a tre motivi, il Ministero dello Sviluppo Economico; resiste, proponendo altresì ricorso incidentale articolato su un unico motivo, la F. S.p.A., società incorporante la I. M. S.p.A. in liquidazione; al ricorso incidentale resistono con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate.

La F. S.p.A. e il Ministero dello Sviluppo Economico hanno depositato memoria illustrativa ex art. 378 cod. proc. civ.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso principale, il Ministero dello Sviluppo Economico rileva la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360, comma 1, num. 4, cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione degli artt. 36,99,101,112,121,167 e 345 cod. proc. civ..

Assume che la Corte di Appello ha pronunciato l’annullamento dell’ingiunzione fiscale per un motivo (segnatamente, l’annullamento in sede giurisdizionale amministrativa del decreto del Ministero dell’Industria di revoca dei contributi) esulante dalle formulate ragioni di opposizione, riferite invece all’illegittimità dell’ingiunzione per la risoluzione della convenzione tra la P.A. e la società beneficiaria.

La censura è inammissibile, siccome avente ad oggetto questione coperta da giudicato interno.

Il lamentato vizio di ultra petizione – qualora, in astratta ipotesi, ravvisabile – inficiava, infatti, la pronuncia di primo grado (per avere il Tribunale di Potenza posto a fondamento della decisione la sentenza del TAR Lazio di annullamento del D.M. di decadenza dai benefici: cfr. pag. 3 sentenza Corte di Appello), talché esso, per la regola generale stabilita dall’art. 161, comma 2, cod. proc. civ., doveva costituire motivo di appello: ciò, tuttavia, non risulta dalla sentenza della Corte di Appello (chiara nell’individuare le ragioni del gravame: pag, 4) né il ricorrente ha offerto prova di avere specificamente dedotto con l’impugnazione ordinaria la qui denunciata nullità.

2. Con il terzo motivo di ricorso principale (preliminare rispetto al secondo, in quanto in ipotesi assorbente ogni ulteriore valutazione sulla impugnata decisione), si prospetta nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360, comma 1, num. 4, cod. proc. civ., per violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, degli artt. 101 e 269 del codice di rito e dell’art. 4 della legge n. 260 del 1958.

Espone il ricorrente che nel giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale le PP.AA. originariamente evocate (Ministero delle Finanze e l’Ufficio del Registro di Potenza) hanno – con comparsa di costituzione del 28 marzo 1995 per l’udienza di prima comparizione del 28 gennaio 1996 – sollevato, in maniera tempestiva e rituale, eccezione di difetto di legittimazione passiva ai sensi dell’art, 4 della legge n. 260 del 1958, indicando nel Ministero dell’Industria la corretta parte processuale da convenire; tuttavia, solo dopo «oltre sette anni di udienze ed alle porte dell’udienza di precisazione delle conclusioni», il Tribunale, con ordinanza resa all’esito dell’udienza del 29 maggio 2001, ha disposto, su sollecitazione dell’opponente, la chiamata in causa del Ministero in questa sede impugnante.

Secondo l’assunto del ricorrente, tale anomalo svolgimento della vicenda processuale ha determinato: a) la violazione dell’art. 4 della legge n. 260 del 1958, norma da intendersi, sulla base di un’esegesi logica e sistematica, come impositiva di un obbligo per il giudice di provvedere sulla eccezione del convenuto immediatamente, non oltre la prima udienza ed a pena di decadenza, con la fissazione di un termine per la rinnovazione dell’atto al legittimo contraddittore; b) la lesione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del Ministero dell’industria, in conseguenza della tardiva chiamata in lite.

2.1. Il motivo, pur muovendo da una esatta rappresentazione dell’andamento del processo, è infondato, sotto tutti i profili illustrati.

Il menzionato art. 4 delle legge n. 260 del 1958 è così formulato:

«L’errore di identificazione della persona alla quale l’atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l’atto doveva essere notificato.

