Pubblico impiego – Contratto a termine – Astensione obbligatoria per maternità – Illegittima apposizione del termine – Risarcimento del danno
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Caltanissetta con la sentenza n. 249 del 2011 rigettava l’appello proposto dal Centro per la formazione permanente e l’aggiornamento del personale del servizio sanitario (CEFPAS) nei confronti di V. S., avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Caltanissetta il 7 ottobre 2009. Accoglieva l’appello incidentale della lavoratrice sulle spese.
2. La lavoratrice aveva adito il Tribunale esponendo di essere stata assunta con contratto a termine in data 14 aprile 2003 della durata di 24 mesi, successivamente prorogato per ulteriori 12 mesi sino al 14 aprile 2006;
di aver stipulato un nuovo contratto della durata di sei mesi in data 5 maggio 2006;
che all’approssimarsi del 4 novembre 2006, giorno di scadenza del contratto, aveva appreso che non le sarebbe stata consentita la proroga in quanto in astensione obbligatoria per maternità (diversamente da altre colleghe per cui interveniva la proroga).
Chiedeva, quindi, che fosse dichiarata la nullità dei termini apposti ai contratti stipulati, con conversione del rapporto di lavoro e che il datore di lavoro fosse condannato al pagamento delle retribuzioni maturate a far data dall’illegittimo licenziamento. In subordine chiedeva che il contratto a termine fosse prorogato per 36 mesi con reintegra della lavoratrice e il pagamento delle retribuzioni da illegittimo licenziamento; in ulteriore subordine che il datore di lavoro venisse condannato al risarcimento dei danni.
3. Il Tribunale dichiarava l’illegittimità dell’apposizione del termine ai contratti stipulati tra le parti il 14 aprile 2003 e il 5 maggio 2006 con condanna del Centro al pagamento in favore di S. V. della somma di euro 33,977,88, a titolo di indennità, applicando in via analogica l’art. 18 della legge 300 del 1970, venti mensilità dall’ultima retribuzione di fatto.
4. La Corte d’Appello escludeva l’acquiescenza lavoratrice per aver stipulato il secondo contratto e confermava la sentenza del Tribunale con riguardo alla statuizione sulla illegittimità dei termini facendo applicazione del d.lgs. 368 del 2001 circa la mancanza di ragioni tecnico produttive organizzative o sostitutive. Riteneva corretta la determinazione del risarcimento.
5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre CEFPAS con due motivi.
6. Resiste la lavoratrice con controricorso.
7. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, in relazione all’art. 12 delle preleggi, dell’art. 2043 cc e dell’art. 1218 cc (art. 360, n. 3, c.p.c.).
Il ricorrente censura la statuizione con la quale la Corte d’Appello afferma che l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha riconosciuto alla lavoratrice il diritto al risarcimento del danno, in ragione della violazione delle disposizioni in tema di assunzione a termine, senza la necessità di ulteriori prove.
2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione dell’art. 1226 cc, in relazione all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 (art. 360, n. 3, c.p.c.).
Erroneamente, nella qualificazione del danno la Corte si sarebbe rapportata all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, mentre avrebbe dovuto richiamare il parametro di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010.
3. I suddetti motivi devono essere esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi sono fondati e devono essere accolti, in ragione delle statuizioni della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 5072 del 2016.
La Corte, con la citata sentenza, ha ritenuto che, ai fini della determinazione del risarcimento del danno, la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, è invece quella del cit. art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010 che prevede – per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato – che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604” (in tal senso, già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371).
La misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, è proprio in questa agevolazione della prova da ritenersi in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 del più volte cit. accordo quadro: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.
La trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n.13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perché – si ripete – la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione.
In sintesi, il richiamo alla disciplina del licenziamento illegittimo, sia quella dell’art. 8 della legge n. 604/66 che dell’art 18 della legge n. 300/1970, che altresì, in ipotesi, quella del regime indennitario in caso di contratto di lavoro a tutele crescenti (art. 3 d.lgs. n. 23 del 2015), è incongruo perché per il dipendente pubblico a termine non c’è la perdita di un posto di lavoro. Può invece farsi riferimento all’art. 32, comma 5, cit. che appunto riguarda il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine.
4. Pertanto, il ricorso va accolto e la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, che si atterrà ai suddetti principi di diritto.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Caltanissetta in diversa composizione.