CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 novembre 2016, n. 23294
Lavoro – Inquadramento – Mansioni – Livelli – Contratto integrativo aziendale – Differenze retributive
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza del 7 aprile 2010 la Corte di Appello di Roma ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto da B.L., già dipendente della B.A.P.V. Spa, cui era succeduta la B.A. Spa e poi la B.M.P.S. Spa, inquadrata nel livello QD2, volto ad ottenere l’inquadramento nel livello QD3, in relazione alle mansioni di specialista tecnico immobiliare asseritamente svolte già alla data del 22 dicembre 2000, per essere quindi trascorsi i 24 mesi dopo il 3 gennaio 2002 in detto ruolo professionale, così come richiesto dall’accordo del 2 dicembre 2000 e dal contratto integrativo aziendale del 3 gennaio 2002, con conseguente condanna della datrice di lavoro al pagamento delle differenze retributive.
La Corte territoriale ha respinto il gravame ritenendo che, sulla base della disciplina collettiva applicabile, il presupposto per ottenere automaticamente l’inquadramento nel livello superiore QD3 non era solo l’appartenenza al livello QD2 ma anche lo svolgimento delle mansioni di specialista tecnico immobiliare sin dal dicembre del 2000, con onere a carico dell’attrice di provare tale presupposto; prova nella specie non raggiunta anche per non essere stato allegato dalla ricorrente in cosa consistevano – in concreto – le sue mansioni, risultando impossibile alla Corte valutare, anche utilizzando le declaratorie contrattuali, a quali figura corrispondessero.
2. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso L.B. con un motivo articolato in molteplici censure. Ha resistito con controricorso B.M.P.S. Spa. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
3. – Con il mezzo di gravame parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 codice civile, del combinato disposto con gli articoli 1362, 1363, 1367, 2071 e 2103 c.c. in relazione al disposto di cui all’art. 360 numeri 3 e 5 c.p.c.”. Lamenta che “la motivazione dei giudici dell’appello oltre che essere insufficiente costituisce pronunzia che non ha applicato i principi che disciplinano l’acquisizione delle prove e la loro valutazione”. Sostiene che esisteva “la prova documentale dello svolgimento delle mansioni di Specialista tecnico immobiliare” da parte della lavoratrice.
Si duole che nella sentenza impugnata sarebbe stata “omessa la lettura sistematica della contrattazione collettiva”.
4. – Il ricorso, come formulato, è inammissibile per molteplici profili.
Innanzitutto denuncia promiscuamente violazione di molteplici norme di legge nonché difetti di motivazione senza che sia comprensibile quale sia l’errata o falsa applicazione di ciascuna di esse né quale sia la circostanza di fatto trascurata o erroneamente valutata dalla Corte territoriale che avrebbe, con criterio di certezza e non di mera probabilità, condotto ad un esito diverso circa la ricostruzione della vicenda storica (cfr. da ultimo Cass. n. 9228 del 2016).
Invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione. Il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002). L’osservanza del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. n. 19100 del 2006) ed è dunque inammissibile un motivo che non consenta di individuare in che modo e come le numerose norme richiamate nella rubrica sarebbero state violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto asseritamente trasgrediti nonché i punti della motivazione specificamente viziati (Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata).
In particolare, poi, ancora di recente questa Corte, a Sezioni Unite, al cospetto di un motivo che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., ha avuto modo di ribadire la propria giurisprudenza che stigmatizza tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016). Infatti tale modalità di formulazione risulta irrispettosa del canone della specificità del motivo di impugnazione nei casi in cui, nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v. Cass. n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n. 9470 del 2008).
Inoltre nel corpo del motivo si fa riferimento a numerosi documenti, anche di natura contrattuale, senza che ne sia compiutamente riportato il contenuto né indicando dove essi siano reperibili nell’ambito del processo di legittimità, in violazione del canone dell’autosufficienza del ricorso per cassazione (tra tante, da ultimo, Cass. n. 12288 del 2016).
Poi si propone una rilettura del materiale probatorio, oltre ad una diversa interpretazione della contrattazione collettiva di livello aziendale, non consentita in sede di legittimità, per di più senza censurare adeguatamente l’effettiva ratio decidendi posta a base della sentenza impugnata, secondo cui non si è raggiunta la prova che lo S. svolgesse le mansioni di sistemista all’epoca in cui era necessario per conseguire poi, trascorso il biennio, il diritto al superiore inquadramento.
5. – Pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 3.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.
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