CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 agosto 2017, n. 20110
Lavoro straordinario, permessi e festività – Mancato riconoscimento – Differenze retributive – Principio di non contestazione – Il fatto non contestato non ha bisogno di prova – Vincolo per il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza – Esclusione per tardiva costituzione in giudizio – Non sussiste
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma con sentenza n. 103 in data 10 gennaio 2010 – 8 febbraio 2011 rigettava il gravame interposto da K.K. contro C.P., avverso la pronuncia in data 8 settembre 2008, con la quale il locale giudice del lavoro aveva respinto la domanda dello stesso appellante in relazione a pretese differenze retributive straordinario e mancato riconoscimento di permessi e festività.
Secondo la Corte capitolina, nella specie non era invocabile il principio di non contestazione, poiché il convenuto si era costituito tardivamente in primo grado, allorché era stata ammessa la prova testimoniale e si stava procedendo all’escussione del primo teste. Inoltre, il principio di non contestazione non poteva operare nel caso di ammissione del mezzo istruttorio, presupponendo la sua applicazione soltanto in relazione ai fatti pacifici tra le parti, laddove non fosse necessario ricorrere all’ammissione dei mezzi di prova. Al contrario, il principio di non contestazione non poteva valere, qualora nella contumacia del convenuto e nell’impossibilità di verificare se i fatti allegati siano pacifici, sia stata ammessa la prova testimoniale con esito negativo, nel senso che non sia stata raggiunta la dimostrazione delle circostanze dedotte in giudizio.
Inoltre, ad avviso della Corte distrettuale, richiamando la giurisprudenza (Cass. n. 5488 del 2006), i fatti allegati sono da considerarsi pacifici, e quindi possono essere posti a fondamento della decisione, quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte, oppure quando la stessa pur non avendoli espressamente contestati abbia tuttavia assunto una posizione difensiva assolutamente incompatibile con la loro negazione, così implicitamente ammettendone l’esistenza.
Nel caso di specie in esame non risultava, in particolare, che l’appellato già in prime cure avesse ammesso lo svolgimento di cinque ore di lavoro straordinario alla settimana. Infatti, il convenuto nel costituirsi in giudizio, sebbene tardivamente, si era limitato ad indicare un orario di lavoro, dalle otto alle 17, dal lunedì al venerdì, con esclusione del sabato; ma doveva ritenersi che in tale indicato orario fosse ricompresa, come di consuetudine, anche la pausa pranzo di un’ora al giorno. Di conseguenza, il tempo della pausa andava detratto dall’orario settimanale, di modo che parte resistente non aveva affatto ammesso lo svolgimento del lavoro straordinario nei sensi pretesi dalla controparte.
Le medesime considerazioni, poi, valevano anche con riferimento al secondo motivo di appello, riguardo al mancato riconoscimento dei permessi delle festività, poiché anche in tal caso non poteva invocarsi il principio di non contestazione.
Pertanto, andavano confermate le valutazioni espresse con l’impugnata pronuncia, secondo cui dalla prova testimoniale non erano emersi elementi utili a comprovare le allegazioni di parte attrice. I testi escussi, infatti, avevano dichiarato di non conoscere quale fosse l’orario di lavoro, né se il K. lavorasse durante le festività.
Ad avviso della Corte distrettuale, dagli statini paga prodotti in giudizio risultava che la retribuzione corrisposta non era inferiore ai minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva, con riferimento al livello di inquadramento attribuito e al c.c.n.I. prodotto dalla ricorrente.
Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione K.K. con atto in data 20 gennaio – primo febbraio 2012, affidato a sette motivi, cui ha resistito C.P. mediante controricorso spedito il 9 marzo 2012.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente ha denunciato la violazione dell’articolo 416 comma terzo c.p.c. in relazione all’articolo 360 comma primo n. 4 dello stesso codice di rito, per il fatto di aver ritenuto che, nel caso della tardiva costituzione del contumace, l’operatività del principio di non contestazione sia soggetta ad un termine di decadenza, da individuarsi nel momento dell’adozione dei provvedimenti istruttori.
