CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 novembre 2017, n. 55136
Reati tributari – Dottore commercialista – Frode fiscale a vantaggio dei clienti – Elementi passivi fittizi indicati nelle dichiarazioni dei redditi – Responsabilità penale – Interdizione dall’attività professionale
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. In data 12/3/2013 S.V. veniva sottoposto alla misura degli arresti domiciliari in ordine a plurime violazioni degli artt. 2 ed 8 del d. Ivo n. 74/2000, commesse in epoca compresa tra il 31/12/2006 ed il 20/9/2011.
In data 12/4/2013 gli arresti domiciliari venivano sostituiti con la misura del divieto di esercitare l’attività professionale per la durata di mesi 2.
Secondo l’ipotesi d’accusa – fondata sull’esame della documentazione presentata a corredo degli elementi passivi esposti in dichiarazione da un certo numero di soggetti (tutti aventi, quale comune denominatore, il commercialista S.) e sui risultati delle intercettazioni telefoniche – S. avrebbe ideato un articolato sistema di frode fiscale a vantaggio dei propri clienti. Tale sistema (analiticamente descritto nell’ordinanza genetica del Gip Tribunale di Asti) prevedeva l’esposizione di elementi passivi fittizi (costituiti da costi per prestazioni di lavoro autonomo con pagamenti differiti di anni, asseritamente svolte da soggetti legati da vincoli di parentela o affinità con il dichiarante, ma di fatto inesistenti).
In data 30 aprile 2013 il difensore depositava richiesta di revoca della misura interdittiva.
E il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Asti, con ordinanza 4/5/2013, in parziale accoglimento dell’istanza, accoglieva la richiesta in relazione ai reati di cui ai capi A, C ed F per i fatti commessi anteriormente al 16/9/2011, nonché per i fatti di cui ai capi H, M, O, T, Z e CC; mentre la respingeva in relazione agli altri capi, essendosi formato giudicato cautelare per mancata proposizione del riesame avverso l’ordinanza applicativa nei termini di legge.
Avverso detta ordinanza del Gip la difesa proponeva ricorso in cassazione; e questa Corte, con sentenza 8/5/2014, riqualificato il ricorso come appello, trasmetteva gli atti al Tribunale distrettuale perché procedesse a norma dell’art. 310 c.p.p.
Il Tribunale distrettuale – preso atto della sopravvenuta revoca della misura – con ordinanza 18/9/2014 dichiarava l’inammissibilità dell’impugnazione per carenza di interesse.
Avverso detta ordinanza del Tribunale distrettuale la difesa proponeva altro ricorso per Cassazione; e questa Corte annullava con rinvio il provvedimento impugnato, rilevando che, nonostante la perdita di efficacia della misura interdittiva, permaneva un interesse concreto all’impugnazione in capo all’appellante.
Il Tribunale distrettuale, con ordinanza 2/11/2015, in parziale accoglimento dell’appello, disponeva la revoca della originaria misura in relazione a tutte le ipotesi di reato commesse anteriormente al 16 settembre 2011, data di abrogazione della normativa che prevedeva l’ipotesi attenuata ratione valoris degli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, nei casi in cui gli importi non rispondenti al vero fossero inferiori alla soglia di euro 154.937,07, nonché in relazione ad altra contestazione (sul rilievo che il reato ivi indicato appariva oramai prescritto); mentre la confermava relativamente alle residue ipotesi, osservando, fra l’atro, come, ai fini della integrazione del reato, fosse indifferente il momento in cui erano stati formati i documenti attestanti falsamente le operazioni fittizie utilizzate al fine di abbattere l’imponibile tributario e, pertanto, conseguire l’indebito vantaggio.
Avverso detta ordinanza del Tribunale distrettuale la difesa proponeva per la terza volta ricorso per cassazione.
2. La Terza Sezione Penale di questa Corte, con sentenza 19/5/2016, annullava l’ordinanza impugnata, in quanto – dopo essersi soffermata sulla struttura del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all’art. 2 d. Igs. n. 74 del 2000 – censurava il ragionamento del Tribunale distrettuale (al quale rinviava per nuovo esame) sotto i seguenti profili:
– affinché il reato in esame si realizzi è necessario che la documentazione fiscale falsa preesista, quanto meno, alla presentazione della dichiarazione fraudolentemente formata. Di ciò è ulteriore indice sistematico il rilievo, più volte operato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il momento consumativo della frode è ricavabile in funzione del momento in cui viene presentata ai competenti uffici tributari la dichiarazione contenente i dati mendaci; a voler ritenere che la formazione della documentazione relativa alle operazioni inesistenti possa intervenire anche in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione tributaria, si assisterebbe al singolare fenomeno di un fatto-reato che, pur essendo mancante di uno degli elementi essenziali per la sua realizzazione, sarebbe già perfetto:
– sotto tale profilo, risultava violativa di legge la ordinanza del Tribunale subalpino laddove aveva ricondotto la condotta del ricorrente, sia pure limitatamente alla ravvisabilità del fumus commissi delicti, al paradigma normativo del reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, sul presupposto che non incideva sulla sussistenza del reato in esame il fatto che i documenti di costo erano stati formati successivamente alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi cui gli stessi si riferivano;
– analogo ragionamento valeva anche per ciò che atteneva alla contestazione avente ad oggetto la violazione dell’art. 8 del citato d. Igs. n. 74 del 2000; invero, anche con riferimento a detta imputazione, la motivazione della ordinanza del Tribunale di Torino era del tutto priva di motivazione, vizio questo ridondante quale violazione di legge, in relazione alla integrazione del reato in esame pur essendo, in ipotesi, stata formata la documentazione relativa ad operazioni inesistenti successivamente alla presentazione della dichiarazione tributaria in cui i relativi costi sarebbero stata portati in deduzione;
– quanto sopra a prescindere dalla problematica contestabilità ad uno stesso soggetto – laddove non abbia di mano propria, sia pure rivestendo qualifiche distinte, realizzato le condotte riferibili ad ambedue le tipologie di illeciti ora ascritti al S. – sia della violazione dell’art. 2 che di quella dell’art. 8 del d. Igs. n. 74 del 2000.
3. Orbene, il Tribunale distrettuale di Torino, quale giudice di rinvio – dopo aver acquisito copia del decreto che dispone il giudizio, nonché memoria difensiva nella quale venivano illustrate le determinazioni assunte dall’Ordine a carico del S. (ripercorse anche in sede di verbale di udienza 25/5/2017) – emetteva l’ordinanza impugnata, con la quale parzialmente confermava l’ordinanza 4/5/2013 del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Asti.
Il Giudice di rinvio, in primo luogo, precisava che: a) l’impugnazione, alla luce delle revoche parziali che si erano succedute nel tempo, aveva ad oggetto unicamente le contestazioni di cui ai capi A (limitatamente ai documenti datati 12.10.2009 e 11.10.2009), B (limitatamente al documento datato 12.10.2010), C (limitatamente al documento datato 31.12.2010), F (limitatamente al documento 31.12.2006) ed R; b) l’annullamento della Corte di Cassazione devolveva a quel Tribunale, quale giudice di rinvio, l’analisi del motivo di doglianza (in riferimento alle contestazioni di cui all’art. 2 ed art. 8 D. Lgs. 74/00) avente ad oggetto l’asserita formazione successiva del falso documento di costo rispetto alla data di presentazione della dichiarazione fraudolentemente formata.
