CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 febbraio 2018, n. 3864
Procacciatore di affari – Definizione a buon fine degli affari in relazione ai crediti vantati – Prove documentali e di scritture contabili delle imprese – Poteri istruttori officiosi del giudice – Parte onerata dalla prova – Allegazione tempestiva e analiticità dei fatti e di non avere altro mezzo per dimostrarli
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Venezia mediante la sentenza n. 522, in data 28 giugno – cinque ottobre 2011, rigettava il gravame interposto il 27 marzo 2009 da S.F., confermando, sia pure con diversa motivazione, il rigetto di cui all’impugnata sentenza di primo grado, osservando che ad ogni modo non risultava provato il fatto costitutivo del diritto vantato dall’attore, procacciatore di affari presso il mercato USA in favore della C.C., ossia la definizione a buon fine degli affari in relazione ai crediti vantati.
Esclusa, quindi, pure l’inammissibilità della domanda per l’abusata frazionabilità del credito azionato, erroneamente ritenuta dal primo giudicante, la Corte distrettuale riteneva non provato il fatto costitutivo delle domanda, escludendo altresì la possibilità di un giudicato riflesso, favorevole all’attore, in relazione alla sentenza definitiva pronunciata in altro giudizio (di opposizione a decreto ingiuntivo, relativamente ad una parte del credito vantato, con espressa riserva di azione ordinaria per il residuo).
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo S. con tre motivi, cui ha resistito la S.r.l. C.C. mediante controricorso.
Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c. dalle parti, i cui difensori sono peraltro comparsi alla pubblica udienza svoltasi il 19 settembre 2017.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente ha lamentato omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., avendo la sentenza de qua solo apparentemente confermato la pronuncia di primo grado, poiché aveva esplicitamente censurato la motivazione del Tribunale di Vicenza, in punto di applicazione nella specie del principio affermato da Cass. sez. un. n. 23726/2007.
Il ricorrente, quindi, si è doluto della omessa, insufficiente o contraddittoria valutazione della prova documentale offerta, rappresentata dalle dettagliate fatture dimesse a supporto della pretesa creditoria, nonché per la mancata messa a disposizione della documentazione richiesta ex artt. 1748 e 1749 c.c.. In particolare, per ciascuna fattura era stato chiaramente indicato ogni affare svolto per la preponente, identificato con il numero di fattura <<spicato» (?) da C.C., la data di esecuzione, l’importo complessivo dell’affare, secondo le modalità di spedizione richiese dalla società, il nominativo del cliente interessato a ciascun affare, la percentuale provvigionale operata e l’importo dovuto a titolo di provvigione per ogni singolo affare. Ecco come la sentenza impugnata fosse caduta in una macroscopica “svista”, rispetto alla documentazione che era stata pacificamente dimessa unitamente al ricorso introduttivo e che dimostrava analiticamente le ragioni del credito dell’agente per l’ingente lavoro svolto. Gli indicati documenti non erano stati mai contestati dalla controparte, che quindi non aveva mai messo in discussione la veridicità degli affari indicati. Inoltre, la debitrice non aveva mai affermato che le richieste provvigioni non derivassero da affari procacciati da esso ricorrente, né che tali affari non fossero andati a buon fine.
Con il secondo motivo, poi, è stata dedotta omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa ulteriori aspetti: la mancata ammissione della consulenza tecnica di ufficio volta a determinare, sulla documentazione in atti e sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, il credito, vantato da esso S..
Con il terzo motivo, inoltre, parte ricorrente ha lamentato omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa ulteriori aspetti: la disapplicazione del principio di specifica contestazione di cui all’art. 416 II comma c.p.c., mancata contestazione di elementi di fatto determinanti, da parte della resistente C.C..
Tanto premesso, le anzidette censure vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni. In primo luogo le doglianze risultano carenti nelle loro allegazioni, contrariamente a quanto invece richiesto a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.p.c..