In sostanza, il ricorrente ha lamentato il fatto che sia stato escluso principio di non contestazione nel caso di specie, richiamando i principi affermati dalla sentenza di questa Corte -sezioni unite civili- n. 761 del 2002, sostenendo, quindi, che il fatto non contestato non ha bisogno di prova, perché le parti ne hanno disposto, così vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza e per cui il giudice deve astenersi da qualsiasi controllo probatorio. Inoltre, ai fini della tempestività della contestazione, non rileva la tardività della costituzione in giudizio, sicché il contumace che si costituisca tardivamente mantiene comunque la facoltà di contestare fatti costitutivi allegati da parte attrice. Nella specie, invece, la Corte capitolina aveva ritenuto, erroneamente, nel caso della tardiva costituzione, che l’operatività del principio di non contestazione fosse subordinata ad un termine di decadenza, da individuarsi nel momento dell’adozione dei provvedimenti istruttori.
Con il secondo motivo, il ricorrente ha dedotto la nullità della sentenza ex articolo 360 comma primo n. 4 c.p.c. per violazione dell’articolo 112 dello stesso codice di rito, laddove la Corte territoriale aveva ritenuto che nell’orario indicato dal convenuto in primo grado fosse compresa, come consuetudine, anche la pausa pranzo di un’ora al giorno, perciò da detrarsi da orario ammesso dallo stesso convenuto. Di conseguenza, era evidente che la decisione impugnata si fondava non già sulla scorta di deduzioni del convenuto, ma su di ulteriori e diverse circostanze, però non da quest’ultimo opposte (pausa pranzo della durata di un’ora).
Con il terzo motivo il ricorrente ha lamentato la nullità della sentenza per violazione dell’articolo 101 c.p.c., ex articolo 360 comma primo n. 4 dello stesso codice, atteso che la pausa pranzo e la durata della stessa erano stati introdotti nel giudizio dalla Corte di Appello in una fase del processo a contraddittorio chiuso. In via alternativa e subordinata, anche ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione, le anzidette circostanze integravano una palese violazione del principio del contraddittorio ex articolo 101 citato. Nessuna delle parti aveva avuto la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa, di controdedurre e di argomentare in fatto e in diritto, di articolare prova contraria ovvero diretta eventualmente sarebbe stata necessaria sulle pause e sulla loro durata.
Con il quarto motivo è stata denunciata la nullità della sentenza per violazione dell’articolo 115, comma secondo, c.p.c. (il giudice può tuttavia senza bisogno di prova porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza). Per fatto notorio doveva, quindi, intendersi rigorosamente un fatto che una persona di media cultura conosce in un certo momento, in un certo luogo e che quindi può qualificarsi come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con un tale grado di certezza da apparire indubitabile incontestabile, e non un evento o una situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice. Per contro, la Corte di Appello aveva assunto a base della sua decisione una nozione di fatto notorio non corrispondente agli anzidetti rigorosi parametri, ma dai confini molto generici ed indeterminati, ritenendo sufficiente una non meglio specificata consuetudine, del tutto priva di riferimenti spazio-temporali.
Con il quinto motivo, in via alternativa ovvero meramente subordinata rispetto al precedente motivo, il ricorrente ha lamentato la violazione dell’articolo 115, comma secondo c.p.c., ai sensi dell’articolo 360 comma primo n. 3 dello stesso codice, per aver l’impugnata pronuncia adottato una inesatta nozione di fatto notorio “rientrante nella comune esperienza”, in quanto priva del requisito di quella rigorosa certezza che rende il fatto qualificabile come acquisito alla conoscenza della collettività di indubitabile ed incontestabile all’uomo di media cultura.