Quindi, il Tribunale distrettuale di Torino, sotto il profilo della gravità indiziaria, ha ritenuto non meritevoli di accoglimento le doglianze difensive sulla base delle seguenti argomentazioni:
– il delitto di cui all’art. 2 d. Igs. 74/00 può dirsi integrato sotto il profilo oggettivo quando vi sia stata la registrazione in contabilità delle fatture false (ovvero la loro conservazione ai fini di prova) e l’inserimento delle stesse nella dichiarazione d’imposta del contribuente, con utilizzazione a fini fiscali dei corrispondenti elementi fittizi. Invero, la fattispecie criminosa postula inevitabilmente che, quantomeno alla data dell’utilizzo della falsa voce di spesa all’interno della dichiarazione (momento consumativo del reato), il documento di costo sia stato non solo predisposto, ma anche registrato in contabilità ovvero conservato ai fini di prova dell’operazione inesistente;
– nel caso di specie, non era emerso che i documenti di costo di cui ai capi di imputazione erano stati predisposti in epoca successiva rispetto alla data della loro utilizzazione all’interno della dichiarazione. Anzi, si era al cospetto di documenti, che riportavano una data determinata (sempre anteriore alla presentazione della dichiarazione, coerente con il periodo d’imposta di riferimento, ossia con l’anno precedente rispetto a quello dell’utilizzazione), che erano stati utilizzati all’interno delle dichiarazioni fiscali redatte e presentate l’anno successivo e che erano stati rinvenuti al momento delle investigazioni. Si trattava, quindi, di elementi che avevano un preciso e grave significato indiziario della predisposizione dei falsi documenti di costo (e della relativa contabilizzazione) per lo meno al tempo della presentazione della dichiarazione d’imposta (e, quindi, della sussistenza del delitto di cui all’art. 2 d. Igs. 74/00), che non potevano essere superati nella loro valenza probatoria soltanto facendo genericamente riferimento (senza alcuna specificazione ulteriore) al tenore delle intercettazioni telefoniche. Infatti, mediante detto mezzo di ricerca della prova (del quale, peraltro, la Difesa, con la medesima impugnazione, aveva dedotto l’inutilizzabilità) erano stati captati molteplici colloqui, i quali, soprattutto nei casi di prestazione di consulenza prolungata da parte di S. nei confronti del medesimo soggetto economico (cfr. capo A), non potevano essere riferiti con certezza a nessun documento di costo particolare.
Alla luce di ciò, la prospettazione difensiva era generica e confliggente con l’attestazione contenuta all’interno dei documenti e, come tale, anche perché articolata in una fase in cui difettavano-poteri istruttori in capo al giudicante, non poteva che rimanere una mera allegazione difensiva, da coltivare nella competente fase del giudizio di merito;
– le medesime considerazioni dovevano essere sviluppate in riferimento al capo B) – nel quale si ascriveva al ricorrente la responsabilità ai sensi dell’art. 8 d. Igs. 74/2000 per la formazione del documento datato 12/10/2009 (utilizzato nella dichiarazione di cui al capo A) – non potendosi affermare, senza contraddire gli elementi probatori presenti allo stato degli atti, che la documentazione relativa ad operazioni inesistenti era stata formata successivamente alla presentazione della dichiarazione tributaria in cui i relativi costi sarebbero stati portati in deduzione. Né in sede di incidente cautelare era dirimente il richiamo alla disposizione di cui all’art. 9 d. Igs. 74/00 sul concorso di persone: infatti, in quella fase incidentale ed in difetto di qualsivoglia forma di istruttoria, S. appariva il regista dell’operazione fiscale complessiva – nella qualità di tecnico/professionista che aveva diretto tanto la formazione della documentazione di costo oggettivamente inesistente quanto la sua utilizzazione all’interno delle dichiarazioni, mediante un’attività unitaria a favore degli autori materiali – in una situazione sovrapponibile a quella che aveva indotto la giurisprudenza di legittimità ad escludere l’operatività della medesima disposizione in ipotesi di identità fisica tra emittente ed utilizzatore;
