CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 giugno 2017, n. 14863

Lavoro subordinato – Pagamento di contributi e premi – Contratti di lavoro autonomo – Sussistenza – Prova

Fatti di causa

1. In seguito ad un controllo della Guardia di Finanza ed al conseguente verbale di contestazione, l’Inps e l’Inail richiesero a S.H., titolare di un’impresa individuale, il pagamento di contributi e premi relativi all’attività lavorativa svolta in suo favore da due persone, ritenute lavoratori subordinati.

2. L’H., contestando l’esistenza di rapporti di lavoro subordinato in quanto le prestazioni erano state svolte nell’ambito di regolari contratti di lavoro autonomo, si rivolse al Tribunale di Trento per chiedere che fosse accertata l’inesistenza della pretesa creditoria e il conseguente annullamento sia del verbale di contestazione n. 5386 della Guardia di Finanza di Rovereto sia dei verbali di accertamento dell’Inps e dell’Inail, notificati rispettivamente in data 23/9/2008 e 23/8/2008.

3. Il Tribunale rigettò la domanda e la sentenza, impugnata dall’odierno ricorrente, è stata confermata dalla Corte d’appello di Trento con sentenza depositata in data 1/4/2011.

4. Contro la sentenza, S.H. propone ricorso per cassazione fondato su sei motivi, cui resistono l’Inps, anche per conto della società di cartolarizzazione dei crediti, e l’Inail. Il ricorrente e l’Inail depositano memorie.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 246, 110, 112, 115, 116 e 421 cod.proc.civ., nonché il vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5 cod.proc.civ.): censura la sentenza nella parte in cui ha negato di fatto la capacità di deporre di alcuni testi, i quali erano stati sentiti dal primo giudice solo ai sensi dell’art. 421 cod.proc.civ., nonostante la concorde richiesta delle parti di escuterli come testimoni. Il motivo è inammissibile. Premesso che è proprio il ricorrente nell’atto in appello (trascritto integralmente nel ricorso: v. pag. 60) a ritenere corretta della decisione del tribunale di non ammettere i due presunti lavoratori come testimoni, in quanto incapaci di deporre ex art. 246 cod.proc.civ., la censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale è inammissibile dal momento che il ricorrente, oltre a non trascrivere i capitoli di prova testimoniale su cui intendeva i due lavoratori (M.R. e A.T.) avrebbero dovuto deporre, non ha allegato e indicato la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire “ex actis” alla Corte di Cassazione di verificare la decisività e la veridicità della censura (Cass. 23/04/2010, n. 9748). Nelle richieste istruttorie articolate nel ricorso di primo grado i due lavoratori non figurano come testi (p. 33 e 34 del presente ricorso) e la questione relativa alla mancata ammissione della prova non risulta affrontata nella sentenza impugnata, sicché era onere della parte indicare in quale atto, in che termini ed in quale fase processuale essa sarebbe stata sottoposta alla cognizione del giudice del merito. Il motivo pertanto si prospetta nuovo e, in quanto tale, inammissibile (Cass. 18/10/2013, n. 23675).

2. Il secondo motivo è fondato sulla falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ.: la parte rileva che la Corte d’appello ha attribuito valore privilegiato al verbale ispettivo e alle dichiarazioni in esso riportate, senza che le stesse fossero state oggetto di più puntuali riscontri.

Anche questo motivo è infondato. La doglianza relativa alla violazione della norma di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile, integrando motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 3, cod. proc. civ., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (Cass. 19/6/2014, n. 13960).

Diversamente, laddove la censura investe la valutazione delle risultanze istruttorie (attività regolata dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) il relativo vizio può essere fatto valere ai sensi del n. 5 del medesimo art. 360 (Cass. 17/6/2013, n. 15107; Cass. 4/4/ 2013, n. 8315) ed esso deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 20/6/2006, n. 14267; Cass. 26/3/2010, n. 7394). La sentenza non contiene alcuna affermazione in contrasto con il principio su indicato, che anzi è stato correttamente esplicitato, lì dove la Corte ha affermato che «in caso di accertamento negativo [… (…) …] l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava su colui che si afferma titolare del diritto stesso» (pag. 8 della sentenza), per poi affermare che correttamente il primo giudice ha ritenuto che dal complesso degli atti emergessero elementi sufficienti per ritenere che i due (presunti) artigiani avessero svolto un lavoro subordinato e non autonomo.

3. Il terzo motivo, proposto sia sotto il profilo della violazione di legge sia sotto quello del vizio motivazionale ex art. 360, n. 3 e 5 cod.proc.civ., investe la falsa applicazione dell’art. 2094 cod.civ., nonché l’omesso esame di fatti controversi e decisivi ai fini del giudizio. Anche questo motivo è inammissibile. È consolidato il principio di questa Corte secondo cui il fatto che un singolo motivo si articoli in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce ragione di inammissibilità dell’impugnazione, a condizione però che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi (Cass. Sez. Un. 6/5/2015, n. 2015, n. 9100). Nel caso in esame nell’illustrazione del motivo, che si diffonde per circa diciotto pagine, in esse comprese l’integrale trascrizione dei vari contratti di appalto intercorsi tra l’odierno ricorrente e i due lavoratori, le valutazioni giuridiche sono mescolate alle valutazioni di fatto, sì da non consentire di enucleare con chiarezza quali siano le violazioni di legge e quali invece i vizi motivazionali, e da richiedere un inammissibile intervento integrativo di questa Corte al fine di discernere per ciascuna delle doglianze la specifica censura.

