CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 settembre 2017, n. 21328

Condotta vessatoria – Risarcimento dei danni – Fattispecie di mobbing – Reiterazione e sistematicità degli atti vessatori -Intento persecutorio – Non sussiste

Rilevato

che con sentenza in data 15 aprile 2011 la Corte di Appello di Lecce, pronunciando sull’appello di C. S. avverso la sentenza del locale Tribunale che aveva dichiarato la nullità del ricorso proposto nei confronti dell’Azienda Sanitaria Locale di Lecce, ha ritenuto che l’atto introduttivo contenesse gli elementi essenziali richiesti dall’art. 414 c.p.c. ma ha respinto nel merito la domanda, evidenziando che il ricorrente, nel chiedere il risarcimento dei danni subiti a seguito della condotta vessatoria tenuta nei suoi confronti dalla ASL, non aveva allegato che i comportamenti fossero collegati da un programmato disegno attuato allo scopo di mortificarne la personalità e la professionalità, né aveva dedotto elementi di fatto comprovanti la sussistenza delle varie categorie di danno;

che avverso tale sentenza C. S. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, al quale ha opposto difese l’Azienda Sanitaria Locale di Lecce con tempestivo controricorso;

che il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ.

Considerato

1.1 che il primo motivo di ricorso denuncia, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione perché la Corte territoriale, nell’escludere la presenza di un danno biologico permanente, si è limitata a richiamare le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, senza tenere in alcun conto le osservazioni del consulente di parte, il quale aveva evidenziato la necessità di un «supplemento di riflessione riguardante la metodologia, la ricostruzione del nesso di causalità e la qualificazione dei disturbi lamentati»;

1.2. che la seconda censura, formulata sempre ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., lamenta la violazione dell’art. 414 cod. proc. civ. in quanto contraddittoriamente il giudice di appello, dopo avere evidenziato che il ricorso conteneva una precisa indicazione della causa petendi, ha escluso la fondatezza della domanda per un preteso difetto di allegazione, in realtà insussistente perché nell’atto introduttivo il ricorrente aveva lamentato di essere stato privato per oltre un decennio del suo ruolo di primario ed isolato in un reparto fantasma;

1.3. che il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 2087 cod. civ. e rileva che attraverso la produzione documentale era stato provato il danno biologico, sia pure temporaneo, derivato dall’attività mobbizzante;

1.4. che la quarta critica addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 2103 cod. civ. perché la Corte territoriale non ha considerato che il risarcimento era stato domandato anche in relazione allo svuotamento pressoché integrale delle mansioni;

2. che ragioni di priorità logica e giuridica impongono di esaminare il secondo ed il quarto motivo, che censurano la ritenuta insussistenza dell’an della pretesa risarcitoria;

2.1. che non si ravvisa la dedotta contraddittorietà della sentenza impugnata in quanto i due piani di indagine non sono sovrapponibili, perché la nullità dell’atto introduttivo si verifica solo allorquando sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa ( Cass. 3.8.2011 n. 3126; Cass. 17.1.2014 n. 896), mentre la infondatezza ricorre qualora le circostanze di fatto allegate quale causa petendi non risultino sufficienti per l’accoglimento della domanda formulata;

2.2. che nella specie la Corte territoriale ha evidenziato che il ricorrente aveva dedotto di essere stato oggetto di condotta vessatoria produttiva di danno, consistita nella disattivazione del reparto di cardiologia presso il nosocomio di San Cesario e nella mancata assegnazione dell’incarico equivalente di primario presso l’ospedale di Lecce, il che escludeva la ritenuta nullità, ma al tempo stesso non giustificava la condanna dell’azienda al risarcimento del danno, trattandosi di circostanze non sufficienti ad integrare la fattispecie del mobbing, caratterizzata, oltre che dalla reiterazione e dalla sistematicità degli atti vessatori, anche dall’intento persecutorio;

2.3. che la sentenza impugnata, priva del dedotto profilo di contraddittorietà, è sul punto conforme al consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il mobbing richiede: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. n. 2147/2017; n. 2142/2017; n. 24029/2016; n.17698/2014);

2.5. che i motivi non colgono la ratio della decisione, perché insistono nel fare leva sugli aspetti oggettivi della condotta complessivamente considerata, quando la Corte di Appello ha respinto la domanda per l’assenza di allegazioni in merito all’intento persecutorio, ossia all’elemento soggettivo unificante la pluralità dei comportamenti;

3. che il quarto motivo, con il quale si sostiene che la domanda di risarcimento del danno era stata proposta anche in relazione al demansionamento, è inammissibile in quanto finisce per denunciare un’omessa pronuncia;

3.1. che « nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge.» (Cass. S.U. 17931/2013);

3.2. che quest’ultima evenienza si ravvisa nella fattispecie in quanto il ricorrente, oltre a non individuare correttamente il vizio di cui al combinato disposto degli artt. 112 e 360 n. 4 cod. proc. civ., non ha eccepito la nullità della sentenza derivata dalla omessa pronuncia;

4. che il rigetto del secondo e del quarto motivo comporta la inammissibilità derivata delle altre censure giacché «qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa» ( Cass. n. 2108/2012);

5. che il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

6. che non sussistono, ratione temporis, le condizioni di cui all’art. 13 c. 1 quater dPR 115 del 2002

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 3.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge