Tributi – Imposte sui redditi – Pagamento – Violazioni – Sanzioni
Massima:
Il mancato pagamento delle imposte legittima il sequestro dei beni ceduti quando il contribuente ha compiuto atti fraudolenti, quali la cessione di proprie quote di società ad un familiare e costituzione di un trust, quando tali atti risultano essere stati effettuati per l’esclusiva finalità della sottrazione dei beni alla procedura di riscossione coattiva. Pertanto, si palesa correttamente la costituzione di strumenti tali da evidenziare la sottrazione fraudolenta di cui all’art. 11 del Decreto Legislativo 10 marzo 2000 n. 74, quale reato di pericolo, da valutare secondo un giudizio ex ante ed a prescindere dalla sussistenza di una procedura di riscossione in atto.
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 29/5/2015, la Corte di appello di Torino confermava la pronuncia emessa il 13/1/2015 dal Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, con la quale G.P. era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 11, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74 e condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione; allo stesso era contestato di aver alienato – simulatamente, alla propria figlia B. – il 50% della quota di partecipazione nella “B.I.I. s.r.l.”, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi, sul valore aggiunto, agli interessi ed alle sanzioni dovute. In Torino, il 7/2/2012.
2. Propone diffuso ricorso per cassazione il P., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi, così sintetizzati:
– erronea applicazione dell’art. 11 contestato; mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna pur difettando i presupposti di cui alla norma in esame, e con argomento ampiamente censurabile; in particolare, 1) l’asserita assenza di giustificazione al negozio in oggetto risulterebbe apodittica ed inconferente; 2) l’atto non avrebbe rivestito alcun carattere fraudolento o simulato, come affermato in sentenza, rientrando invece in un complessivo – oltre che lecito e tutt’altro che anomalo – progetto di riorganizzazione del patrimonio familiare, volto ad assicurare alla figlia un sostegno economico ed un futuro professionale; 3) l’inadeguatezza della somma corrisposta, pari a 10.000,00 euro, risulterebbe affermata in termini meramente assertivi, e senza alcuna valutazione dell’eventuale situazione debitoria della s.r.l.; 4) in ogni caso, la Corte non avrebbe neppure affermato – né tantomeno dimostrato – che alla cessione delle quote fosse seguita una gestione delle stesse ancora da parte del solo ricorrente, quel che sarebbe risultato necessario per confermare il carattere simulato e fraudolento dell’atto. Ancora, la sentenza avrebbe riconosciuto l’idoneità dell’atto a paralizzare – in tutto o in parte – la procedura di riscossione coattiva con argomento gravemente viziato; al momento della cessione – unico di rilievo nel caso in esame – il debito verso l’Erario ammontava, infatti, a soli 35.000,00 euro (come da sentenza della Commissione tributaria provinciale), quindi ben al di sotto della soglia di punibilità di cui all’art. 11 in esame, pari a 50.000,00 euro. In tal senso, quindi, la Corte di appello avrebbe errato nel far acritico riferimento al debito come originariamente contestato, atteso che – alla data del 7/2/2012 – la somma dovuta risultava di molto inferiore; né, peraltro, il Collegio avrebbe svolto accertamenti ulteriori, volti a quantificare diversamente l’ammontare del debito, così dovendosi arrestare all’importo a quella data accertato, e senza alcun rilievo di eventuali vicende successive. Quanto precede, peraltro, inciderebbe in modo decisivo sul profilo soggettivo del reato, nei termini sia dell’errore sul fatto ex art. 47 cod. pen., sia dell’ignoranza inevitabile di cui all’art. 5 cod. pen., specie a fronte di una pronuncia – quella della Commissione tributaria provinciale – che di certo si apprezzava per l’autorevolezza dell’organo emanante. E senza che abbia alcun peso, in tale contesto, il silenzio eventualmente serbato dal ricorrente, espressione di un diritto di difesa inviolabile;
– inosservanza o erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen.; difetto motivazionale. La sentenza avrebbe negato le circostanze attenuanti generiche con argomenti incongrui ed apodittici, oltre che con travisamento di circostanze fattuali.
In particolare, quanto al trust costituito il 17/5/2012 in favore della figlia, la Corte non avrebbe valutato che la maggior parte dei beni ivi conferiti apparterrebbero alla stessa da epoca ben precedente, sì da non potersi ulteriormente ravvisare alcun intento fraudolento;
– inosservanza o erronea applicazione degli artt. 163, 164 cod. pen.; vizio motivazionale. Il beneficio della sospensione condizionale della pena sarebbe stato negato con argomento del tutto inadeguato e, in particolare, con richiamo ad un precedente procedimento relativo a reato del tutto eterogeneo da quello per cui è processo;
– inosservanza o erronea applicazione dell’art. 1, comma 143, I. 23/12/2007, n. 244 e 322-ter cod. pen.: vizio motivazionale. La Corte di appello avrebbe confermato la confisca dei beni in sequestro senza accertare che questi sono di esclusiva proprietà della figlia B. e di F.B., quale legale rappresentante della “B.I.I.”; quindi, soggetti terzi ed estranei alle condotte, nonché – la figlia – del tutto all’oscuro della situazione debitoria del padre e, di certo, non beneficiaria di un eventuale illecito di cui all’art. 11 in esame.
3. Propongono comune ricorso per cassazione anche B. P. e la B., nella qualità indicata, con duplice censura. Per un verso, si contesta che la Corte di appello – provvedendo sulla richiesta di restituzione dell’immobile in sequestro, avanzata dalle stesse – si sarebbe pronunciata nella sola sentenza in esame, non già con un’ordinanza, e pertanto con provvedimento abnorme, non essendo le ricorrenti legittimate all’impugnazione della pronuncia di merito d’appello, emessa nei confronti del solo G.P.. Per altro verso, poi, si contesta il merito del provvedimento di diniego, assumendo che il bene dovrebbe esser restituito alle ricorrenti, attesane l’estraneità agli eventuali illeciti contestati in sede penale.
4. Preliminarmente, deve esser dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto dalla P. e della B., quale amministratore unico della “B.I.I. s.r.l.”..
Ed invero, le stesse ben avrebbero potuto impugnare il provvedimento con il quale la Corte di merito ha rigettato l’istanza di revoca del sequestro e restituzione del bene, ma ciò soltanto attraverso un appello cautelare ai sensi dell’art. 322-bis cod. proc. pen.; sebbene contenuto all’interno della sentenza, infatti, il decisum medesimo riveste per certo il carattere dell’autonoma ordinanza (anche alla luce dell’estensione del contraddittorio operata, a tale riguardo, dalla Corte di appello all’udienza del 29/5/2015), sì da seguire la disciplina dei gravami propria della materia. E senza che, pertanto, possa rilevarsi l’abnormità del provvedimento in esame, nei termini denunciati, atteso che nessuna stasi processuali risulta ravvisabile proprio alla luce del possibile esperimento di un appello (avverso l’ordinanza, emessa su istanza delle ricorrenti), in luogo di un ricorso per cassazione (avverso la sentenza, emessa su appello di altro soggetto) non consentito.
5. Del pari inammissibile, poi, è il gravame del P.; al riguardo, peraltro, osserva la Corte che tutte le doglianze proposte in questa sede risultano già avanzate innanzi al Collegio di merito, e da questo risolte con motivazione particolarmente efficace, fondata su risultanze istruttorie oggetto di analisi e composizione più che logica, oltre che priva di qualsivoglia contraddizione o violazione di legge; come tale, quindi, non censurabile in questa sede.
In particolare, la sentenza di appello ha individuato plurimi e concreti elementi a conferma dell’ipotesi accusatoria, tali da far concludere – al di là di ogni ragionevole dubbio – che la cessione del proprio 50% di quote della “B.I.I. s.r.l.”, effettuata dal ricorrente in favore della figlia, fosse stata dettata da un’esclusiva finalità, non consentita, quale la sottrazione delle stesse alla procedura di riscossione coattiva che il P. avrebbe verosimilmente patito da lì a poco.
6. In primo luogo, la Corte di appello ha riscontrato l’assenza di una qualsivoglia ratio lecita sottesa all’operazione medesima, risultata priva di giustificazione con riguardo sia al cedente che alla cessionaria; nello specifico, il riferimento – di cui al contratto – alla partecipazione societaria quale “strumento dell’attività professionale svolta” dalla figlia è risultato meramente assertivo e generico, soprattutto in considerazione del fatto che B. P., all’epoca, non svolgeva alcuna attività e non disponeva di alcun reddito, risultando soltanto titolare di un partita i.v.a. dall’aprile 2011. Ancora, la necessità di provvedere alla “riorganizzazione” del patrimonio familiare del ricorrente, parimenti indicata quale fondamento del negozio, è emersa come meramente tautologica e priva di effettivo contenuto, né è stata ulteriormente specificata in questa sede, laddove il ricorrente si è limitato a ribadire quanto già sostenuto in fase di merito. Da ultimo, e sempre sotto tale profilo, la Corte ha quindi richiamato il trust istituito a favore (ancora) della figlia, il precedente 17/5/2011, nel quale erano confluiti tutti i beni e le quote societarie acquisite dalla stessa negli anni precedenti (quel che, dunque, il Collegio ha verificato, contrariamente all’assunto del ricorrente); orbene, anche tale atto – pur estraneo alla rubrica – è stato interpretato dalla Corte di merito come indizio di una più ampia strategia di formale spossessamento dei propri beni (alla quale partecipa anche la cessione qui in esame), evidenziata, in uno con quanto precede, dallo scopo attribuito al trust medesimo – “la creazione di un patrimonio finalizzato alla cura dei propri figli ed eventualmente di una adeguata istruzione dei propri nipoti”, definito congruamente in sentenza come «quanto mai lungimirante, posto che non risulta che la P. avesse figli e tantomeno nipoti».
Si da emergere – quale unico fine dell’atto di cessione di quote – la volontà di rendere inattaccabili ai creditori i beni conferiti nel medesimo istituto (come peraltro confermato all’art. 3 dello stesso); e senza che rilevino, sul punto, le deduzioni di cui al presente ricorso, poiché ancora fondate sui medesimi argomenti – meramente formali – già sottoposti alla Corte di appello.
Non solo.
7. Contrariamente a quanto sostenuto nell’odierno gravame, il Collegio di merito ha quindi proceduto anche ad un’attenta verifica dell’atto di cessione in sé, pervenendo alla logica e non viziata conclusione che lo stesso avesse costituito lo strumento della sottrazione fraudolenta di cui all’art. 11 contestato; pacificamente inteso, questo, quale reato di pericolo, da valutare secondo un giudizio ex ante ed a prescindere dalla sussistenza di una procedura di riscossione in atto (per tutte, Sez. 3, n. 35853 dell’11/5/2016, Calvi, Rv. 267648; Sez. 3, n. 36290 del 18/5/2011, Cualbu, Rv. 251076).
In particolare, la sentenza ha sottolineato che la cessione del 50% delle quote era stata effettuata per il modesto importo di 10.000,00 euro, sebbene la società “B.F. Immobiliare” fosse proprietaria di immobili stimati, complessivamente, in oltre 360.000 euro. Al riguardo, osserva peraltro il Collegio che se è vero – come afferma il ricorrente – che tale rapporto non è sufficiente per verificare la congruità del prezzo, dovendosi accertare anche la consistenza debitoria della società, è altresì vero – come ancora sostenuto dalla Corte – che «non emerge affatto che la B.P. versasse in condizioni economiche squilibrate né che avesse registrato perdite».
