CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 dicembre 2017, n. 29750
Procedura di riduzione di personale – Dipendenti degli istituti di credito di diritto pubblico – Applicazione della disciplina ex L. n. 223/1991 – Criterio di scelta dei lavoratori in esubero – Possesso del requisito di accesso alla pensione – Trattamento discriminatorio fondato sull’età – Non sussiste – Finalità legittima di politica del lavoro o di formazione professionale – Mancata comunicazione alla Commissione regionale ex art. 4, co. 9, L. n. 223/1991 – Non rileva – Principio della “strumentalità delle forme”
Fatti di causa
Con sentenza n. 5761/2013 il Tribunale di Salerno rigettava il ricorso con il quale D.V. aveva impugnato il licenziamento intimatogli con lettera in data 18/9/2008 dal Banco di Napoli S.p.A. all’esito di procedura di riduzione del personale ai sensi della I. n. 223/1991.
Il Tribunale, per quanto di interesse, osservava a sostegno della propria decisione che la disciplina, di cui alla I. n. 223, trovava applicazione anche nei confronti dei dipendenti degli istituti di credito già di diritto pubblico, come il Banco di Napoli; che l’adozione del criterio di scelta dei lavoratori in esubero costituito dal possesso del requisito di accesso alla pensione non configurava alcun trattamento discriminatorio; che nel caso di specie la comunicazione ex art. 4, comma 9, I. n. 223 risultava effettuata agli organi pubblici competenti, compresa la Commissione regionale permanente tripartita.
L’appello proposto dal lavoratore avverso tale sentenza veniva dichiarato inammissibile ex art. 436 bis c.p.c. dalla Corte di appello di Salerno con ordinanza del 5 dicembre 2014.
Per la cassazione della sentenza e dell’ordinanza ha proposto ricorso il lavoratore con cinque motivi; la società ha resistito con controricorso, assistito da memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, deducendo nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 in riferimento all’art. 132, co. 1°, n. 4 c.p.c. nonché violazione di legge ex art. 360 n. 4 in riferimento agli artt. 2697 c.c. e 5 I. n. 604/1966, il ricorrente censura la sentenza di primo grado per avere il Tribunale, con una motivazione illogica e contraddittoria ed altresì emessa in violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio, erroneamente ritenuto dimostrato l’invio della comunicazione finale della procedura alla Commissione regionale tripartita della Campania.
Con il secondo motivo, deducendo vizio di motivazione e nullità del procedimento ex art. 360 n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c., il ricorrente si duole che il giudice di primo grado nulla avesse statuito in merito al mancato invio della comunicazione di fine procedura agli enti indicati nell’art. 4, comma 9, I. n. 223/1991 contestualmente all’invio della lettera di recesso ai lavoratori.
Con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 9, I. n. 223/1991, il ricorrente impugna l’ordinanza della Corte di appello di Salerno dichiarativa della mancanza di una ragionevole probabilità di accoglimento del gravame, nella parte in cui la Corte ha ritenuto, diversamente dal primo giudice e con statuizione avente natura sostanziale di sentenza, che vi fosse stata, da parte del Banco di Napoli, “sostanziale osservanza” dell’adempimento concernente l’invio della comunicazione finale, con ciò intendendo che tale invio non fosse necessario nei confronti della Commissione regionale permanente tripartita, posto che la società aveva riconosciuto, in sede di costituzione in grado di appello, di non avervi provveduto.
Con il quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 4 d.lgs. n. 216/2003 e 15, co. 2, I. n. 300/1970, nonché degli artt. 3 e 6 della Direttiva 2000/78/CE, il ricorrente censura la sentenza di primo grado per avere escluso la illegittimità del criterio di scelta dei lavoratori in esubero fondato sul possesso dei requisiti pensionistici, nonostante che tale criterio si ponesse in violazione della normativa nazionale ed europea contro le discriminazioni.
Con il quinto motivo, infine, deducendo violazione e falsa applicazione della procedura ex I. n. 223/1991, nonché violazione di legge con riferimento all’art. 3 I. n. 218/1990, il ricorrente censura la sentenza di primo grado per avere il Tribunale di Salerno ritenuto applicabile la disciplina, di cui alla I. n. 223/1991, anche ai dipendenti degli istituti di credito di diritto pubblico, quale il Banco di Napoli all’epoca in cui il ricorrente era stato assunto.
Il primo e il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi dalla questione, comune ad entrambi, della necessità o meno dell’invio della comunicazione ex art. 4, comma 9, I. n. 223/1991 alla Commissione regionale tripartita.
Gli stessi risultano infondati, in applicazione del principio della ragione più liquida.
E’, infatti, ormai consolidato il principio di diritto, per il quale “in materia di licenziamento collettivo, in applicazione del generale principio della “strumentalità delle forme”, valido anche per il procedimento amministrativo, non può essere dichiarata l’inefficacia del licenziamento laddove, nell’ambito di una procedura svoltasi in modo corretto e adeguato alle finalità cui è preordinata per legge, risulti omessa esclusivamente la comunicazione alla Commissione regionale indicata dall’art. 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223 – che, in base all’art. 6 della stessa legge, svolge il compito di approvare le liste di mobilità – ed il licenziamento collettivo sia stato disposto, per riduzione del personale, da parte di una impresa non rientrante nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale, i cui dipendenti, quindi, non possono beneficiare dell’indennità di mobilità” (cfr., fra le molte conformi, Cass. n. 12122/2015).
Il secondo motivo risulta inammissibile, dovendosi, in proposito, richiamare il principio, per il quale “in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 348 ter, terzo comma, c.p.c., si applicano le disposizioni di cui agli artt. 329 e 346 del medesimo codice, sicché la parte deve fornire l’indicazione che la questione sollevata in sede di legittimità era stata devoluta, sia pure nella forma propria dei motivi di appello, al giudice del gravame, dichiarato inammissibile ex art. 348 bis c.p.c.”: Cass. n. 2784/2015 (ord.).