Tale indicazione non è più eccepibile.

Il giudice prescrive un termine entro il quale l’atto deve essere rinnovato.

L’eccezione rimette in termini la parte.».

Come si inferisce dal trascritto tenore letterale, la norma (la quale trova applicazione anche quando, come nella specie, l’errore di identificazione riguardi distinte ed autonome soggettiva di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato: Cass., Sez. U, 26/05/2012, n. 8516; Cass., 04/03/2016, n. 4266) stabilisce un limite preclusivo unicamente per la formulazione dell’eccezione ad opera della parte interessata, limite funzionale (dacché riferito alla prima udienza) alla compiuta definizione in limine litis delle questioni controverse, anche in ordine alla individuazione dei soggetti legittimati a resistere alla proposta domanda giudiziale.

La disposizione non sancisce espressamente alcun termine (sulla cui natura, ordinatoria o perentoria, dovrebbe poi indagarsi) per il compimento delle attività del giudice conseguenti alla sollevata eccezione ed occorrenti per la corretta instaurazione del contraddittorio, cioè a dire per l’adozione dell’ordine di rinnovazione dell’atto alla parte legittimata.

2.2. Diversamente da quanto opinato dal ricorrente, poi, un termine del genere non può nemmeno desumersi in via ermeneutica, ostandovi due dirimenti rilievi.

In primo luogo, la considerazione della chiarezza ed univocità della formulazione delle norme con cui il legislatore fissa barriere temporali all’operato del giudice: basti, al riguardo, richiamare l’art. 630, comma 2, cod. proc. civ. (laddove prescrive al giudice di dichiarare l’estinzione della procedura esecutiva per inattività delle parti con ordinanza da pronunciarsi «non oltre la prime udienza successiva al verificarsi» della causa estintiva) oppure l’art. 38, comma 3, cod. proc. civ. (nella parte in cui consente al giudice il rilievo di ufficio dell’incompetenza non oltre la prima udienza di trattazione della causa).

Ancora, i principi generali sui criteri di esegesi delle norme di legge: segnatamente, la regola della «stretta interpretazione» delle disposizioni che sanciscono preclusioni o decadenze processuali, con il divieto di interpretazioni estensive o applicazioni analogiche di esse.

2.3. Seppure non vincolata ad un termine perentorio, l’adozione del provvedimento che, in accoglimento della eccezione della P.A. convenuta, ordini la rinnovazione dell’atto al legittimo contraddittore non può tuttavia, in relazione al concreto sviluppo del singolo processo, arrecare pregiudizio alla esplicazione delle facoltà difensive delle parti (in primo luogo, di quella chiamata in causa con detto ordine), ponendosi altrimenti in contrasto con i superiori principi, di rango costituzionale, del giusto processo e del diritto di difesa.

E’ quanto lamentato, ancora una volta ingiustificatamente, dalla parte ricorrente.

Il – pur assai rilevante – lasso temporale intercorso tra la proposizione dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva (con la comparsa di costituzione del marzo 1995) e la pronuncia dell’ordine di integrazione del contraddittorio (con provvedimento del marzo 2001) non ha cagionato alcun vulnus alla difesa del terzo chiamato Ministero dell’Industria.

La controversia in primo grado, infatti, in quanto promossa nell’anno 1994, si è svolta sotto l’egida del codice di rito anteriore alla operatività della legge 26 novembre 1990, n. 353, cioè a dire secondo le regole del cd. «processo senza barriere», caratterizzato dalla insistenza di preclusioni al compimento delle attività assertive ed asseverative delle parti e dalla possibilità, anche in sede di conclusioni, di emendare o specificare domande ed eccezioni (anche di proporne di nuove, salva la espressa non accettazione del contraddittorio manifestata dalla controparte) e di articolare nuove istanze istruttorie.