La prova di tali ultime circostanze, peraltro, avrebbero dovuto costituire onere difensivo, giammai adempiuto, non certo verifica da svolgere anche ex officio, come invece dedotto con il presente ricorso. Ancora sul punto, la sentenza ha poi valorizzato che la cifra pattuita risultava, dall’atto, già versata alla cessionaria; ciò che – privo di ogni conferma ed in uno con la formale assenza di qualsivoglia reddito in capo a B. P. – ha dunque ulteriormente contribuito a sostenere la tesi che quest’ultima, in verità, non avesse versato alcunché e che il negozio fosse stato sostenuto esclusivamente dal fine fraudolento per cui è giudizio (non già, quindi, una ordinaria “successione tra padre e figlia nella gestione di una società” o una “liberalità indiretta”, come invece si afferma nel ricorso). Sì da confermare il dolo specifico proprio della condotta, costantemente richiamato anche dalla giurisprudenza di questa Corte (per tutte, Sez. 3, n. 27143 del 22/4/2015, Noviello, Rv. 264187).
8. Ancora proseguendo nell’analisi della sentenza impugnata, alla luce delle contestazioni qui mosse, rileva poi la Corte che risulta adeguatamente verificata anche l’idoneità dell’atto a rendere inefficace la riscossione coattiva del debito tributario. In particolare, la pronuncia ha sottolineato che il P. non era titolare di alcun reddito o patrimonio – diverso da quello ceduto – sufficiente a far fronte al debito tributario; l’analisi delle giacenze di conto corrente, compiuta in sede di merito e qui non contestata, aveva infatti evidenziato la presenza di soli 3.500,00 euro circa, come tali del tutto insufficienti a fronteggiare un’eventuale (anzi, certa) procedura.
Un atto, quindi, che i Giudici di merito hanno ancora congruamente individuato come strumento fraudolento ex art. 11 in esame; e senza che rilevi, come invece assume il ricorrente, che l’istruttoria non avrebbe dimostrato che il ricorrente avesse continuato a gestire le quote cedute, successivamente al febbraio 2012, atteso che tale elemento – non necessario e non menzionato nella norma – non avrebbe comunque aggiunto alcunché di decisivo al compendio probatorio.
9. Particolare sforzo motivo, poi, è stato riservato dalla sentenza all’elemento soggettivo del reato, ampiamente ripreso anche nel presente ricorso: con il quale, si ribadisce, il P. contesta di aver effettuato la cessione allorquando – giusta sentenza della Commissione provinciale tributaria – il debito effettivo ammontava a 35.000 euro e, quindi, in assenza di dolo o, al più, in presenza di un errore sul fatto o di un’ignoranza scusabile, perché inevitabile.
Orbene, anche tali profili sono stati congruamente verificati dalla Corte di merito, sì da non meritare censura.
10. Quanto all’effettiva consistenza del debito erariale, ed alla consapevolezza dello stesso in capo al ricorrente, la sentenza ha sottolineato che la notevole decurtazione operata dalla Commissione provinciale non poteva ritenersi dato acquisito e definitivo, essendo pacifica la proposizione dell’appello da parte della Agenzia delle Entrate; sicché il P. – alla data della cessione delle quote – non poteva avere alcuna certezza che l’importo così determinato sarebbe risultato, in via definitiva, l’importo dovuto, dovendo per contro attendere – in via prudenziale – il secondo grado di giudizio. Fissato, peraltro, a soli quattro mesi dall’atto, quindi imminente. Dal che una conferma ulteriore all’ipotesi accusatoria, individuata in sentenza proprio nel timore che la Commissione regionale potesse ribaltare o, comunque, peggiorare, la prima decisione. E senza considerare, peraltro, che – tenuto conto delle sanzioni e degli interessi dovuti sulla somma calcolata (dalla Commissione provinciale) – l’imposta evasa come accertata dalla prima sentenza tributaria e le sue maggiorazioni avrebbero comunque comportato un’imposizione superiore a quella dedotta (oltre che, sotto diverso profilo, il superamento della soglia di cui all’art. 11, d. Igs. n. 74 del 2000); quel che la sentenza afferma con sicuri riferimenti normativi, ed il ricorso non contesta affatto. In forza di quanto precede, dunque, non può condividersi la tesi del ricorrente secondo la quale la Corte di appello sarebbe caduta in un «grosso equivoco», ossia non considerare quale fosse l’effettiva consistenza del debito alla data della cessione delle quote; ed invero, proprio la prossimità del giudizio di appello – ben conosciuta dal Pontonero – avrebbe imposto di soprassedere all’atto in attesa della seconda pronuncia, sì da colorare nella sola ottica dell’imputazione la scelta, invece, di procedere presto all’atto medesimo. Né, infine, rileva che – ad oggi, come affermato nel gravame – il debito non sia stato accertato nel suo esatto ammontare, pendendo ancora il giudizio tributario; la natura di reato di pericolo – propria dell’art. 11, d. Igs. n. 74 del 2000 – priva infatti l’assunto di ogni effettivo rilievo.