Con il sesto mezzo d’impugnazione, il ricorrente si è doluto per insufficiente motivazione circa un fatto (fruizione di una pausa pranzo giornaliera) controverso e decisivo per il processo, in relazione all’articolo 360 comma primo n. 5. c.p.c.. La Corte capitolina con Ia sentenza de qua non consentiva di comprendere l’iter logico in base al quale fosse possibile pervenire all’affermazione che la pausa pranzo costituisse un fatto così incontestabile ed indubitabile da assurgere a fatto notorio di comune esperienza, laddove si era fatto riferimento ad una non meglio specificata consuetudine.
Infine, con il settimo e ultimo motivo è stata ancora dedotta l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo, ex articolo 360 n. 5 cit., in ordine alla durata di 60 minuti della pausa pranzo; vizio di motivazione consistito perciò nella impossibilità di ricostruire l’iter logico giuridico seguito dalla Corte di merito nella individuazione e nella quantificazione della durata di sessanta minuti della asserita pausa giornaliera come fatto notorio di comune esperienza.
Tanto premesso, il ricorso va disatteso in forza delle seguenti considerazioni.
Ed invero, quanto al primo motivo, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, condiviso da questo collegio, (cfr. Cass. III civ. n. 4249 del 16/03/2012), se il giudice ha ritenuto “contestato” uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all’ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all’accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte, diretta a far valere l’altrui asserita pregressa “non contestazione”, diventa inammissibile (v. altresì Cass. III civ. n. 13830 del 23/07/2004, secondo cui nel vigente ordinamento processuale i fatti allegati da una delle parti vanno considerati “pacifici” – e quindi possono essere posti a fondamento della decisione – quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte oppure quando questa pur non avendoli espressamente contestati abbia tuttavia assunto una posizione difensiva assolutamente incompatibile con la loro negazione, così implicitamente ammettendone l’esistenza. Conforme tra le altre Cass. n. 5488 del 14/03/2006 e n. 12119 del 23/05/2006 Cfr. ancora Cass. lav. n. 10098 del 2/5/2007: la non contestazione della domanda, che ha per oggetto i fatti costitutivi della domanda e non quelli dedotti in esclusiva funzione probatoria, scaturisce dalla non negazione fondata sulla volontà della parte oggettivamente risultante e deve essere pertanto inequivocabile, di talché non può ravvisarsi né in caso di contumacia del convenuto, né in ipotesi di contestazione meramente generica e formale. Peraltro, la non contestazione del fatto, che è tendenzialmente irreversibile, non determina di per sé la decisione della controversia, dovendo il giudice di merito valutare se il fatto non contestato sia inquadrabile nell’astratto parametro normativo e, prima ancora, stabilire la tacitamente, abbia manifestato la propria interpretazione in senso contrario alla non contestazione e, in assenza di ogni deduzione sulla stessa, abbia proceduto all’espletamento incontestato di un mezzo istruttorio in ordine all’accertamento del fatto, la successiva deduzione di parte in ordine all’altrui pregressa contestazione diventa inammissibile.
V. altresì Cass. lav. n. 24885 del 21/11/2014: la contumacia integra un comportamento neutrale cui non può essere attribuita valenza confessoria, e comunque non contestativa dei fatti allegati dalla controparte, che resta onerata della relativa prova, sicché rientra nelle facoltà difensive del convenuto, dichiarato contumace nel giudizio di primo grado contestare le circostanze poste a fondamento del ricorso, anche perché la previsione dell’obbligo a suo carico di formulare nella memoria difensiva, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito, nonché di prendere posizione precisa in ordine alla domanda e di indicare le prove di cui intende avvalersi, non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se la parte attrice abbia dato dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano o meno state proposte, dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato.
V. inoltre, da ultimo, nelle more della pubblicazione di questa pronuncia, Cass. lav. n. 8708 del 4/4/2017, secondo cui la non contestazione dei fatti non costituisce prova legale, bensì un mero elemento di prova, sicché il giudice di appello, ove nuovamente investito dell’accertamento dei medesimi con specifico motivo di impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale di tutto il materiale probatorio ritualmente acquisito, senza essere vincolato alla condotta processuale osservata dal convenuto nel primo grado del giudizio).
