CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 dicembre 2016, n. 26053
ICI – Accertamento – Eccessiva valutazione dell’immobile rispetto ai manufatti dello stesso tipo
Svolgimento del processo
La controversia concerne l’impugnazione, da parte della società contribuente, degli avvisi d’accertamento e liquidazione per il pagamento dell’ICI relativa al 2003, deducendo l’eccessiva valutazione dell’immobile rispetto ai manufatti dello stesso tipo, nella stessa zona, nonché vizio di motivazione per disparità di trattamento.
La CTP rigettava il ricorso, e la CTR, rigettando l’appello della società contribuente, confermava la sentenza di primo grado.
Avverso quest’ultima sentenza, la parte privata ha proposto ricorso davanti a questa Corte di Cassazione, sulla base di tre motivi, mentre il comune di Viterbo ha partecipato alla sola discussione orale.
Motivi della decisione
Con i tre motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, la società contribuente denuncia, la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in particolare, dell’art. 112 c.p.c., per omesso esame di un punto decisivo della controversia, e violazione e falsa applicazione degli artt. 19 del DPR n. 513/97 e 10 e 25 del DPR n. 445/2000, in quanto, i giudici d’appello non si sarebbero pronunciati sull’eccezione sollevata fin dal ricorso introduttivo, relativa al fatto che l’accertamento non fosse sottoscritto dal Sindaco, ma da un dirigente, senza che fosse stata documentata la delega di funzioni; inoltre, i giudici d’appello non si sarebbero pronunciati sulla denunciata violazione di cui all’art. 7 comma 2 lett. a) della legge n. 212 del 2000, relativa alla circostanza che nell’atto impositivo mancava l’indicazione del responsabile del procedimento, ed, infine, in violazione delle norme indicate nella rubrica l’avviso d’accertamento non recava la firma autografa della persona fisica che aveva materialmente emanato l’atto, ma solo quella a stampa.
La complessiva censura è inammissibile, per mancanza dei quesiti di diritto, per come richiesto dall’art. 366 bis c.p.c. vigente ratione temporis, mentre, nel terzo motivo di censura pur se presente, il quesito di diritto è redatto in forma interrogativa e/o astratta.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello secondo cui “il quesito di diritto non può essere desunto dal contenuto del motivo, poiché in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., introdotto dall’art. 6 del d.lgs. n. 40 del 2006, consiste proprio nell’imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale e autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formulazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (Cass. n. 20409 del 2008, Cass. S.U. n. 6420/2008; Cass. n. 2799 del 2011). Inoltre, nella stessa prospettiva, il quesito di diritto non può essere generico e astratto ma deve compendiare la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata da quel giudice e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. La mancanza – come nel caso all’esame – anche di una sola di tali indicazioni nel quesito di diritto rende inammissibile il motivo cui il quesito così formulato sia riferito (Cass., ord., 25 settembre 2007, n. 19892 e 17 luglio 2008, n. 19769; Cass. 30 settembre 2008, n. 24339; Cass. 13 marzo 2013, n. 6286, in motivazione)” (Cass. n. 13240/2014, 4805/13 – non massimate). Pertanto, nel caso di specie, il comune ricorrente si è disinteressato di rispettare la normativa vigente ratione temporis che imponeva al patrocinante di redigere il motivo corredato di una sintesi originale e autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formulazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità.
Nel merito, tuttavia, il ricorso sarebbe, comunque, infondato, in quanto l’ente locale, nei cui confronti è proposto il ricorso, può stare in giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, anche in grado di appello, mediante il Dirigente l’Ufficio Tributi, da intendersi come il Dirigente responsabile dell’Ufficio dello specifico tributo oggetto di lite (Cass. n. 19445/15, 15079/04, 21805/04).
La mancanza di difese scritte da parte del comune di Viterbo esonera il Collegio dal provvedere sulle spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la società contribuente a pagare al comune di Viterbo, in persona del Sindaco in carica, le spese di lite del presente giudizio che liquida nell’importo di € 1.000,00, oltre accessori di legge.