Ciò posto, l’ordinanza di rinnovazione dell’atto nella specie è stata pronunciata nella fase di trattazione del giudizio, successivamente dipanatosi attraverso plurime udienza sino alla precisazione delle conclusioni, rassegnate nel giugno 2003: in questo arco temporale, il Ministero dell’Industria si è ritualmente costituito, potendo compiutamente svolgere ogni deduzione difensiva ritenuta opportuna, afferente il thema decidendum o il thema probandum.

3. Per violazione e falsa applicazione degli artt. 36, 99, 101, 112, 121, 167 e 345 cod. proc. civ. e degli artt. 2 e 3 del r.d. 14 aprile 1910, n. 639, in relazione all’art. 360, comma 1, nurn. 4, cod. proc. civ., il Ministero dello Sviluppo Economico deduce, quale secondo motivo del ricorso principale, che la Corte di Appello ha emesso di pronunciare sulla fondatezza della pretesa erariale di ottenere la restituzione dei contributi indebitamente percepiti dall’opponente.

Premesso che il giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale è diretto all’accertamento, positivo o negativo, della pretesa erariale nell’ambito dell’oggetto del contendere definito dalle parti, l’impugnante sostiene che, dedotta in lite l’avvenuta risoluzione giudiziale della convenzione con la P.A. relativa al progetto finanziato con la conseguente sopravvenuta inefficacia del provvedimento di ammissione al contributo, la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere all’accertamento dell’obbligo della società opponente di restituire il finanziamento divenuto sine titulo, senza a tal fine postulare – come invece ritenuto nella sentenza impugnata – la necessità di un’apposita domanda riconvenzionale da parte opposta.

3.1. Il motivo è fondato.

L’ingiunzione cd. fiscale, prevista dall’art. 2 del citato r.d. n. 639 del 1910, a seguito della modifica operata dall’art. 130, comma 2, del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (con l’abrogazione delle disposizioni regolanti la riscossione coattiva dei tributi), ha perduto la funzione di precetto e titolo esecutivo, come tale idonea a consentire l’attivazione del procedimento di riscossione mediante ruolo; nel sistema risultante dopo le descritte novelle, essa costituisce un atto amministrativo a carattere impositivo, espressione del potere di autotutela della pubblica amministrazione, con efficacia accertativa della pretesa erariale e la funzione di atto di invito al pagamento diretto a portare a conoscenza del debitore la pretesa erariale e a consentirgli la tutela dei propri interessi anche in sede giurisdizionale.

La descritta natura complessa della ingiunzione importa, da un lato, l’osservanza dei requisiti di validità formale e di contenuto essenziale tipicamente connotanti il provvedimento amministrativo (ad esempio, l’esplicazione, anche per relationem, dei motivi dell’atto, l’indicazione del termine e dell’autorità cui è possibile ricorrere), ma richiede altresì, in relazione all’efficacia accertativa, la sussistenza delle condizioni di ammissibilità del mezzo di autotutela, ovvero la certezza, liquidità ed esigibilità del credito, dovendo la sua esistenza e determinazione quantitativa derivare da fonti, da fatti e da parametri obiettivi e predeterminati, rispetto ai quali la P.A. dispone di un mero potere di accertamento (ex plurimis, Cass., Sez. U, 25/05/2009, n. 11992).

Avverso siffatta ingiunzione, il rimedio apprestato dal medesimo r.d. n. 639 del 1910 è rappresentato dall’opposizione da proporsi ad iniziativa della parte ingiunta: proprio dall’illustrata natura complessa dell’ingiunzione deriva che il thema decidendum di tale controversia non si esaurisce nella verifica della validità formale del provvedimento impugnato e della sussistenza delle condizioni di ammissibilità del ricorso della pubblica amministrazione ai peculiare strumento di autotutela (sicché sarebbe inammissibile, per difetto di interesse, un’opposizione ad ingiunzione proposta deducendo unicamente il difetto dei presupposti per l’adozione di essa oppure vizi relativi ai requisiti di forma-contenuto dell’atto: così Cass. 20/06/2016, n. 12674), ma si estende necessariamente all’accertamento sul merito della pretesa creditoria fatta valere dalla P.A.