D’altro canto – v. Cass. III civ. n. 20637 del 13/10/2016 – in virtù del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui si deduca l’erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di negare, atteso che l’onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova (analogamente, secondo Cass. III civ. n. 3023 del 17/02/2016, il principio di non contestazione, con conseguente “relevatio” dell’avversario dall’onere probatorio, postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all’onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione, mentre diversamente opinandosi si ribalterebbe sulla parte convenuta l’onere di allegare il fatto costitutivo dell’avversa pretesa).
Orbene, nel caso di specie qui in esame, in base pure a quanto rappresentato con il ricorso (cfr. in part. pgg. da 3 a 10), il giudice di primo grado all’udienza del 25 gennaio 2007, fissata per la discussione, dichiarava la contumacia del convenuto ed ammetteva i richiesti mezzi istruttori (prova per testi ed interrogatorio formale, oltre che la prodotta documentazione). Alla successiva udienza del tre maggio 2007 si costituiva in giudizio il convenuto, concludendo per il rigetto della domanda come da memoria, della quale però il ricorrente ha riportato soltanto le indicazioni relative all’orario di lavoro (dalle 8 alle 17 dal lunedì al venerdì, con esclusione del sabato). Nulla, invece, è stato indicato circa il contenuto delle dichiarazioni rese dai testi escussi e dal convenuto, che rendeva l’interrogatorio formale deferitogli, sicché tali mezzi istruttori venivano espletati senza che risulti alcuna contestazione o eccezione in proposito da parte attrice, laddove poi soltanto con le successive note illustrative depositate per l’udienza 11 gennaio 2008 si faceva cenno al non contestabile anzidetto orarlo di lavoro, in quanto espressamente riconosciuto dal convenuto negli scritti e atti difensivi.
Pertanto, nei sensi anzidetti le doglianze di cui al primo motivo di ricorso appaiono inammissibili per le ragioni in rito sopraindicate oltre che infondate (v. sul punto anche Cass. lav. n. 461 del 14/01/2015, secondo cui il principio di non contestazione presuppone un comportamento concludente della parte costituita, sicché non è preclusa la contestazione, per la prima volta in appello, sia per la parte rimasta contumace che per quella costituitasi tardivamente in primo grado. In senso analogo, Cass. III civ. n. 14623 del 23/06/2009). Dunque, non è possibile ritenere nella specie il principio di non contestazione, di modo che l’onere probatorio resta interamente a carico di parte attrice ex art. 2697 (co. 1) c.c., e senza che sia possibile ravvisare alcuna inversione in proposito, soprattutto poi in materia di straordinario, la cui prestazione, come è noto, va rigorosamente dimostrata dalla parte interessata a farla valere.
D’altro canto, attesa l’anzidetta evidenziata insufficiente allegazione delle doglianze del ricorrente, in violazione di quanto stabilito in materia dall’art. 366, comma 1, nn. 3 e 6 c.p.c., nemmeno è possibile ravvisare al riguardo una confessione (invero neanche ipotizzata dal ricorrente) in relazione al menzionato interrogatorio formale, in particolare per effetto di mancata enunciazione delle relative risposte da parte del C. (v. nota n. 6 in calce alla pag. 5 del ricorso, in cui è stato riportato per estratto il verbale dell’udienza tre maggio 2007, laddove pure si è dato atto dell’interrogatorio formale reso dal convenuto, comparso di persona con il suo difensore: <<…Viene introdotto il convenuto che, interrogato formalmente, dichiara: Mi chiamo P.C…. omissis …>>).
Né è stata compiutamente riprodotta la memoria difensiva per il convenuto depositata all’udienza del tre maggio 2007, di cui invece sono stati riportati soltanto alcuni passi relativi all’orario di lavoro osservato, dalle 8 alle 17, da lunedì a venerdì, escluso il sabato, sicché, anche in difetto di complete allegazioni, nemmeno è possibile comprendere se vi sia stato l’incondizionato riconoscimento, in proposito ipotizzato dal ricorrente, ma escluso dai giudici di merito.
