CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 dicembre 2017, n. 29958
Dimissioni per giusta causa – Indennità sostitutiva del preavviso – Incidenza sul trattamento di fine rapporto – Restituzione dell’indebita trattenuta – Rimozione dal ruolo di direttore senza un evidente motivo – Demansionamento – Esercizio dello jus variandi
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Milano con sentenza n. 363/15, pubblicata il 29 aprile 2015, rigettava, con conseguente condanna alle spese, il gravame interposto da EDIZIONI C. N. S.p.a. nei confronti di L. M., avverso la pronuncia con la quale il locale giudice del lavoro aveva riconosciuto la sussistenza della giusta causa delle dimissioni, rassegnate dal suddetto L. con lettera del 9 maggio 2011, condannando la società convenuta a pagare al medesimo la somma di euro 268.592,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, di euro 19.895,00 a titolo di incidenza della predetta indennità sul trattamento di fine rapporto e di euro 29.225,00 a titolo di restituzione dell’indebita trattenuta da parte della società, oltre accessori, rigettando invece la domanda riconvenzionale spiegata dalla resistente parte datoriale, condannata alle spese di lite.
Ad avviso della Corte territoriale, giustamente il primo giudicante aveva ritenuto pacifici i fatti di causa, quali la direzione della rivista G., edita dalla convenuta, da parte dell’attore, titolare altresì dell’incarico di direttore della omonima testata on-line e della rivista semestrale G. S., tenuto conto tra l’altro del contratto di assunzione in data 31 maggio 2006. Risultava, inoltre, pacifico che il suddetto ruolo di direttore responsabile era stato sottratto al L. come da scrittura del 19 febbraio 2011, con la quale la società aveva invitato il direttore a lasciare l’incarico per assumere quello di vice direttore dell’ambito della redazione V. F., con l’obiettivo di studiare nuove iniziative. Era anche pacifico, oltre che documentalmente provato, che nel nuovo contesto di V. F. già vi fossero oltre al direttore responsabile, un condirettore e un altro vicedirettore.
Non meritavano pregio le doglianze dell’appellante in relazione alla mancata ammissione delle richieste istruttorie avanzate, non essendo condivisibile la tesi della società, secondo la quale la maggiore notorietà della rivista V. F., nonché la maggiore complessità del contesto aziendale della stessa e del più elevato numero dei dipendenti avrebbero dovuto indurre a considerare comunque equivalente il nuovo ruolo di vicedirettore. Infatti, M. L. era stato assunto espressamente per svolgere il ruolo di direttore della testata G., ed aveva quindi diritto a mantenere quel ruolo, non potendo lo jus variandi incidere al punto tale di modificare il ruolo stesso, mentre al più sarebbe stato possibile l’incarico di direttore di altra testata. Per contro, il nuovo incarico di vicedirettore comportava in ogni caso un significativo arretramento gerarchico, laddove l’interessato non avrebbe più risposto direttamente all’editore, ma ad un direttore, ad un condirettore, in presenza per giunta di un altro vicedirettore. Giustamente era stato fatto notare come le competenze del direttore emergevano dall’articolo 6 del C.C.N.L. giornalisti. Anche a voler tener conto delle richieste istruttorie formulate da parte datoriale, sostanzialmente nessuno dei suddetti compiti di cui al citato articolo 6 sarebbero rimasti in capo al L. nel successivo ruolo di vicedirettore della V. F..
D’altro canto, lo stesso articolo 32 del contratto collettivo prevedeva la risoluzione, con il diritto all’indennità di licenziamento, nel caso in cui l’opera del giornalista venisse utilizzata in altro giornale della stessa azienda con caratteristiche sostanzialmente diverse. Il fatto di andare a svolgere il ruolo di vicedirettore, ancorché in una rivista di maggior impatto, ma in un contesto nel quale operavano anche un condirettore e addirittura un altro vicedirettore, impediva comunque al L. di espletare la propria professionalità acquisita come direttore di testata con le facoltà proprie di questo ruolo.
Quanto, poi, alle dimissioni, secondo la Corte distrettuale, proprio la rimozione dal ruolo di direttore, ricoperto sin dall’anno 2006, peraltro senza un evidente motivo, per andare a ricoprire altro incarico che non consentiva più di rispondere direttamente all’editore e di poter incidere, a differenza di quanto poteva avvenire nel precedente contesto, sull’indirizzo della rivista stessa, giustificava pienamente le dimissioni per giusta causa. Né si ravvisavano ostacoli circa la prospettata “acquiescenza”, in quanto tra la proposta di accordo, avanzata da parte datoriale il 19 febbraio 2011, e la e-mail di contestazione del L., in data 4 marzo 2011, erano trascorsi appena 15 giorni circa.
