CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 gennaio 2018, n. 623
Accertamento – Maggiori imposte – Movimentazioni bancarie transitate sul conto corrente – Assenza di giustificazioni delle singole operazioni rilevate – Rettifica basata sulla differenza tra il prezzo di rivendita e quello di acquisto
Fatti di causa
Con ricorso proposto in data 17.2.03 dinanzi alla C.T.P. di Rieti, P.G., esercente la attività di commercio all’ingrosso di salumi e formaggi, impugnava l’avviso di accertamento n. 880010200347/2002 relativo a maggiori imposte Irpef, Ilor, Irap e contributo S.S.N., relative all’anno di imposta 1998, fondato su un verbale di constatazione redatto in data 14.5.99 dalla Guardia di Finanza.
Il contribuente, con il ricorso introduttivo della lite, eccepiva la illegittimità dell’accesso effettuato presso la sua abitazione e, contestando la ricostruzione operata dai verificatori che era stata recepita dall’Amministrazione nell’atto impugnato, chiedeva l’annullamento dell’avviso di accertamento.
A seguito di costituzione in giudizio della Agenzia delle Entrate, la quale ribadiva la legittimità e fondatezza dell’accertamento, la C.T.P. di Rieti accoglieva il ricorso del contribuente affermando che la Guardia di Finanza aveva illegittimamente esteso il proprio potere di accesso nell’abitazione privata del contribuente, in violazione dell’art. 52 del d.P.R. n. 633/72, non sussistendo gravi indizi dell’illecito fiscale.
Avverso la sentenza proponeva appello, dinanzi alla Commissione Tributaria regionale, la Agenzia delle Entrate sostenendo, nel merito, di avere agito legittimamente recependo nell’avviso di accertamento le risultanze della verifica effettuata dalla Guardia di Finanza.
Il contribuente chiedeva il rigetto dell’appello e la C.T.R. rigettava l’appello proposto dall’Amministrazione, accogliendo la eccezione di carenza di motivazione dell’atto autorizzativo di accesso e la eccezione di nullità dell’avviso di accertamento perché contraddittorio e privo di motivazione, sollevate dal contribuente.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate, avverso la suddetta sentenza, proponevano ricorso per cassazione, insistendo nella fondatezza della pretesa tributaria; il contribuente resisteva con controricorso e depositava memoria ex art. 378 c.p.c..
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 7814/10, dichiarava inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e, rigettando il motivo fondato sulla eccezione di giudicato, accoglieva gli altri motivi di ricorso proposti dalla Agenzia delle Entrate.
Al riguardo, nella motivazione la Corte evidenziava che la decisione della C.T.R. era gravemente carente nella valutazione degli elementi di fatto che costituivano oggetto del giudizio di appello, in quanto: a) il giudice di appello non aveva considerato che la Guardia di Finanza nel richiedere l’autorizzazione ad accedere al domicilio del contribuente aveva chiarito i motivi di tale richiesta, ai quali aveva fatto espresso riferimento la Procura della Repubblica nel provvedimento con il quale aveva concesso l’autorizzazione; b) non aveva adeguatamente valutato, rispetto al contenuto dell’accertamento del maggior reddito di impresa, quanto era emerso dalla verifica bancaria che aveva consentito d individuare, nell’anno di imposta, versamenti sul conto personale del contribuente per alcuni milardi di lire, importo che superava di molto quello dei ricavi registrati e fatturati dall’impresa nello stesso anno.
La Corte evidenziava, altresì, che la C.T.R. aveva ritenuto paradossale la sommatoria delle operazioni attive e passive effettuate dall’Agenzia delle Entrate nel suo accertamento ed aveva pure motivato che, essendo il contribuente in regime di contabilità ordinaria, le annotazioni risultanti dalle scritture contabili facevano piena prova.
Pertanto, la Corte cassava la sentenza della Commissione Tributaria regionale per vizio di motivazione, poiché il giudice di appello a) non aveva incentrato la motivazione sul reale contenuto dell’accertamento b) aveva ritenuto esaustiva e trasparente la contabilità del P., senza tenere conto che essa non trovava riscontro negli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza che avevano consentito di riscontrare una contabilità parallela e la effettuazione di operazioni commerciali non fatturate c) aveva escluso immotivatamente che le operazioni non contabilizzate dall’impresa fossero inerenti all’attività commerciale d) aveva attribuito valore probatorio pieno alla contabilità del contribuente senza prendere in considerazione le risultanze dell’accertamento che smentivano l’attendibilità di tale contabilità e) aveva fornito una motivazione oscura e comunque contraddittoria in ordine alle percentuali di ricarico ed alla determinazione analitica dei costi.