Pertanto, alla stregua dei surriferiti elementi istruttori, ben poteva la Corte d’Appello -nulla essendo stato dimostrato al riguardo dall’attore, che pure ne aveva l’onere- valutare i fatti emersi dalle anzidette risultanze, nel senso che una delle nove ore giornaliere (8/17) in linea di massima fosse dedicata alla pausa pranzo piuttosto che alla ininterrotta prestazione lavorativa (cfr. tra l’altro anche Cass. lav. n. 10353 del 19/05/2016, secondo cui l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, rafforzato dall’aggiunta del secondo comma all’art. 101 c.p.c. ad opera della I. n. 69 del 2009, non si estende ad una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito. Peraltro, il II comma dell’art. 101 c.p.c. nella specie è ratione temporis inapplicabile, poiché aggiunto dall’art. 45, co. 13, I. 18 giugno 2009, n. 69, il cui art. 58, co. 1, stabilisce infatti espressamente che «le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore », avvenuta il 4 luglio 2009.
Per contro la sentenza appellata, n. 12770/08, confermata con la pronuncia n. 103/11 – R.G. 9552 anno 2008. qui impugnata, risale all’otto settembre 2008, emessa perciò evidentemente in seguito ad atto introduttivo del giudizio anteriore al 4-7-09. E la stessa disciplina transitoria vale d’altro canto in relazione all’art. 115 del codice di rito, il cui primo comma è stato modificato dall’art. 45, comma 14, della citata legge n. 69, sicché in particolare nella specie non opera il nuovo testo <<Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita>>, ma il precedente, che non contemplava in tema di disponibilità delle prove, i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita).
Vanno, quindi, disattesi gli altri motivi di ricorso, che in effetti tendono a rimettere in discussione, aggirandolo, il libero convincimento dei giudici di merito, secondo i quali non era stato provato lo svolgimento di alcun lavoro straordinario.
Ed invero, a fronte dei motivati accertamenti in punto di fatto, nonché dei conseguenti apprezzamenti operati dalla Corte di merito, non sono ammesse corrispondenti censure ai sensi dell’art. 360 c.p.c. (v. tra le altre Cass. civ. Sez. 6-5, ordinanza n. 7921 del 6/4/2011, secondo cui con la proposizione del ricorso per cassazione il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. In senso conforme, nelle more della pubblicazione di questa decisione, v. anche Cass. n. 9097 del 10/01 – 7/4/2017.
Cfr. altresì Cass. civ. sez. 6 – 5, ordinanza n. 91 del 07/01/2014: il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass. n. 15489 del 2007, n. 5024 del 2012).
Va, inoltre, ricordato il principio (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 6288 del 18/03/2011 e n. 27162 del 23/12/2009), secondo cui il vizio di omessa o insufficiente motivazione (cfr. in part., nella specie, la sesta e la settima censura di parte ricorrente) deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (peraltro secondo il testo -nella specie ratione temporis qui applicabile con riferimento alla sentenza de qua, risalente al 10 gennaio l’otto febbraio 2011 – anteriore alla più restrittiva formulazione introdotta dall’art. 54, co. 1, lett. b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in I. 7 agosto 2012, n. 134) sussiste soltanto se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
Nel caso esaminato dalla sentenza qui impugnata non è riscontrabile il suddetto vizio, avendo la Corte capitolina motivatamente dato conto delle acquisite risultanze processuali e delle allegazioni di parte, giudicando nei sensi sopra indicati, ossia in sintesi che la prestazione resa dal K. non aveva mai in concreto superato le otto ore al dì per cinque giorni della settimana lavorativa, sicché egli non aveva diritto ad ulteriori compensi.
Restano, pertanto, così assorbite anche le censure di cui al secondo, terzo, quarto e quinto motivo.
Dunque, il ricorso va respinto, con la conseguente condanna del soccombente al rimborso delle relative spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore del controricorrente, in euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
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