– entrambe le contestazioni, pertanto, apparivano fondate tenuto anche conto che, sull’operatività dell’ipotesi attenuata di cui all ‘art. 2 nel testo previgente al 16.9.2011:
– per la contestazione del capo A), avente ad oggetto il documento datato 12/10/2009 (delitto consumatosi il 22.9.2010 alla data della dichiarazione per il 2009), si trattava di esposizione di elementi passivi fittizi di importo superiore alla soglia di euro 154.937,07, come tale esclusa dall’operatività dell’ipotesi attenuata;
– per la contestazione del capo A), avente ad oggetto il documento datato 11/10/2010 (di importo pari ad euro 140.000), non poteva invocarsi tale ipotesi attenuata, trattandosi di delitto consumatosi successivamente all’abrogazione della norma di cui si discuteva, ossia il 20/9/2011;
– per la contestazione del capo C) (limitatamente al documento datato 31/12/2010), non poteva invocarsi tale ipotesi attenuata, trattandosi di delitto consumatosi successivamente all’abrogazione della norma di cui si discuteva, ossia il 20/9/2011;
– per la contestazione del capo F) (limitatamente al documento datato 31/12/2006), si trattava di esposizione di elementi passivi fittizi di importo superiore alla soglia di euro 154.937,07, come tale esclusa dall’operatività dell’ipotesi attenuata;
– per la contestazione del capo R), non era dirimente il richiamo al testo previgente al 16/9/2011, trattandosi di delitto consumatosi successivamente all’abrogazione della norma di cui si discuteva, ossia il 20/9/2011.
Sulla base delle argomentazioni che precedono, il Tribunale distrettuale, quale giudice di rinvio, nei limiti di cognizione inerenti alla fase e sulla base degli atti disponibili (in alcun modo integrati da parte della Difesa, nonostante il procedimento pendeva in una fase prossima alla definizione in primo grado), riteneva le doglianze difensive isolate all’interno di un materiale di diverso significato, nell’ottica di cui all’art. 273 c.p.p.. Detti profili di cognizione esaurivano il thema decidendum delineato nella sentenza di annullamento della Suprema Corte.
Quanto poi all’ulteriore motivo di doglianza articolato in riferimento ai capi C) ed F) (riguardanti s.n.c.) – con il quale la Difesa aveva lamentato il difetto di tipicità per la mancata presentazione da parte della persona giuridica di una dichiarazione assimilabile a quelle di cui all ‘art. 2 d. Igs. 74/00 (imposte sui redditi o sul valore aggiunto) – detto motivo veniva ritenuto inammissibile, trattandosi di profilo che non era stato sottoposto al G.i.p. nell’originaria istanza di revoca e neppure aveva formato oggetto di doglianza in sede di giudizio di impugnazione innanzi al Tribunale del riesame e, come tale, alla luce del principio limitatamente devolutivo dell’appello cautelare, non poteva essere in quella sede vagliato nel merito.
Infine, il Tribunale del riesame di Torino, quale Giudice di rinvio, quanto al profilo cautelare, riteneva indubbio che, al tempo di applicazione del presidio interdittivo (aprile 2013), sussistevano esigenze volte a prevenire la commissione di delitti analoghi. Invero: le conversazioni intercettate (dimostrative di estrema dimestichezza e di spregiudicatezza del ricorrente), le modalità standardizzate di commissione dei fatti, la molteplicità delle contestazioni, nonché il ruolo professionale svolto da S. (commercialista al servizio di una moltitudine di soggetti economici), secondo il Tribunale, rappresentavano certamente circostanze in grado di fondare, a quel tempo, il concreto pericolo di reiterazione di delitti analoghi.
4. Avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale distrettuale di Torino, quale giudice di rinvio, tramite difensore di fiducia, il S. proponeva ricorso (al quale allegava estratti della richiesta di misura cautelare del PM e dell’ordinanza 12/3/2013 applicativa di misura cautelare), articolando due motivi di doglianza, nei quali denunciava vizio di motivazione, con travisamento delle risultanze processuali.