Avverso l’anzidetta pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione la S.p.A. EDIZIONI C. N. con atto spedito per la notifica il 27 ottobre 2015 affidato a TRE motivi, cui ha resistito M. L. mediante controricorso, notificato a mezzo posta elettronica certificata il 26 novembre 2015.
Memoria ex articolo 378 c.p.c. risulta depositata dalla sola ricorrente.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, è stata denunciata la violazione e/o la falsa applicazione dell’articolo 2103 c.c., unitamente ad erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto la sussistenza di un demansionamento in danno del signor L., in spregio al costante insegnamento giurisprudenziale in tema di jus variandi e senza tener conto delle allegazioni offerte in giudizio dalla società. Infatti, l’adibizione di cui all’articolo 2103 doveva ritenersi consentita anche in relazione a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, peraltro senza alcuna diminuzione della retribuzione, e dal principio della cosiddetta mobilità orizzontale. L’esercizio dello jus variandi non postulava l’identità di mansioni corrispondenti, non era configurabile un diritto del lavoratore ad essere adibito a quelle da ultimo svolte, ancorché considerate maggiormente gratificanti per la professionalità. La sentenza impugnata si era sostanzialmente limitata a confermare la possibilità dell’assegnazione presso altra testata, ma sempre con l’incarico di direttore, a prescindere dalla verifica in concreto della equivalenza o meno delle relative mansioni; ciò in aperta difformità con tutto quanto dedotto in merito al potere datoriale di modificare, con il limite della equivalenza, le mansioni del lavoratore. Tanto era stato pretermesso dalla Corte di Appello, che si era invece limitata a considerare che il ruolo di vicedirettore avrebbe comportato comunque un significativo arretramento e a richiamare la declaratoria contrattuale collettiva in tema di competenze del direttore di testata. In tal modo la Corte territoriale aveva messo a confronto il vecchio e nuovo ruolo del signor L., ma solo in astratto e senza avere in alcun modo tenuto conto delle differenti peculiarità degli stessi, invece evidenziate sin dal primo grado e che avrebbero dovuto condurre ad una valutazione più complessiva, segnatamente in relazione agli specifici incarichi assegnati dopo la nomina vicedirettore di Vanity Fair (mediante rinvio ai capitoli 8, 9, 17 e 18 della memoria ex articolo 416 c.p.c., riproposti in appello e trascritti nella parte introduttiva del ricorso). Tali circostanze avrebbero dovuto formare oggetto di debito approfondimento da parte del giudice di merito al fine di valutare in concreto l’equivalenza, o meno, delle nuove mansioni assegnate al L. rispetto alle precedenti.
Con il secondo motivo la ricorrente ha lamentato la violazione e la falsa applicazione degli articoli 2103 e 2119 c.c.; nonché erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva considerato sussistente una giusta causa di dimissioni in conseguenza dell’assegnazione al L. del nuovo incarico nella redazione di Vanity Fair. La sentenza impugnata aveva fatto grande confusione tra il concetto di demansionamento e quello di giusta causa di dimissioni ex articolo 2119.
Un conto era l’asserito demansionamento (per il quale stante l’esigua durata al più era ammissibile una condanna ad un modico risarcimento del danno alla professionalità), altro era l’accertamento di una causa di dimissioni talmente grave da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro, ciò che avrebbe richiesto un accertamento necessariamente assai rigoroso. Di conseguenza, anche in caso di accertamento di un demansionamento, a differenza di quanto opinato con l’impugnata pronuncia, la condotta aziendale non poteva risultare idonea a legittimare le dimissioni senza preavviso, considerato che il L. non era stato di certo assegnato a mansioni, tanto inferiori a quelle precedentemente svolte, da giustificare un recesso con effetto immediato.