Nella specie, il ricorrente si è limitato all’estrapolazione di alcuni passi del proprio atto introduttivo, di per sé inidonei a delineare con certezza e precisione – così come necessario, secondo consolidato orientamento di legittimità (Cass. n. 8423/2001) – l’avvenuta allegazione della questione della contestualità (dell’invio della lettera di recesso e della comunicazione di fine procedura agli enti ex lege destinatari della stessa), e comunque non ha specificato se, dove e in quali termini tale questione fosse stata prospettata al giudice di appello, non essendo sufficiente a tale fine il generico richiamo ad una denuncia rinnovata “in tutti i gradi” del giudizio (cfr. ricorso, p. 23) o la sintetica elencazione dei temi di indagine che sarebbero stati devoluti alla cognizione del giudice di secondo grado (cfr. ricorso, p. 5).
Il quarto motivo è infondato.
L’art. 6 della Direttiva 2000/78/CE, così come interpretato dalla Corte di giustizia (Sezione III, 5 marzo 2009, causa C-388/07), offre agli Stati membri la possibilità di prevedere, nell’ambito del diritto nazionale, forme di disparità di trattamento fondate sull’età quando siano “oggettivamente e ragionevolmente” giustificate da una finalità legittima, quale la politica del lavoro e del relativo mercato o della formazione professionale, purché i mezzi per il raggiungimento di tale scopo siano necessari e appropriati.
A tali finalità e alla previsione di mezzi necessari e appropriati al raggiungimento dello scopo risponde il D.M. 28 aprile 2000, n. 158, con il quale è stato istituito un apposito Fondo di solidarietà per la riconversione e riqualificazione professionale, per il sostegno dell’occupazione e del reddito del personale del settore del credito (art. 1), avente lo scopo di attuare interventi diretti a favorire il mutamento e il rinnovamento delle professionalità e la realizzazione di politiche attive di sostegno del reddito e dell’occupazione, nell’ambito e in connessione con processi di ristrutturazione o di situazioni di crisi, di riorganizzazione aziendale o di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro (art. 2).
In particolare, tale decreto prevede che l’individuazione dei lavoratori in esubero debba riguardare anzitutto il personale che, alla data stabilita per la risoluzione del rapporto di lavoro, sia in possesso dei requisiti di legge previsti per avere diritto alla pensione anticipata o di vecchiaia, anche se abbia diritto al mantenimento in servizio (art. 8).
Ne consegue che il criterio del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità o di vecchiaia, ben diversamente dall’essere mezzo indiretto di discriminazione basato sull’età, deve ritenersi del tutto giustificato ai sensi delle previsioni della Direttiva 2000/78/CE e delle disposizioni (artt. 3 e 4) del d.lgs. n. 216/2003, con cui la stessa è stata recepita nell’ordinamento nazionale, comportando nel caso di specie che l’obiettivo della riduzione del personale e del contenimento del costo del lavoro fosse perseguito mediante il ricorso a forme concrete e adeguate di sostegno del reddito.
Nel senso dell’assenza di violazione del principio di non discriminazione si è, d’altra parte, e da lungo tempo, consolidata la giurisprudenza di legittimità. Al riguardo si rileva che già Cass. n. 20455/2006 aveva sottolineato come il criterio del prepensionamento, applicato – congiuntamente con il criterio produttivo – in osservanza degli accordi sindacali, rispondesse “a indubbi criteri di razionalità tenuto conto delle finalità perseguite mediante l’iter procedurale regolato dagli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991. Né per andare in contrario avviso e sostenerne la illegittimità vale il riferimento a possibili effetti di discriminazione tra i lavoratori, essendo ogni forma di riserva sul punto destinata a venir meno in considerazione sia del fatto che non si riscontra nel caso di specie alcun elemento suscettibile di far paventare l’esistenza di un intento discriminatorio da parte della società, sia in considerazione dell’innegabile equità di un sistema di riduzione del personale incentrato sull’esigenza di una più efficiente riorganizzazione della impresa (che sta alla base del criterio tecnico-produttivo) non disgiunta da quella di addossare la ricaduta degli effetti negativi di detta riduzione sui soggetti che, per essere prossimi a pensione, hanno la capacità economica di meglio ammortizzare detti effetti”.
Tale orientamento è stato più volte confermato e ribadito, in fattispecie analoghe o del tutto sovrapponibili alla presente, da Cass. n. 9866/2007 nonché, fra le molte pronunce conformi, da Cass. n. 1236/2011, n. 1949/2011, n. 11661/2012, n. 5965/2013. Non ricorrono, pertanto, nella specie, i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, il quale “presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia autoevidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che é rimesso al giudice nazionale a meno che non involga un’interpretazione generale ed astratta”: Cass. n. 15041/2017 (ord.).
Risulta altresì infondato il quinto motivo.
E’, infatti, consolidato il principio di diritto, per il quale “nel caso di trasformazione di enti creditizi pubblici (nella specie, Banco di Napoli) in società per azioni, non può essere esclusa, ex art. 3, comma 2, della I. n. 218 del 1990, l’applicabilità della disciplina sui licenziamenti di cui alla I. n. 223 del 1991, non sopravvivendo alla privatizzazione il regime di stabilità del rapporto di lavoro con un ente pubblico economico, posto che la salvezza dei diritti quesiti riguarda solo le posizioni soggettive già acquisite al patrimonio del prestatore sotto il profilo economico, e non riducibili a mere aspettative sotto il profilo giuridico” (Cass. n. 24109/2016 e successive numerose conformi).
Il ricorso deve conclusivamente essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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