Precisamente, il ricorrente si lamentava in primo luogo della imprecisione con la quale erano stati evocati nell’ordinanza impugnata i documenti. Invero, il Tribunale del riesame di Torino aveva affermato che l’impugnazione aveva ad oggetto unicamente le contestazioni di cui al capo A (limitatamente ai documenti datati 12/10/2009 e 11/10/2009), B (limitatamente al documento datato 12/10/2010) e C (limitatamente al documento datato 31/12/2010). Senonché: con riferimento al capo A, il documento datato 11/10/2009 era in realtà datato 11/10/2010; la contestazione contenuta nel capo B non conteneva alcun riferimento al documento citato nell’ordinanza impugnata; in relazione al capo C, il Tribunale del riesame avrebbe dovuto specificare il documento preso in considerazione, attesa l’esistenza di due documenti datati 31/12/2010.
Il ricorrente – dopo aver sottolineato che questa Corte in sede di sentenza di annullamento 19/5/2016 ha statuito che, per la sussistenza del reato di cui all’art. 2, “è necessario che la documentazione falsa preesista, quanto meno alla presentazione della dichiarazione fraudolentemente formata” – si lamenta inoltre del fatto che il Tribunale del riesame si è limitato ad affermare che non era emerso che i documenti di costo di cui ai capi di imputazione fossero stati predisposti in epoca successiva rispetto alla data della loro utilizzazione all’interno della dichiarazione; mentre, alla luce di quanto statuito da questa Corte nella sentenza di annullamento, avrebbe dovuto verificare se i citati documenti di costo, oltre ad essere stati “predisposti”, fossero anche stati registrati in contabilità in epoca anteriore alla presentazione della dichiarazione annuale fraudolentemente formata; il Giudice di rinvio, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto anche indicare le ragioni per le quali avrebbero potuto essere registrati in contabilità atti, aventi sostanzialmente contenuto di dichiarazione pattizia, che non recano numero o altri elementi identificativi.
Infine, il ricorrente S. – dopo aver ribadito la statuizione contenuta nella citata sentenza di annullamento – si lamenta che il Tribunale del riesame è incorso in un travisamento della prova nella parte in cui ha ritenuto non provato che i documenti di costo di cui all’imputazione erano stati predisposti in epoca successiva rispetto alla data della loro utilizzazione all’interno della dichiarazione; mentre, in realtà, a suo dire, il fatto che gran parte dei documenti di costo era stata formata successivamente alla presentazione della dichiarazione risulterebbe: a) dall’ordinanza di custodia cautelare, nella quale il GIP (p. 16), con riferimento al capo C dell’imputazione, aveva rilevato che i documenti di costo citati nelle telefonate intercettate erano stati predisposti ex post a seguito della richiesta avanzata dall’Agenzia delle Entrate; b) da una serie di intercettazioni citate dal PM nella richiesta di misura cautelare, oltre che da una conversazione (captata il 20/9/2012), richiamata nella stessa ordinanza di custodia cautelare (p. 14), che in un certo qual modo, costituiva il presupposto logico della già applicata misura interdittiva. In sintesi, secondo il ricorrente, “il dire che non è emersa una prova, che altri atti del procedimento specificatamente indicano, costituisce un tipico travisamento della prova”.
5. In vista dell’udienza 12/10/2017, tramite difensore di fiducia, il S. depositava nota, nella quale:
a) sottolineava altre inesattezze, in punto di fatto, configurabili come travisamento del fatto di causa nella ordinanza impugnata;
b) sottolineava che l’ordinanza impugnata prescindeva dalle intercettazioni riprodotte a p. 29 e ss. della richiesta di misura cautelare del PM;
c) deduceva che il Tribunale del riesame nell’ordinanza impugnata, con riferimento alla problematica del tempo di predisposizione dei documenti, aveva operato una valutazione del tutto superficiale, con frasi di stile che non rendevano possibile individuare il ragionamento logico giuridico seguito.