Ancora sotto tale profilo, infine, la sentenza ha poi richiamato anche i successivi accertamenti tributari (relativi agli anni 2004, 2005 e 2006), evidenziando che, se è vero che gli stessi erano stati notificati al ricorrente solo in epoca successiva alla cessione in esame, è altresì certo che prendevano origine da autodichiarazioni – non seguite dal relativo versamento – effettuate dal P. in tempi precedenti all’atto; sì da rendere oltremodo probabile, già al febbraio 2012, che ulteriori esposizioni verso l’Erario sarebbero presto emerse a suo carico.
11. In forza di tali considerazioni, dunque, la sentenza ha escluso ogni possibile intervento dell’art. 47, comma 3, cod. pen. o dell’art. 5 cod. pen., evidenziando, quanto al primo, che le norme di diritto tributario comunque integrano i precetti penali previsti dalla normativa penale fiscale e, quanto al secondo, che la sola decisione della Commissione tributaria provinciale non avrebbe mai potuto indurre un errore scusabile, essendo – si ribadisce – certa e conosciuta l’imminente celebrazione del giudizio di appello.
Il motivo in punto di responsabilità, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
12. Alle medesime conclusioni, poi, perviene la Corte anche con riguardo ai successivi, in tema di trattamento sanzionatorie.
In ordine, innanzitutto, alle circostanze attenuanti generiche, osserva il Collegio che, nel motivarne il diniego, non è necessario che il Giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (per tutte, Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899);
– orbene, la sentenza di appello ha fatto buon governo di tale principio, richiamando sul punto plurimi fattori, quali: a) l’irrilevanza dell’incensuratezza (da “leggere”, peraltro, come dato meramente formale, anche alla luce di una condanna ad 1 anno e 4 mesi di reclusione per il delitto di riciclaggio «nell’ambito di una indagine connessa a reati di criminalità organizzata»); b) la “disinvoltura” con la quale il P. ha impiegato istituti giuridici a fini «quantomeno opachi». E senza che, al riguardo, possa ulteriormente valutarsi – come invece richiede il ricorrente – la pronuncia favorevole della Commissione provinciale tributaria, che avrebbe inciso nell’ottica dell’art. 133, comma 1, cod. pen., o l’effettivo contenuto del trust e dell’epoca dei relativi conferimenti.
13. Negli stessi termini, poi, risulta congruamente motivato il diniego della sospensione condizionale della pena, con riguardo al quale, peraltro, la censura qui proposta risulta meramente assertiva; oltre a citare una presunta eterogeneità del reato riconosciuto (ad oggi) con la precedente pronuncia, rispetto a quello qui in esame, che questa Corte non può valutare nella fase di legittimità e che, comunque, ha costituito uno degli argomenti adeguatamente impiegati per formulare una prognosi non favorevole sulle future condotte del Pontonero.
14. Da ultimo, la confisca.
Ebbene, con riguardo a tale doglianza rileva il Collegio che il ricorrente risulta sprovvisto di qualsivoglia legittimazione, attesa la palese carenza di interesse; lo stesso, infatti, esordisce sul punto affermando che i beni sottoposti a vincolo sarebbe «di proprietà esclusiva di terze persone, in particolare P. B. e di B.F.», con la conseguenza che solo tali soggetti sarebbero legittimati a proporre istanza di restituzione di quanto sottoposto a confisca.
15. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.