In altre parole, l’opposizione ad ingiunzione fiscale ha ad oggetto non soltanto l’atto amministrativo, ma anche il rapporto giuridico obbligatorio sottostante, e la cognizione del giudice adito non si limita ai vizi di legittimità formale dell’ingiunzione dedotti dall’opponente ma involge comunque, a prescindere da una espressa richiesta in tal senso, l’accertamento sull’esistenza e l’entità del credito.

In detto giudizio, infatti, con il richiedere il rigetto dell’avversa opposizione ovvero la conferma dell’impugnata ingiunzione, l’opposta amministrazione formula una domanda di riconoscimento (totale o parziale) del diritto al recupero del credito nella misura e per le ragioni causali già giustificanti l’ingiunzione, sulla cui fondatezza il giudice è tenuto a statuire, in base agli elementi di prova addotti dalle parti (assumendo l’amministrazione opposta, ai fini del riparto del relativo onere, la veste di attore in senso sostanziale), atteso che è lo stesso atto di accertamento notificato all’ingiunto, nei limiti da questi impugnato, ad integrare gli estremi della domanda sulla quale il giudice è chiamato a pronunciarsi (ex plurimis, Cass. 03/11/2011, n. 22792; Cass. 18/06/2010, n. 14812; con specifico riferimento alla distribuzione dell’onus probandi, Cass. 16/05/2016, n. 9989).

3.2. Alla luce degli enunciati principi di diritto, chiaro si appalesa l’errore contenuto nell’impugnata sentenza, puntualmente censurato.

La Corte di Appello di Potenza, confermando cor diverse espressioni semantiche la pronuncia di primo grado (con cui era stata dichiarata la «nullità dell’ingiunzione»), ha ravvisato la «illegittimità della pretesa fatta valere con l’ingiunzione» quale conseguenza, sic et simpliciter, dell’annullamento in sede giurisdizionale amministrativa dell’atto prodromico, ovvero il decreto ministeriale di decadenza dai benefici e di revoca dei contributi; ha ritenuto non dover pronunciare sul credito della P.A. alla restituzione del contributo dacché, in quanto fondato su un titolo diverso rispetto di quello a base dell’ingiunzione («ovvero sulle circostanze evidenziate nella stessa sentenza del TAR Lazio e prima ancora sul lodo arbitrale»: così testualmente, pag. 11 della sentenza impugnata), presupponeva la proposizione di apposita domanda riconvenzionale, non formulata invece dalla P.A. opposta.

L’argomentazione così sviluppata, non immune da intrinseche contraddizioni, non è condivisibile nell’apprezzamento della diversità della causa petendi del credito restitutorio controverso rispetto alla ragione giustificante l’emissione dell’ingiunzione fiscale.

Quest’ultima, invero, trae fondamento nell’accertamento da parte della P.A. di una condictio indebiti sostanziale del soggetto privato, cioè a dire del sopravvenuto venir meno della causa di erogazione del contributo per effetto della risoluzione (con lodo arbitrale) della convenzione relativa al progetto in tal modo finanziato, accertamento rispetto al quale il decreto ministeriale di revoca del beneficio assume valenza meramente ricognitiva.

Con l’ordinanza ingiunzione de qua, la P.A. ha, in altri termini, preteso la ripetizione di somme divenute indebite per effetto della dichiarata inefficacia del provvedimento di erogazione, accertata con il D.M. di revoca del contributo: diritto alla restituzione per siffatto titolo costituente, senza necessità di domanda riconvenzionale, il thema decidendum del giudizio di opposizione ed oggetto altresì delle contestazioni in tale sede sollevate dall’ingiunto, il quale, sulla scorta del medesimo fatto (lodo arbitrale di risoluzione della convenzione), ha dedotto l’infondatezza della richiesta restitutoria della P.A. ed invocato il contrario accertamento di un proprio maggiore credito.