4. Gli ultimi tre motivi (quarto, quinto e sesto) sono incentrati sulla omessa, insufficiente e logica motivazione e vanno pertanto affrontati congiuntamente.

4.1. In particolare, il quarto motivo concerne la contraddittorietà e l’insufficienza della motivazione. La parte lamenta che la Corte, dopo aver escluso che i verbali ispettivi abbiano valore di piena prova, ha contraddittoriamente attribuito, per altro con motivazione insufficiente, valore probatorio alle dichiarazioni rese dai lavoratori ai militari, senza chiarire le ragioni di questa scelta rispetto alle dichiarazioni rese dagli stessi lavoratori in sede di libero interrogatorio.

4.2. Il quinto motivo è invece fondato sulla illogicità e insufficienza della motivazione in ordine alla testimonianza resa da un testimone (Daprà), le cui dichiarazioni sarebbero state fraintese.

4.3. Il sesto motivo ha ancora ad oggetto l’omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio, costituito dalle fatture emesse con cadenza mensile dai due lavoratori, le quali dimostrerebbero, per la diversità degli importi fatturati, che il compenso non era erogato sulla base della messa a disposizione delle energie lavorative ma sulla base dell’opera resa e del tempo impiegato.

5. Giova precisare che, con riguardo ai verbali ispettivi, questa Corte ha più volte affermato che nei giudizi in esame il verbale di accertamento fa piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonché alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti, mentre la fede privilegiata del documento non si estende agli apprezzamenti e alle valutazioni del verbalizzante (da ultimo, Cass. 7/11/2014, n.23800, con ampi richiami giurisprudenziali).

In coerenza con tale principio è stato affermato che, viceversa, detti verbali non fanno fede dei fatti di cui i pubblici ufficiali hanno avuto notizia da altre persone, né dei fatti della cui verità essi si siano convinti in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche (Cass. n. 9111/95; Cass. n. 10569/01).

5.1. Nella specie, la Corte di merito ha applicato correttamente tali principi, attribuendo al verbale ispettivo valore di piena prova solo per gli atti compiuti dai pubblici ufficiali verbalizzanti e per le dichiarazioni e i documenti da essi raccolte, non anche per l’intrinseca veridicità delle dichiarazioni. Su quest’ultimo aspetto la Corte ha espresso un giudizio del tutto esaustivo e privo di incongruenze rilevando come la decisione del primo giudice, pienamente condivisa, fosse fondata sull’esame complessivo di tutti gli elementi probatori acquisiti al processo, come la documentazione appresa in sede ispettiva (dichiarazione dei redditi dei due lavoratori pseudo appaltatori), quella prodotta dalle parti (fatture e contratti di appalto), le dichiarazioni testimoniali e quelle rese ai sensi dell’art. 421 cod.proc.civ.

5.2. Con particolare riguardo alle dichiarazioni rese dai due lavoratore alla Guardia di Finanza, la loro intrinseca veridicità è stata oggetto di libero apprezzamento da parte del giudice (in tal senso, conformandosi a Cass. 6/9/2012, n. 14965), il quale ha formulato un compiuto giudizio di maggiore attendibilità delle stesse rispetto a quelle rese in sede di libero interrogatorio, anche alla luce delle ulteriori emergenze processuali, da cui è emerso che il tipo di attività svolta (esecuzione di lavori generali, come l’armatura, che richiedevano il concorso di altri dipendenti), la mancanza di idonee attrezzature di proprietà dei pseudo appaltatori, rilevata dei registri dei cespiti ammortizzabili, e l’uso, invece, di attrezzi e materiali forniti dal committente, l’inserimento organico nella complessiva organizzazione aziendale di quest’ultimo, la continuità del rapporto, l’osservanza di un orario predeterminato, la percezione di un compenso parametrato sulla base delle ore di lavoro, costituiscono tutti indici sintomatici e univoci dell’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato. A fronte di questo quadro probatorio, la stessa Corte ha ritenuto irrilevante che entrambi i lavoratori fossero maestri di sci, e pertanto non lavorassero nei mesi invernali, trattandosi di circostanza non incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato, operando le due attività (quella prestata in favore del H. e quella di maestro di sci) in tempi diversi; così come ha ritenuto priva di contenuto decisorio la deposizione resa dal teste Daprà, a fronte del valore esiguo e della scarsità delle attrezzature possedute dei due artigiani.

5.3. Al riguardo, è utile ricordare che «la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al Giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata» (v. Cass. 13/6/2014, n. 13485; Cass. 15/7/2009, n. 16499; Cass. 5/10/2006, n. 21412; Cass. 15/4/2004 n. 7201; Cass. 7/8/2003 n. 11933).

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per ciascuno di essi in Euro 7.200,00, di cui 7000,00 per compensi professionali, oltre al 15% per spese generali e altri accessori di legge.