La Corte rilevava, inoltre, la erroneità della motivazione della C.T.R. nella parte in cui aveva ritenuto illegittima la sommatoria di versamenti e prelievi dal conto corrente ai fini della ricostruzione del reddito di impresa, sottolineando che non era stata fatta corretta applicazione dei principi affermati dalla stessa Corte in merito all’onere probatorio gravante sul contribuente nel caso di accertamento fondato su verifiche di conti correnti bancari.
La Agenzia delle Entrate depositava ricorso in riassunzione, chiedendo la conferma dell’avviso di accertamento.
Il contribuente chiedeva, invece, la conferma della sentenza impugnata e, all’esito, la C.T.R. respingeva l’appello con sentenza depositata il 24.1.12.
Avverso tale ultima sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate affidandolo ad un unico motivo di ricorso.
Il contribuente resiste con controricorso. Il P. ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con un unico motivo di ricorso la Agenzia delle Entrate deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 32, 33 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 75 del d.P.R. n. 917/86, degli artt. 1 e 6 del d.lgs. n. 471/97, degli artt. 2697, 2727 e 2728 cod. civ., nonché dell’art. 383 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.”.
La ricorrente, nell’evidenziare che dalla motivazione dell’atto impositivo risulta che l’accertamento dei maggiori ricavi è stato desunto dalle movimentazioni bancarie, relative all’anno 1998, transitate sul conto corrente (c.c. “titolare c/c”), che non trovavano rispondenza nella contabilità e non risultavano giustificate, si duole del fatto che la C.T.R. con la sentenza impugnata si è soffermata su un tema di indagine, quello delle percentuali di ricarico, del tutto irrilevante ai fini della decisione della controversia, se non con riferimento alla determinazione analitica dei costi.
In particolare, ha posto in evidenza che, sebbene la C.T.R. non abbia posto in discussione i principi richiamati dalla Corte di Cassazione in materia di accertamento fondato sull’esame dei conti correnti ed abbia ritenuto che il contribuente non avesse fornito la giustificazione delle singole operazioni riscontrate, ha comunque affermato che, <<qualora la rettifica concerna attività di rivendita di merci o prestazioni di servizi ulteriori rispetto a quelle contabilizzate, la rettifica non può andare oltre la differenza tra il prezzo di rivendita e quello di acquisto, ovvero tra i corrispettivi ricavati ed i costi necessari alla produzione, atteso che il relativo importo segna il limite massimo del profitto configurabile in tali operazioni>>.
Ha, quindi, dedotto che le conclusioni cui è pervenuta la C.T.R. sono viziate in quanto vanificano l’accertamento analitico induttivo previsto dall’art. 32 del d.P.R. n. 600/73 e dall’art. 51, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 (in materia di I.V.A.) e che, operando nella fattispecie in esame una presunzione di legge, l’Amministrazione non era tenuta ad una ulteriore attività istruttoria, né ad un approfondimento dei dati raccolti in riferimento all’attività svolta dal contribuente, poiché incombeva su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria, ossia di dimostrare la irrilevanza di ogni singola movimentazione bancaria riscontrata.
Il controricorrente ha eccepito la inammissibilità del motivo, assumendo che la sua articolazione non consentirebbe di comprendere se si intenda censurare la violazione o falsa applicazione di disposizioni normative ovvero la insufficienza o contraddittorietà delle statuizioni contenute nella sentenza impugnata, ed ha sostenuto che le argomentazioni difensive di parte ricorrente muovono da un presupposto erroneo, dato che la ricostruzione del reddito della ditta individuale non è avvenuto all’esito di una verifica fiscale fondata sulla analisi delle movimentazioni dei conti correnti bancari, essendosi piuttosto la verifica limitata ad accertare una discrasia tra le movimentazioni in entrata registrate sul conto di mastro “Passività – Debiti – Titolare c/c” ed il volume d’affari della ditta.
1.1 Il ricorso è fondato.
1.2. La C.T.R., dichiarando la illegittimità dell’atto impositivo, non ha correttamente applicato le norme richiamate nell’unico motivo di ricorso riguardanti i criteri che regolano gli accertamenti tributari analitico-induttivi. Infatti, il giudice di appello, dopo avere rilevato che l’Amministrazione finanziaria aveva proceduto alla ricostruzione del reddito sulla base di un accertamento analitico-induttivo ricorrendo a presunzioni “qualificate”, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/73, e che dalla documentazione non risultava che il contribuente avesse fornito una prova tesa a “smontare” la rettifica dell’imponibile in via presuntiva effettuata dalla Amministrazione finanziaria, poiché <<non aveva offerto strumenti validi a comprendere la natura dei versamenti riscontrati sul conto personale dell’attività di impresa, con conseguente discordanza delle risultanze contabili ed evidente esistenza di operazioni non contabilizzate dalla impresa, né dalla stessa giustificate>>, ha comunque affermato che il maggior reddito dovesse essere determinato mediante applicazione delle cd. “percentuali di ricarico”, trattandosi di rettifica concernente una attività di rivendita di merci o prestazioni di servizi ulteriori rispetto a quelle contabilizzate.
