CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 marzo 2017, n. 6721
Tributi – Accertamento – Impresa familiare – Riscossione
Fatti di causa
Su ricorso della contribuente A.P., titolare di una farmacia in regime d’impresa familiare, la Commissione tributaria provinciale di Foggia annullava l’avviso di accertamento n. RFC01AA00664/2005 per recupero d’imposta sull’anno 2003, e ciò faceva ritenendo deducibile quanto dalla P. versato per liquidazione a due familiari collaboratori.
La Commissione tributaria regionale della Puglia respingeva l’appello dell’Agenzia delle entrate.
L’Agenzia ricorre per cassazione sulla base di unico motivo.
La contribuente resiste con controricorso, illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. La controricorrente eccepisce l’inammissibilità del ricorso per difetto di investitura dell’Avvocatura dello Stato, carenza di autosufficienza dell’atto, incompletezza della propria identificazione personale e formazione di giudicato interno.
1.1. Le eccezioni sono infondate.
Per rappresentare in giudizio l’Agenzia delle entrate, l’Avvocatura dello Stato non ha bisogno di procura alle liti (Cass., sez. un., 15 novembre 2005, n. 23020, Rv. 586486); il ricorso è perfettamente intellegibile sotto il profilo oggettivo e soggettivo, tanto che la controricorrente vi replica diffusamente; l’impugnata sentenza non esprime quella pluralità di rationes decidendi astrattamente idonea alla formazione del giudicato interno per acquiescenza parziale.
1.2. Del pari infondati sono i rilievi che la controricorrente solleva con la memoria illustrativa, ove deduce vizi di notifica del ricorso, i quali sarebbero tuttavia sanati dalla sua stessa costituzione.
Si esamina, allora, il merito del ricorso.
2. Il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 101 e 109 d.P.R. n. 917 del 1986, per aver il giudice d’appello ritenuto deducibile dal reddito d’impresa l’indennità di cessata collaborazione ex art. 230-bis c.c.
Facendo leva sulla natura individuale dell’impresa familiare e sul carattere interno dell’imputazione reddituale pro quota, l’Agenzia nega l’inerenza delle spettanze di liquidazione del congiunto partecipe.
Oppone la contribuente che l’indennità di cessazione della prestazione di lavoro nell’impresa familiare deve qualificarsi come costo deducibile dal reddito d’impresa, anche per evitarne la doppia tassazione.
2.1. Il ricorso è fondato.
L’impresa di cui all’art. 230-bis c.c. appartiene individualmente al titolare, sicché il diritto dei familiari alla liquidazione della partecipazione è soltanto un diritto di credito rapportato a una quota di beni, utili ed incrementi (Cass. 15 aprile 2004, n. 7223, Rv. 572099).
La liquidazione alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare consolida il diritto di credito del partecipante alla quota di beni, utili ed incrementi (Cass. 6 settembre 2016, n. 17639, Rv. 640823).
Questo credito interno al rapporto personale di natura familiare non è deducibile dal reddito d’impresa, giacché difetta il requisito dell’inerenza, non trattandosi di un costo da cui derivi un pur potenziale ricavo
Non sussiste il paventato rischio della doppia imposizione, giacché la liquidazione corrisposta al familiare – indeducibile per quanto ora detto – non è però tassabile ai sensi dell’art. 5, comma 4, d.P.R. n. 917 del 1986, quest’ultimo concernendo la diversa fattispecie dei «redditi delle imprese familiari».
3. Il controricorso richiama questioni assorbite nei gradi di merito (stima del valore della produzione, esimente per incertezza normativa), che, pur in assenza di ricorso incidentale condizionato, potranno essere riproposte nel giudizio di rinvio (Cass. 20 dicembre 2012, n. 23548, Rv. 625035; Cass. 21 febbraio 2014, n. 4130, Rv. 629997); il giudice di rinvio potrà valutare l’incidenza nella fattispecie dello ius superveniens circa il trattamento sanzionatolo, atteso che il richiamo al d.lgs. n. 158 del 2015 (qui operato dalla controricorrente in memoria illustrativa) non determina un’automatica applicazione del favor rei, ma esige una specificazione fattuale rapportata al caso concreto (Cass. 7 ottobre 2016, n. 20141, Rv. 641301).
4. Il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio per nuovo esame e regolamento delle spese.
Il giudice di rinvio si atterrà a questo principio di diritto: «in tema di imposte sui redditi d’impresa, l’esborso che il titolare dell’impresa familiare effettua in favore del congiunto a titolo di liquidazione per la cessazione del rapporto partecipativo non è deducibile dal reddito d’impresa, non trattandosi di un costo da cui derivi un pur potenziale ricavo e mancando quindi il requisito dell’inerenza».
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia in diversa composizione, anche per le spese di legittimità.
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