Con il terzo motivo la Società si è doluta dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che aveva formato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 comma Io n. 5 c.p.c.): erroneità dell’impugnata sentenza, laddove non aveva considerato nella valutazione della sussistenza -o meno- di una giusta causa di dimissioni, del relativo dato temporale. Infatti, il L. era riuscito a reperire una nuova occupazione lavorativa, giusta la lettera di assunzione del 10 giugno 2011, come direttore di R. S. M. nel giro di poco più di un mese dalle sue dimissioni (in data 19 maggio 2001). Nei precedenti gradi di merito la ricorrente aveva specificamente evidenziato come fosse poco credibile che una figura professionale come quella del L. fosse riuscita a ricollocarsi in così breve tempo con una retribuzione sostanzialmente equivalente. Era stato evidenziato tale dirimente aspetto, unitamente al fatto che solo dopo l’inizio della sua attività presso V. F., inizialmente manifestato il proprio benestare al mutamento di mansioni, il L. aveva lamentato la sussistenza di un demansionamento; ciò che avrebbe dovuto far propendere il giudice di appello a concludere diversamente, essendo oltremodo chiaro che l’attore si era attivato nella ricerca di un nuovo posto di lavoro già al momento della comunicazione del cambio di ruolo a gennaio 2011 e per cui una volta completata fruttuosamente, egli tentò di costruirsi strumentalmente un modo per lucrare su di un rapporto di lavoro, ormai giunto al termine. I giudici di appello, per contro, avevano totalmente omesso di esaminare tali essenziali aspetti.
Le anzidette doglianze vanno respinte in base alle seguenti considerazioni.
Ed invero, dalla lettura dell’impugnata sentenza si evince che la Corte di merito ha tenuto conto di tutte le acquisite risultanze di fatto, nonché delle ragioni poste a fondamento dell’interposto gravame, unitamente peraltro alle difese opposte dall’appellato, rilevando quindi i dati pacifici della vertenza, peraltro confermati da emergenze documentali (direzione della rivista G., anche per la testata on line, nonché della rivista semestrale G. S., invito di parte datoriale a lasciare la suddetta direzione per assumere l’incarico di vice direttore della pubblicazione V. F., però senza precisi compiti, laddove già operavano un direttore responsabile, un condirettore ed un altro vicedirettore), sicché tale vice dirigenza, ancorché relativa a rivista di maggior notorietà e di maggior contesto aziendale, non poteva comunque equipararsi, alla direzione della testata per la cui direzione il L. era stato espressamente assunto, con conseguente diritto al mantenimento di un incarico di pari rango. Di conseguenza, i giudici di merito hanno accertato che il ruolo di vice direttore comportava ad ogni modo un arretramento gerarchico-professionale, tenuto conto di quanto altresì previsto dagli artt. 6 e 32 del c.c.n.I. di categoria. Pertanto, risultavano anche superflue le richieste istruttorie avanzate da parte convenuta, che comunque non potevano modificare il quadro fattuale della vicenda in esame.
Alla luce, dunque, delle succitate ragionevoli argomentazioni e valutazioni in punto di fatto, non è ravvisabile alcuna specifica violazione di legge, né alcuna pretermissione di circostanze rilevanti ai fini della decisione. Men che meno è riscontrabile il vizio contemplato dall’art. 360, comma I, n. 5 c.p.c. (peraltro secondo il testo introdotto dall’art. 54, co. 1, lett. b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in I. 7 agosto 2012, n. 134, che per espressa previsione dell’art. 54, co. 3, d.l. cit., «si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione» dello stesso decreto, avvenuta il 12 agosto 2012, visto che la pronuncia qui impugnata risale al 16/29 aprile 2015.
Infatti, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc, civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. In particolare, poi, la riformulazione del cit. art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ne deriva che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. nei sensi anzidetti Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 07/04/2014. In senso conforme v. altresì: Cass. Sez. 6 – 3 n. 21257 – 08/10/2014, id. n. 23828 del 20/11/2015, id. n. 25216 del 27/11/2014, nonché III civ. n. 9253 – 11/04/2017).
Per il resto, le doglianze in proposito mosse da parte ricorrente si risolvono in inammissibili pretese di rivedere, questa sede di legittimità, nel merito quanto accertato e valutato in punto di fatto da giudici di merito, esclusivamente competenti al riguardo. Anche la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito (peraltro ora nei limiti fissati dall’attuale cit. art. 360 n. 5, secondo la succitata giurisprudenza), al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., tre le varie, Cass. Ili civ. n. 17477 del 09/08/2007 ed in senso analogo Sez. un. civ. n. 13045 del 27/12/1997).