La delibazione sull’esistenza ed entità del preteso (e controverso) credito da ripetizione dell’indebito dell’amministrazione opposta e sulle eccezioni della società opponente risulta pertanto erroneamente omessa nella sentenza impugnata.

4. Con unico motivo di ricorso incidentale, la società F. censura, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 del r.d. n. 639 del 1910 e degli artt. 100, 101 e 102 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, cod. proc. civ., la decisione dalla Corte territoriale nella parte in cui, in accoglimento dell’appello sul punto interposto, ha ritenuto la carenza di legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate, riconoscendo la stessa solo in capo all’amministrazione titolare del credito, ovvero il Ministero dell’Industria.

Deduce l’impugnante che la proposta opposizione non concerne soltanto profili di merito (relativi cioè alla fondatezza della pretesa creditoria) ma anche vizi di irregolarità formale della ingiunzione, in relazione ai quali la legittimazione a contraddire compete alle PP.AA. autrici formali dell’atto, ovvero il Ministero dell’Economia e Finanze e l’Agenzia delle Entrate.

4.1. Il motivo è fondato.

Non è controverso che l’ingiunzione de qua sia stata emessa, su delega del Ministero dell’Industria, dall’Intendenza di Finanza: si versa dunque in una ipotesi di scissione soggettiva tra l’ente titolare del credito e l’ente emittente l’atto amministrativo finalizzato alla riscossione del credito.

In una situazione del genere, la legittimazione a contraddire va individuata – non diversamente da quanto ritenuto da questa Corte in materia di impugnazione di atti della procedura di riscossione coattiva a mezzo ruolo ai sensi del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 – in base ai motivi di doglianza dedotti dall’opponente.

In particolare, qualora si assuma l’esistenza di vizi formali intrinseci dell’atto o comunque riferibili, poiché direttamente attinenti, all’operato dell’ente che ha predisposto l’ingiunzione, la legittimazione passiva spetta a quest’ultimo; laddove invece si contesti, nell’an o anche soltanto nel quantum, il diritto di credito, il contraddittorio va correttamente instaurato con l’ente titolare della pretesa (cfr., in senso analogo, Cass. 25/02/2016, n. 3707).

In applicazione dell’esposto principio, nella specie non vi è ragione di dubitare della concorrente legittimazione passiva di tutte le pubbliche amministrazioni evocate in lite, convenute con la originaria opposizione nonché chiamate in ottemperanza dell’ordine giudiziale di rinnovazione dell’atto.

Con la opposizione in discorso, infatti, oltre a contestazioni sulla debenza delle somme richieste (in relazione alle quali corretta parte processuale è stata individuata nel Ministero dell’Industria, titolare del credito), sono state sollevato altresì censure (rimaste assorbite nella sentenza di primo grado dall’accoglimento per altri motivi dell’opposizione, ma riproposte in appello, in ossequio al disposto dell’art. 346 cod. proc. civ.: Cass., Sez. U, 12/05/2017, n. 11799) afferenti la competenza ratione loci dell’ufficio dell’amministrazione finanziaria emittente l’ingiunzione, quindi un vizio proprio dell’atto, imputabile alla P.A. da cui promana lo stesso, in parte qua passivamente legittimata.

5. In relazione ai motivi accolti, della impugnata sentenza va disposta la cassazione con rinvio alla Corte di Appello di Potenza in diversa composizione, perché compia gli accertamenti descritti sub § 3. nel contraddittorio con le parti come individuate sub § 4.

6. Al giudice di rinvio è demandata anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Rigetta il primo ed il terzo motivo del ricorso principale; accoglie il secondo motivo del ricorso principale ed I ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di Appello di Potenza, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.