CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 novembre 2016, n. 48323
Reati tributari – Omesso il versamento delle ritenute certificate – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente – Azienda in crisi – Confisca diretta sul patrimonio del legale responsabile
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza dell’11/11/2015, il Tribunale del riesame di Messina rigettava il ricorso proposto da I.B. e, per l’effetto, confermava il decreto di sequestro preventivo – finalizzato alla confisca per equivalente – emesso il 12/10/2015 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto; all’indagato – nella qualità di legale rappresentante della “Centro Supermercati R.S. s.p.a.” – era contestato il delitto di cui all’art. 10-bis, d.Igs. 10 marzo 2000, n. 74, per aver omesso il versamento delle ritenute certificate per l’importo di 211.071,17 euro.
2. Propone ricorso per cassazione il B., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– violazione e falsa applicazione degli artt. 10-bis citato e 45 cod. pen. in ordine all’elemento psicologico del reato. Premessa la necessità di un dolo quantomeno generico a supporto della condotta, il Tribunale non avrebbe valutato che l’omissione contestata sarebbe addebitabile esclusivamente ad una comprovata crisi di liquidità, quale insuperabile difficoltà ed oggettivo impedimento alla condotta dovuta; al riguardo, il Collegio non avrebbe preso in considerazione le allegazioni difensive, tra le quali la stretta contiguità cronologica tra la scadenza di legge per il versamento e la presentazione dell’istanza di concordato preventivo, tale da evidenziare che, già al momento della prima, non esistevano risorse per far fronte al pagamento. Si verterebbe, pertanto, in una ipotesi di forza maggiore, dettata da una grave crisi finanziaria, imprevista ed imprevedibile; quel che escluderebbe il dolo del reato, come da più recente giurisprudenza di questa Corte;
– violazione e falsa applicazione dell’art. 322-ter cod. pen., 321 cod. proc. pen.. La misura sarebbe stata disposta direttamente sul patrimonio personale del B., senza alcuna previa ricerca delle stesse somme – in via diretta – in quello della società; ciò sarebbe contrario all’insegnamento di questa Corte, a mente del quale il pubblico ministero deve comunque, previamente, verificare l’eventuale disponibilità dell’importo tra i beni sociali. E con la precisazione, peraltro, che già il G.i.p. aveva erroneamente affermato che questa verifica preliminare non doveva essere compiuta.
3. Con requisitoria scritta del 16 maggio 2016, il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso, attesane la palese infondatezza.
Considerato in diritto
4. Osserva preliminarmente questa Corte che, in sede di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606, stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611); orbene, proprio in questi ultimi termini si muove il primo motivo proposto dal B., il quale – dietro la parvenza di una violazione di legge – di fatto contesta il difetto motivazionale con riguardo all’elemento soggettivo del reato ed alla configurabilità dell’esimente della forza maggiore.
Il che, come appena indicato, non è consentito in questa sede.
A ciò si aggiunga, peraltro, che il Tribunale del riesame – con motivazione del tutto adeguata, logica ed immune da vizi, come tale non certo assente o meramente apparente – ha risposto alla medesima questione, evidenziando che il ricorrente non aveva fornito alcuna prova in ordine alla non imputabilità a sé medesimo della crisi finanziaria ed all’impossibilità di fronteggiarla attraverso concrete misure. Al riguardo, quindi, l’ordinanza ha fatto buon governo del principio di diritto, costantemente affermato, in forza del quale, nel reato in esame, l’imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non riferibilità a lui stesso della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di affrontare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190); occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
Il motivo, pertanto, deve esser rigettato.
5. Negli stessi termini, poi, si conclude con riguardo alla mancata, previa escussione del patrimonio sociale.
Sul punto, osserva il Collegio che la nota sentenza Gubert delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., n. 10561 del 30/1/2014, Gubert, Rv. 258646) – richiamata anche dal Tribunale – ha affermato che, in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto, derivante dal reato medesimo, non potendosi considerare, in tal caso, la società come persona estranea al reato ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen.; ciò, peraltro, solo a condizione che il profitto medesimo – anche sotto forma di risparmio di imposta – sia rimasto nella disponibilità dell’ente e, pertanto, sia suscettibile di aggressione immediata. Nel caso in cui questa non risulti però possibile, l’imposizione del vincolo può allora esser disposta “per equivalente”; tanto sul presupposto che «la trasformazione, l’alienazione o la dispersione di ciò che rappresenti il prezzo o il profitto del reato determina la conseguente necessità, per l’ordinamento, di approntare uno strumento che, in presenza di determinate categorie di fatti illeciti, faccia sì che il beneficio che l’autore del fatto ha tratto, ove fisicamente non rintracciabile, venga ad essere concretamente sterilizzato sul piano patrimoniale, attraverso una misura ripristinatoria che incida direttamente sulle disponibilità dell’imputato, deprivandolo del tantundem sul piano monetario». Proprio con riguardo a tale forma di apprensione, poi, costituisce consolidato principio quello per cui il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente, a chiedere al Giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione (quel che, all’evidenza, richiederebbe un tempo potenzialmente idoneo a vanificare le finalità di cautela, consentendo l’occultamento degli altri beni suscettibili di confisca) (Sez. 3, n. 1738 dell’11/11/2014, Bartolini, Rv. 261929); sì che è legittimo il sequestro preventivo per equivalente anche quando l’impossibilità del reperimento – presso l’ente – dei beni costituenti il profitto sia soltanto transitoria e reversibile.
Tutto ciò premesso, rileva la Corte che il Collegio di merito ha fatto buon governo di questi principi, evidenziando che la previa ricerca delle somme presso la società non avrebbe sortito alcun effetto, attesa la palese crisi di liquidità in cui versava la stessa s.p.a. al momento dell’esecuzione della misura; quel che, peraltro, risultava anche dalla situazione patrimoniale aggiornata al 12/10/2014, prodotta dal medesimo ricorrente, che rappresentava disponibilità liquide per soli 821 euro.
6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.