In particolare, il ricorrente ha omesso di precisare come, dove e quando abbia prodotto i documenti, asseritamente trascurati dalla Corte di merito, e soprattutto le sue specifiche allegazioni di contenuto nei propri atti e di quelli della controparte, per i quali lamenta l’omessa applicazione del principio di non contestazione (cfr., tra le altre, Cass. III civ. n. 20637 del 13/10/2016, secondo cui in virtù del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui si deduca l’erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di negare, atteso che l’onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova. V. pure Cass. I civ. n. 15961 del 18/07/2007: ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto asseritamente “pacifica” tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica). D’altro canto, va ricordato il condiviso e consolidato principio di diritto (cfr. in part. Cass. III civ. n. 18205 del 03/07/2008), secondo cui il decreto ingiuntivo divenuto inoppugnabile, che sia stato ottenuto dal creditore per una frazione soltanto del suo credito, non produce alcun effetto di giudicato (né interno, trattandosi di diverso processo, né esterno od implicito, vertendosi non in tema di rapporto presupposto bensì di “altra porzione” del medesimo rapporto obbligatorio) nel successivo giudizio avente ad oggetto la restante parte del credito (e ciò a prescindere dalla questione di legittimità o meno della condotta consistente nell’azionare separatamente più frazioni del medesimo credito. In senso conforme Cass. I civ. n. 7400 – 08/08/1997.
V. in senso analogo pure Cass. sez. un. civ. n. 4510 – 01/03/2006: il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata solo in relazione al diritto consacrato e non con riguardo alle domande o ai capi di domanda non accolti, atteso che la regola contenuta nell’art. 640, ult. comma, cod. proc. civ. -secondo cui il rigetto della domanda di ingiunzione non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in sede ordinaria – trova applicazione sia in caso di rigetto totale della domanda di ingiunzione che di rigetto parziale, e quindi anche nell’ipotesi di accoglimento solo in parte della richiesta). Peraltro, in tema di prove documentali e di scritture contabili delle imprese, perché il giudice eserciti legittimamente i suoi poteri istruttori officiosi occorre che la parte onerata dalla prova abbia tempestivamente e con sufficiente analiticità allegato i fatti specifici da provare e che, sempre tempestivamente, abbia almeno fondatamente allegato di non avere altro mezzo (o di avere invano esperito altri mezzi) per dimostrarli (Cass. III civ. n. 9522 del 12/06/2012. V. altresì Cass. II civ. n. 13533 del 20/06/2011, secondo cui la discrezionalità del potere officioso del giudice di ordinare alla parte o ad un terzo, ai sensi degli artt. 210, 421 cod. proc. civ., l’esibizione di un documento sufficientemente individuato, non potendo sopperire all’inerzia delle parti nel dedurre i mezzi istruttori, rimane subordinata alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 e 94 disp. att. cod. proc. civ. e deve essere supportata da un’idonea motivazione, anche in considerazione del più generale dovere di cui all’art. 111, comma sesto, Cost., saldandosi tale discrezionalità con il giudizio di necessità dell’acquisizione del documento ai fini della prova di un fatto). Inoltre, secondo la giurisprudenza condivisa da questo collegio, non solo il potere officioso di ordinare, ai sensi dei citati artt. 210 e 421, l’esibizione di documenti sufficientemente individuati, ha carattere discrezionale, non potendo sopperire all’inerzia della parte, ma può essere esercitato unicamente se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile “aliunde”, non anche per fini meramente esplorativi. Per di più, il mancato esercizio da parte del giudice del relativo potere, anche se sollecitato, non è censurabile in sede di legittimità, neppure se il giudice abbia omesso di motivare al riguardo (Cass. lav. n. 5908 del 24/03/2004. Parimenti, secondo Cass. III civ. n. 19054 del 12/12/2003, l’ordine di esibizione costituisce una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, che non è tenuto a specificare le ragioni per le quali ritiene di non avvalersene, di guisa che il mancato esercizio di tale facoltà non è sindacabile in sede di legittimità, nemmeno sotto il profilo del difetto di motivazione. Conformi Cass. I civ. n. 13443 del 12/09/2003, II civ. 12493 del 26/08/2002, sez. lav. n. 15983 del 20/12/2000, III civ. n. 4363 del 16/05/1997).