6. Sempre in vista di detta udienza del 12/10/2017, il difensore del S. depositava nota nella quale veniva deduceva il proprio impedimento a comparire.
7. In sede di udienza 12/10/2017, il Procuratore Generale non si opponeva all’accoglimento della richiesta di rinvio del difensore, ma chiedeva che venisse acquisita copia della sentenza di merito nelle more eventualmente intervenuta.
E questa Corte disponeva il rinvio del processo all’odierna udienza, mandando alla Cancelleria di acquisire copia della sentenza, nelle more eventualmente intervenuta nel giudizio di merito.
8. Il ricorso è inammissibile.
8.1. Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, dopo la sentenza di condanna, anche se solo in primo grado, non è più possibile, in sede di impugnazione de liberiate, sindacare il quadro indiziario.
In tal senso continuano ad essere sempre valide le considerazioni svolte ormai da oltre un ventennio dalla Corte costituzionale (in particolare, nella sentenza n. 71/1996): se si rendesse possibile la rivalutazione del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza anche dopo l’intervento di una sentenza di condanna ne deriverebbe un pregiudizio per la “coerenza” del sistema; quest’ultimo non può tollerare il concorso di due pronunce giurisdizionali sul tema della colpevolezza: l’una, incidentale e di tipo prognostico, e l’altra, fondata sul pieno merito e come tale suscettibile di passare in giudicato. Con la conseguenza (già da tempo sottolineata anche da questa Sezione: cfr. sent. 10/6/2003, Magarelli) che, ove intervenga una decisione che contenga una valutazione di merito di tale incisività da assorbire l’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, ne risulta precluso il riesame di tale punto.
8.2. Tanto si verifica nel caso di specie, nel quale il Tribunale di Asti con sentenza 9/19/2017 – dopo aver affermato l’ascrivibilità del meccanismo fiscale, indicato nei capi di imputazione, alle fattispecie di cui agli artt. 2 e 8 del d.Igs. n. 74/2000 (pp. 13-21) – ha ritenuto configurabile il concorso del professionista nei reati in contestazione (pp. 21-22). In particolare, il Tribunale di Asti, quale giudice di merito, ha ritenuto (p. 22) che dall’istruzione dibattimentale era emerso che il S. aveva rivestito – in tutti i casi in contestazione (il caso O., di cui ai capi A e B; il caso C. & F., di cui ai capi C, D ed E; il caso Docuservice, di cui ai capi H, I e J; nonché i casi B.G., P.U., C.A., O.S., G.M. e V.C.E., di cui ai residui capi di imputazione) – un ruolo determinante, «da vero registra dell’operazione», suggerendo e agevolando nei soggetti (che di volta in volta emettevano ed utilizzavano i documenti in oggetto) la commissione delle condotte in contestazione. Il S., infatti, secondo il Tribunale, non si era limitato di volta in volta a concorrere nel reato di utilizzo dei documenti, per i quali l’utilizzatore non può essere chiamato a rispondere del concorso con il soggetto emittente, ma aveva anche concorso, direttamente, con detto ultimo soggetto, in quanto era risultato essere colui che individuava il soggetto che avrebbe dovuto emettere il documento e quindi redigeva, attraverso il proprio studio professionale, i documenti stessi, che venivano poi semplicemente fatti sottoscrivere dall’emittente, sovente addirittura senza spiegarne il significato giuridico.
In definitiva, l’intervenuta sentenza affermativa di penale responsabilità del S., assorbendo la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza in relazione a tutti i suddetti capi, preclude: sia, in sede cautelare, la rivalutazione del quadro indiziario, a suo tempo posto a fondamento della misura interdittiva; sia, nel presente giudizio di legittimità, la disamina delle censure relative a detto quadro.
9. Per le ragioni sopra indicate, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla dichiarazione di inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost., sent. n. 186 del 2000), anche al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
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