1.3. Il ragionamento della Commissione Tributaria regionale contrasta con i principi affermati da questa Corte in tema di accertamento che si fondi su verifiche di conti correnti bancari.
Infatti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass. n. 15857 del 29/07/2016, Cass. n. 18081 del 4/8/2010).
In particolare, in tema di accertamento delle imposte sui redditi e dell’I.V.A., tutti i movimenti sui conti bancari del contribuente, siano essi accrediti che addebiti, si presumono, ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, e dell’art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, riferiti all’attività economica del contribuente, i primi quali ricavi e i secondi quali corrispettivi versati per l’acquisto di beni e servizi reimpiegati nella produzione, spettando all’interessato fornire la prova contraria che i singoli movimenti non si riferiscono ad operazioni imponibili (Cass. n. 26111 del 30/12/2015, Cass. n. 16896 del 24/7/2014).
La sentenza impugnata, sebbene abbia fatto espresso riferimento all’art. 32, comma 1, n. 2 del d.P.R. n. 600/73, secondo cui i dati risultanti dalle movimentazioni bancarie possono essere “posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 42 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine…”, ha erroneamente applicato le norme richiamate dalla Agenzia delle Entrate.
Difatti la C.T.R. ha ritenuto che, poiché la rettifica concerne una attività di rivendita di merce o prestazioni di servizi ulteriori rispetto a quelle contabilizzate e la stessa rettifica non può andare oltre la differenza tra i corrispettivi ricavati ed i costi necessari alla loro produzione, sarebbe a carico dell’Ufficio tributario l’onere della prova dell’ammontare dei costi sostenuti dalla impresa, non potendo altrimenti calcolarsi la differenza tra prezzo di rivendita e prezzo di acquisto.
Deve, in contrario, rilevarsi che l’accertamento che l’Ufficio ha eseguito in base all’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 si fonda sui maggiori ricavi desunti dai verificatori dalle movimentazioni bancarie registrate sul conto mastro e non sulla rideterminazione dei ricavi mediante applicazione di una percentuale di ricarico sul costo di acquisto dei beni rivenduti e, pertanto, la C.T.R., non tenendo conto della parte di reddito emergente dai dati bancari e sottratta a tassazione, non ha fatto corretta applicazione delle norme che regolano il regime probatorio in materia di accertamenti che si fondano su verifiche bancarie.
Infatti, attraverso l’applicazione di una percentuale di ricarico è possibile pervenire da un fatto noto, ossia i costi sostenuti dall’imprenditore per l’acquisto della merce poi rivenduta, all’accertamento di un fatto ignoto, ossia i maggiori ricavi; non è invece corretto applicare il suddetto procedimento logico in senso inverso, ossia calcolare i costi sostenuti dall’imprenditore per l’acquisto dei beni rivenduti sulla base del reddito accertato dall’amministrazione finanziaria e applicando la percentuale di ricarico, poiché incombe sul contribuente l’onere di dimostrare i costi, che devono essere regolarmente annotati dall’imprenditore nelle scritture contabili.
Anche con riguardo alla questione della determinazione analitica dei costi la sentenza della C.T.R. ha, quindi, erroneamente applicato la disposizione dell’art. 75 (ora 109) del t.u.i.r. nel testo vigente ratione temporis, se si considera che il riconoscimento dei costi è consentito solo laddove si tratti di costi documentati, inerenti alla attività di impresa e dichiarati dallo stesso contribuente (Cass. n. 11205 del 16/5/2007, Cass. n. 4554 del 25/2/2010).
Per le ragioni sopra esposte la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla Commissione Tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che dovrà riesaminare i rilievi contenuti nell’avviso di accertamento, al fine di verificare se essi siano o meno fondati, tenendo conto dei principi sopra delineati in tema di rettifiche fondate su verifiche bancarie, di determinazione dei costi e di criteri di ripartizione degli oneri probatori.
La Commissione Tributaria del Lazio, in diversa composizione, provvederà, inoltre, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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