Va poi chiarito che l’onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti, e non già i documenti prodotti, né la loro valenza probatoria, la cui valutazione, in relazione ai fatti contestati, è riservata al giudice di merito (Cass. III civ. n. 12748 del 21/06/2016, conforme Cass. sez. 6 – L n. 6606 del 06/04/2016, secondo la quale in particolare resta in ogni momento la significatività o valenza probatoria dei documenti prodotti oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice), e con l’ulteriore precisazione che il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416 c.p.c. riguarda solo i fatti c.d. primari, costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato, mentre non si applica alle mere difese (Cass. lav. n. 17966 del 13/09/2016). Per giunta, nella specie è ratione temporis qui applicabile (in base al regime transitorio di cui all’art. 58, comma Io, L. 18 giugno 2009 n. 69, avuto riguardo al ricorso introduttivo del giudizio, definito in primo grado con sentenza n. 309 del 3 ottobre 2008), il previgente testo dell’art. 115 c.p.c., e non già quello inserito dall’art. 45, co. 14, della cit. L. n. 69 (secondo il quale il giudice deve porre a fondamento della decisione anche i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita). Di conseguenza, in base al succitato previgente testo dell’art. 115 (in tema di disponibilità delle prove: Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero. Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza) opera il principio di diritto, secondo cui rispetto ai c.d. fatti secondari la non contestazione era suscettibile di essere considerata unicamente come mero elemento di prova, a differenza quindi dei fatti primari, che ove non debitamente contestati dovevano considerarsi definitivamente ammessi (cfr. tra le altre Cass. I civ. n. 5191 del 27/02/2008 unitamente alla giurisprudenza ivi richiamata in motivazione, tra cui Cass. sez. un. civ. n. 761 del 23/01/2002: l’onere del convenuto, previsto dall’art. 416 cod. proc. civ. per il rito del lavoro, e dall’art. 167 cod. proc. civ. per il rito ordinario, di prendere posizione, nell’atto di costituzione, sui fatti allegati dall’attore a fondamento della domanda, comporta che il difetto di contestazione implica l’ammissione in giudizio solo dei fatti cosiddetti principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti cosiddetti secondari, ossia dedotti in esclusiva funziona probatoria, la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.). Pertanto, l’adito giudice di secondo grado ben poteva rivalutare tutto l’acquisito materiale probatorio. Ed al riguardo la Corte di Appello ha puntualizzato come nessun significativo rilievo probatorio potesse attribuirsi alle difese di parte appellata, circa l’asserita non contestazione della parte di credito non azionata, però svolta in occasione di separato giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, proposta dall’attuale controricorrente, ma respinta con sentenza n. 27/2003, laddove in via monitoria il sig. S. aveva azionato soltanto una parte dei crediti vantati a titolo di provvigioni, però riservandosi di chiedere in altra sede l’importo residuo. In proposito, la Corte distrettuale ha evidenziato come il ricorso introduttivo del giudizio (pagine 8 e 9) si fondasse proprio sulla asserita mancata contestazione da parte della società del buon fine degli affari, che avrebbero determinato le provvigioni, sostenendosi che la sentenza di rigetto dell’opposizione al decreto ingiuntivo avrebbe spiegato effetti anche riguardo al maggio credito non azionato in quella sede monitoria. Per contro, la Corte territoriale con la sentenza de qua, richiamata la succitata giurisprudenza (in part. Cass. n. 18205/08), ha rilevato l’infondatezza giuridica della tesi, svolta da parte attrice, poiché la sentenza di rigetto dell’opposizione al d.i. non poteva aver alcun effetto in questo giudizio (celebrato con rito ordinario), avente ad oggetto una parte del credito vantato, perciò diversa da quella oggetto del primo procedimento (svoltosi con rito speciale). E allo stesso modo, le espletate prove testimoniali riguardavano circostanze però non riferite alla promozione di specifici affari ed al loro buon fine, attingendo esse ad aspetti irrilevanti ai fini delle provvigioni, il tutto così come ampiamente motivato nello specifico a pagina 12 della pronuncia di appello. Di conseguenza, le acquisite testimonianze non consentivano di ritenere dimostrato il fatto costitutivo del credito azionato in questo processo, ossia l’invocato pagamento di provvigioni in relazione a specifici affari andati a buon fine e conclusi per effetto dell’attività di procacciamento espletata dallo S.. Costui a tal riguardo non aveva, infatti, fornito alcuna indicazione relativa a singoli affari, al nominativo della clientela e soprattutto al loro buon fine, venendo così meno ai propri oneri di allegazione e di prova.
Dunque, le anzidette censure di parte ricorrente, esaminabili congiuntamente per la loro evidente connessione (laddove peraltro il secondo motivo si appalesa del tutto inconferente, non solo per la non pertinente doglianza di omessa motivazione relativa al mancato espletamento di c.t.u. contabile, presumibilmente formulata ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., ma anche in quanto attinente alla mera quantificazione, perciò ovviamente subordinata al riconoscimento dell’an debeatur), non confutano ritualmente, né con appropriati ed esaurienti riferimenti, le valutazioni e gli apprezzamenti di merito, operati con sufficienti e coerenti argomentazioni da parte della competente Corte distrettuale, il cui ragionamento decisorio non può quindi essere sindacato in questa sede di legittimità.
Pertanto, il ricorso va respinto, con la conseguente condanna del soccombente al rimborso delle relative spese.
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese, che liquida a favore della società controricorrente in euro #6,500,00# per compensi professionali ed in euro #200,00# per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
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