CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 giugno 2017, n. 29487
Professionisti – Esercizio abusivo della professione di commercialista – Risarcimento danno morale
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. La Corte di Appello di Trento con sentenza in data 23/3/2016 ha confermato il giudizio di penale responsabilità espresso dal Tribunale della stessa città il 18/12/2015 nei confronti di F.N. in ordine ai delitti di appropriazione indebita aggravata ai danni di M.A., S.A. e S.G., e di esercizio abusivo della professione di commercialista ed esperto contabile, commessi in concorso con il marito P.M., ed ha riformato la sentenza impugnata limitatamente alla quantificazione del risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, in considerazione del fatto che la domanda di queste era limitata al danno morale, essendosi riservate di agire in sede civile per il risarcimento del danno patrimoniale.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputata, a mezzo del suo difensore, sollevando i seguenti motivi di impugnazione:
2.1. vizio di motivazione, con riferimento alla riconosciuta responsabilità della F., a titolo di concorso, nel reato commesso dal marito, assumendo la ricorrente che la testimonianza dell’ufficiale di P.G. che aveva svolto le indagini l’aveva indicata come un soggetto interposto che avrebbe avuto un comportamento meramente passivo e privo della volontà di contribuire alla realizzazione dell’evento illecito.
2.2. violazione di legge in relazione al riconoscimento della legittimazione di M.A. a costituirsi parte civile quale titolare della E.O.M. snc.;
2.3. vizio di motivazione, nella quantificazione del danno in favore della parte civile nella misura di 45.000 euro, rispettivamente 40.000 in favore di S.A. e 5000 in favore di M.A..
3. Con memoria depositata in data 9/3/2017 le parti civili hanno chiesto riconoscersi la manifesta infondatezza del ricorso.
4. Il ricorso è inammissibile, in quanto si discosta dai parametri dell’impugnazione di legittimità stabiliti dall’art. 606 cod. proc. pen.
4.1. Il primo motivo di ricorso, in particolare, è inammissibile perché propone una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U., 30/4/1997, n. 6402, Rv. 207944; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, Rv. 229369). La Corte territoriale, infatti, ha evidenziato che, a seguito della dichiarazione di fallimento del marito, nel 2004, per consentire la prosecuzione dell’attività abusiva di questo la F. ebbe ad aprire nello stesso anno una partita IVA a suo nome, che la stessa è stata beneficiaria di cambiali il cui importo avrebbe dovuto essere versato al Fisco ed invece veniva incassato ed accreditato sul suo conto corrente, che ha emesso fatture verso i clienti dello studio con la propria partita IVA, è risultata depositaria fiscale di dodici società e di numerosi conti correnti sui quali confluivano i pagamenti dei clienti, nonché di una cassetta di sicurezza dove sono stati rinvenuti preziosi e circa 48.000 euro in contanti: a fronte di tali argomentazioni la ricorrente tende, invece, ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento.
4.2. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, invece, sono manifestamente infondati in quanto dalle due sentenze di merito non emerge che M.A. si sia costituita in nome e per conto della E.O.M. snc.: al contrario, la ricorrente è stata condannata al “risarcimento del danno a favore della parte civile M.A.”, evidentemente costituitasi in proprio, così come “della parte civile S.A.”, liquidazione che è stata limitata ai danni morali, in alcun modo estinti dalla cancellazione della predetta società indicata dallo stesso ricorrente come avvenuta nel 2011, successivamente all’appropriazione indebita di cui si tratta, né può ritenersi arbitraria o immotivata la liquidazione equitativa di tale danno morale, operata considerando l’entità del danno patrimoniale – sebbene da liquidarsi in altra sede – comunque incidente sulla sofferenza interiore cagionata dal reato e come tale valutabile nella quantificazione in via equitativa del primo, non potendosi certo escludere tale interdipendenza, soprattutto in un caso di reato contro il patrimonio, come nel caso di specie.
5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna dell’imputato che lo ha proposto al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in € 1.500,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 a favore della Cassa delle ammende.
Sentenza a motivazione semplificata.
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