CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 febbraio 2018, n. 3315
Licenziamento per giusta causa – Conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Traffico telefonico non attinente alle esigenze di servizio, non consentito e non autorizzato – Comportamento non sanzionabile con una sanzione espulsiva in quanto sproporzionata – Censure di merito dirette ad una rivalutazione del “fatto” – Ricorso inammissibile – Riesame possibile solo quando la motivazione sia al di sotto del “minimo costituzionale”
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Roma con sentenza del 2.2.2015 rigettava l’appello principale proposto da Z.V. nonché l’appello incidentale della T.I. avverso la sentenza del 23.1.2013 del Tribunale di Roma che aveva solo in parte accolto la domanda di Z.V. diretta all’annullamento del licenziamento intimato per giusta causa dalla società T. spa il 9.9.2001 disponendo la conversione dello stesso in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con condanna al pagamento del preavviso liquidato come da sentenza.
2. La Corte territoriale ricordava che allo Z. era stato contestato di aver compiuto una lunghissima serie di telefonate verso numerazioni non geografiche a valore aggiunto, traffico telefonico non attinente alle esigenze di servizio, non consentito e non autorizzato, utilizzando la linea dedicata al fax del reparto cui era addetto con un costo di oltre 8.000,00 euro per la società, trattenendosi nei locali prima delle ore 8 e dopo l’orario contrattuale. La Corte territoriale osservava ancora che le istanze istruttorie non accolte dal Tribunale dirette ad accertare una condotta mobbizzante del datore di lavoro erano o molto risalenti e quindi inidonee ad essere poste in correlazione con i fatti contestati o attenevano a condotte irrilevanti per l’accertamento del preteso mobbing o ancora in contraddizione con quanto ammesso dallo stesso ricorrente, le cui condizioni mediche comunque risultavano dalla documentazione medica in atti. Circa la valutazione della condotta tenuta dal lavoratore la Corte territoriale rilevava che lo stato psico-fisico del lavoratore all’epoca non era di depressione e quindi non poteva accogliersi la tesi per cui le telefonate erano dovute alla necessità di sentire voci amiche in momenti difficili della giornata e che, comunque, il lavoratore avrebbe potuto sottoporsi a cure appropriate. La gravità dei fatti addebitati era quindi tale da legittimare l’irrogazione del recesso; mente era infondato l’appello incidentale posto che l’utilizzazione di mezzi aziendali per finalità personali con danno dell’azienda (sanzionabile con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo) ricomprendeva ogni tipo di danno ivi compresa la sottrazione di tempo all’attività lavorativa.
3. La sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal lavoratore tre motivi; si è costituita la T. con controricorso corredato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si allega la violazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 2106 cod. civ. e dell’art. 15 L. n. 604/66 ex art. 360 n. 3 cod. civ. proc. In un precedente della Corte di cassazione (Cass. n. 23107/2008) l’invio di ben 13.000 messaggi dal telefono aziendale era stato ritenuto un comportamento non sanzionabile con una sanzione espulsiva in quanto sproporzionata; la Corte di appello non si era attenuta alla giurisprudenza di legittimità.
2. Il motivo appare infondato posto che in realtà solleva censure di merito dirette ad una rivalutazione del “fatto”, come tale inammissibile tenuto conto della nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 cod. civ. proc. applicabile ratione temporis che non consente tale riesame se non in casi eccezionali e quando la motivazione sia al di sotto del “minimo costituzionale” (Cass. Sez. Un. nn. 8052 e 8053 del 2017). Ora la proporzionalità della sanzione e la gravità della condotta addebitata sono già state valutate dalla Corte di appello la cui motivazione sul punto appare congrua e logicamente coerente; né la Corte di appello era tenuta a seguire precedenti di questa Corte non nei principi di diritto affermati, che non risultano violati, ma riguardo le circostanze esaminate nella decisione e riguardo il giudizio espresso in concreto in quel procedimento sulla proporzionalità tra sanzione ed addebito, valutazioni che rientrano pacificamente nei poteri del Giudice di merito, pur gravato dall’obbligo di una corretta e logica motivazione. Peraltro nel motivo l’analogia tra i due casi viene meramente affermata riguardo l’uso dei mezzi aziendali (telefono), ma non vengono presi in considerazione e discussi nemmeno gli altri elementi concreti della fattispecie, come ad esempio il danno aziendale arrecato.
3. Con il secondo motivo si allega la nullità del procedimento per totale mancanza di istruttoria ex art. 360 n. 1 cod. civ. proc. Non si era ammessa la prova richiesta, decisiva per accertare una condizione di fragilità psicologica dello Z. dovuta a condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro.
4. Il motivo appare infondato; la valutazione circa l’ammissibilità delle prove articolate dalle parti rientra nei poteri del Giudice di merito che ha, con motivazione congrua e logicamente coerente, motivato in ordine alla loro irrilevanza.
Peraltro non si vede, neppure in astratto e sul piano della mera razionalità, come possa costituire una causa giustificativa del ripetuto uso illecito di mezzi aziendali a fini personali con un danno di una certa consistenza al datore di lavoro uno stato di sofferenza psicologica, anche attribuibile a quest’ultimo. Al lavoratore certamente non poteva sfuggire il carattere illecito della condotta e certamente non può nemmeno ipotizzarsi una sorta di diritto di ritorsione per comportamenti pretesamente mobbizzanti.
5. Con l’ultimo motivo si allega l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e concernente le condizioni di salute del ricorrente. Non risultava presa in considerazione la documentazione medica prodotta ed in particolare il test del 2011 ed altri documenti.
6. Il motivo è inammissibile in quanto il “fatto” di cui si discute e cioè le condizioni di salute del lavoratore all’epoca degli episodi addebitatagli è già stato esaminato dalla Corte di appello con motivazione congrua e logicamente coerente, certamente ben al di sopra del “minimo costituzionale” come si finisce con l’ammettere anche nel motivo (cfr. pag. 16). Pertanto il motivo non è coerente con la nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 cod. civ. proc. (cfr. Cass. sez. un. nn. 8053 e 8052 del 2014) perché verrebbe un nuovo esame delle risultanze documentali, inammissibile in questa sede. Peraltro la Corte di appello, sia pure sinteticamente, ha anche aggiunto che – anche se si ammettesse che lo Z. all’epoca fosse affetto da depressione – nulla gli avrebbe impedito di ricorrere alle cure del caso, e cioè – come già accennato – che anche una situazione di particolare fragilità psichica del lavoratore – per mera ipotesi argomentativa ascrivibile al datore di lavoro – non legittimerebbe comportamenti come quelli contestati e cioè l’indebito uso di mezzi aziendali come il telefono per fini propri e con grave danno economico del datore di lavoro, la cui contrarietà alla correttezza e buona fede è intuitiva. Su questo ultimo punto non vi è stata alcuna impugnazione.
7. Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente ai pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 200,00 per esborsi, nonché in euro 4.000,00 per compensi oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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