Del resto, questa Corte (Cass. lav. n. 14496 in data 11/07/2005), ha già avuto modo di affermare che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 cod. civ. sul divieto di demansionamento, pur non essendo ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore sufficiente ad integrarlo -dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo- la valutazione, tuttavia, della idoneità della condotta di parte datoriale, sotto il profilo del demansionamento, a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 cod. civ., si risolve comunque in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito, quindi incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (in senso analogo Cass. lav. n. 8589 del 5/5/2004, che nella specie confermava, quindi, la decisione di merito, la quale ritenuto la dequalificazione di un dirigente bancario, che, dopo aver ricoperto le funzioni di direttore centrale capo area e direttore di sede, aveva avuto attribuite quelle di vicario di altro direttore di area, pur restando direttore di sede, con riduzione di importanza dei propri compiti e dell’ampiezza dei propri poteri decisionali, ed aveva pertanto ritenuto determinate da giusta causa le dimissioni rese dallo stesso.
V. ancora Cass. lav. n. 12768 del 17/12/1997, secondo cui il giudizio sull’idoneità della condotta del datore di lavoro a costituire giusta causa delle dimissioni del lavoratore si risolve in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da congrua motivazione. Conforme id. n. 2564 del 19/03/1999. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 14829 del 18/10/2002, in caso di dimissioni del lavoratore per giusta causa, la valutazione della gravità dell’inadempimento del datore di lavoro ai suoi obblighi contrattuali è rimessa al sindacato del giudice del merito, censurabile in sede di legittimità unicamente per vizi di motivazione.
Cfr. pure Cass. lav. n. 83 del 10/01/1986: la modificazione unilaterale delle condizioni di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro, disposta in via definitiva ed in contrasto con il disposto dell’art. 2103 cod. civ., deve riguardarsi come un fatto che giustifica ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. il recesso dal contratto del lavoratore, conferendogli il diritto di esigere, come nell’ipotesi del licenziamento ad nutum, la corresponsione dell’indennità di preavviso. Qualora, poi, il lavoratore non si avvalga della facoltà di recesso e continui a prestare la propria opera, acquetandosi al mutamento delle mansioni, questo suo comportamento, protraendosi nel tempo, assume il significato di un’accettazione non equivoca delle nuove condizioni di lavoro la cui efficacia obbligatoria, fondata pur sempre su base negoziale, esclude che egli possa in seguito allegare la stessa giusta causa di dimissioni. V. in senso analogo Cass. n. 1550 – 11/06/1963 e n. n. 3652 del 16/06/198.2 Ed in proposito Cass. lav. n. 2485 del 15/06/1977 aveva precisato che il principio dell’immediatezza, condizionante la validità e la tempestività delle dimissioni del lavoratore per giusta causa, deve essere inteso in senso relativo e può essere, nei casi concreti, compatibile con un intervallo di tempo reso necessario per lo apprezzamento del comportamento della controparte, sempre che esso non costituisca tacita acquiescenza alle modificazioni delle condizioni di lavoro, disposte unilateralmente dal datore di lavoro). Pertanto, vanno disattesi gli anzidetti due primi motivi di ricorso, mentre il terzo appare del tutto inconferente, essendo riferito ad una circostanza di fatto (successivo impiego del L., come direttore di altra testata, in data 10 giugno 2011), di epoca comunque posteriore alle dimissioni rassegnate con missiva del 9 maggio 2011, di modo che vale come mera supposizione la prospettata possibilità che il recesso sia stato pretestuosamente comunicato a titolo di giusta causa, allorquando l’interessato si fosse già procurato altra attività di lavoro (circostanza, peraltro, considerata dalla Corte Appello tra ¡ rilevi sollevati dalla società appellante, come si evince dalla lettura della sentenza impugnata a pag. 4: <<… la nuova occupazione lavorativa era stata assai tempestivamente reperita … risultando pertanto la giusta causa delle dimissioni solo un pretesto. …>>). Ne deriva che alla stregua delle complessive argomentazioni svolte con la pronuncia di appello, sufficientemente adeguate e tra loro coerenti, le critiche mosse con il terzo motivo di ricorso non integrano gli estremi del vizio contemplato dal vigente art. 360 n. 5 c.p.c., tenuto conto di quanto in proposito sopra osservato, circa la portata innovativa di tale norma, laddove come si è visto non rileva di per sé la mera insufficienza di motivazione, se non per inosservanza del minimo costituzionale, nella specie però di certo non ravvisabile.
Pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna della soccombente al pagamento delle relative spese, tenuto altresì come per legge al versamento dell’ulteriore contributo unificato, atteso l’esito completamente negativo della sua impugnazione, risalente al 26/30 ottobre 2015.
P.Q.M.
RIgetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro #6000,00# per compensi ed in euro #200,00# per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, a favore del controricorrente. Ai sensi dell’art. 13, comma I quater d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma l-bis dello stesso articolo 13.
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