CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2018, n. 959
Tributi – Accertamento – Indagini della G.d.F. in cooperazione con uffici finanziari ed indagini – Garanzie rispettivamente applicabili – Utilizzazione delle acquisizioni delle indagini
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 89 del 13 maggio 2010 la Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva parzialmente l’appello proposto dalla S.I.M.C.A.R. (…) s.r.l. avverso la statuizione di primo grado che aveva respinto, previa riunione, i ricorsi proposti dalla predetta società contribuente avverso gli avvisi di accertamento con cui l’amministrazione finanziaria, sulla scorta delle risultanze di un processo verbale di constatazione del 6/04/2007, aveva recuperato a tassazione, ai fini IVA, IRPEG ed IRAP, relativamente agli anni di imposta dal 2003 al 2006, costi ritenuti non deducibili perché relativi ad operazioni commerciali effettuate con società c.d. cartiere.
1.1. I giudici di appello ritenevano utilizzabili ai fini fiscali le risultanze degli accertamenti della G.d.F. anche se effettuati nell’esercizio di attività di polizia giudiziaria ed in violazione delle garanzie difensive previste dal codice di procedura penale; che l’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000 non consentiva di invalidare l’avviso di accertamento emesso in violazione della citata disposizione; che l’atto impositivo, pur facendo riferimento ad attività ispettive condotte nei confronti di altre società, conteneva «una precisa e specifica ricostruzione degli elementi di fatto» accertati a carico di tali società, così da consentire alla contribuente di avere piena conoscenza delle ragioni dell’accertamento; che la documentazione prodotta dalla società contribuente dimostrava l’effettività dei rapporti commerciali intercorsi con alcune delle società terze verificate, così da doversi escludere la natura di cartiere delle stesse, riconoscendosi i costi relativi a dette operazioni commerciali.
2. Avverso tale statuizione la società propone ricorso per cassazione affidato a sette motivi, cui replica l’intimata con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 178, primo comma, lett. c), cod. proc. pen., 220 disp. att. cod. proc. pen., 70, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973, 75, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, 24, secondo comma, Cost. «per avere il giudice di appello ritenuto legittimi gli avvisi di accertamento emessi sulla base delle risultanze del PVC della Guardia di Finanza che erano da ritenere inutilizzabili, avendo i militari verbalizzanti proceduto alle verifica fiscale senza la presenza ed assistenza del difensore una volta accertate violazioni di carattere penale».
2. Il motivo è infondato in quanto si pone in contrasto con l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui «non esiste […] nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite.
Tale principio è stato introdotto nel “nuovo” codice di procedura penale, e vale, ovviamente, soltanto all’interno di tale specifico sistema procedurale (v. art. 191 c.p.p.)», con la conseguenza che «l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso» (cfr. Cass. n. 8344 del 2001; conf. Cass. n. 13005 del 2001, n. 1343 e n. 1383 del 2002, n. 1543 e n. 10442 del 2003). Si è quindi precisato che «in tema di accertamenti tributari, nelle indagini svolte, ai sensi degli artt. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 52 e 63 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la guardia di finanza che, cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni, verifiche, ricerche ed acquisizione di notizie, ha l’obbligo di uniformarsi alle dette disposizioni, sia quanto alle necessarie autorizzazioni che alla verbalizzazione. Tali indagini hanno carattere amministrativo – con conseguente inapplicabilità dell’art. 24 Cost. in materia di inviolabilità del diritto di difesa, essendo applicabili, nella successiva ed eventuale procedura contenziosa, le garanzie proprie di questa – e vanno pertanto considerate distintamente dalle indagini, che la stessa guardia di finanza conduce in veste di polizia giudiziaria, dirette all’accertamento dei reati, con l’osservanza di tutte le prescrizioni dettate dal codice di procedura penale a tutela dei diritti inviolabili dell’indagato. La mancata osservanza di tali prescrizioni, rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide – purché non siano violate le dette disposizioni degli artt. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, e 52 e 63 del d.P.R. n. 633 del 1972 – sul potere degli uffici finanziari e del giudice tributario di avvalersene a fini meramente fiscali, senza che ciò costituisca violazione dell’art. 24 Cost.» (cfr. Cass. n. 8990 del 2007; conf. 18077 del 2010).
3. Al riguardo, precisato che nel caso di specie non è stata dedotta alcuna violazione delle disposizioni appena sopra citate, il Collegio non può esimersi dal rilevare l’inconsistenza delle argomentazioni svolte dalla ricorrente per superare detti principi. Non è, infatti, condivisibile l’affermazione secondo cui l’utilizzazione a fini fiscali della documentazione e degli altri elementi di informazione acquisiti dalla G.d.F. presuppone che tale acquisizione sia avvenuta nel rispetto delle norme del codice di processuale penale, stante il rinvio a tali disposizioni contenuto negli artt. 70 d.P.R. n. 600 del 1973 e 75 d.P.R. n. 633 del 1972. Invero, l’espressa previsione contenuta nelle disposizioni da ultimo citate, in base alla quale l’applicazione delle norme processualpenalistiche «in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni» è contenuta nell’ambito di «quanto non diversamente disposto» dalle disposizioni dei predetti decreti, rende evidente che l’utilizzazione a fini fiscali di dati e documenti acquisiti dalla G.d.F. operante quale polizia giudiziaria è subordinata solo ed esclusivamente al rispetto delle disposizioni dettate dalle norme tributarie (nella specie, gli artt. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, 52 e 63 del d.P.R. n. 633 del 1972), fatti salvi, in ogni caso, i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico, come ad esempio la necessità di preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica, prevista dalle citate disposizioni tributarie, per procedere a determinate attività (accesso presso locali diversi da quelli di esercizio dell’attività del contribuente, perquisizione personale o apertura dei beni elencati al comma 3 dell’art. 52 d.P.R. n. 633 del 1972). Il che rende anche del tutto irrilevante il momento in cui i verificatori abbiano acquisito la notitia criminis.
4. Va quindi affermato il principio secondo cui, in materia di accertamento delle violazioni di carattere tributario e di applicazione delle relative sanzioni, l’utilizzazione a fini fiscali di dati e documenti acquisiti dalla Guardia di finanza è subordinata al rispetto delle disposizioni dettate dalle norme tributarie (nella specie, gli artt. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, 52 e 63 del d.P.R. n. 633 del 1972), anche nell’ipotesi in cui la stessa operi nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria, l’applicazione delle norme processualpenalistiche «in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni» essendo limitata dagli artt. 70 d.P.R. n. 600 del 1973 e 75 d.P.R. n. 633 del 1972 ai soli casi non espressamente disciplinati nei predetti decreti, fatti salvi, in ogni caso, i limiti derivanti da specifiche preclusioni, come ad esempio la necessità di preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica, prevista dalle citate disposizioni tributarie per procedere a determinate attività (accesso presso locali diversi da quelli di esercizio dell’attività del contribuente, perquisizione personale o apertura dei beni elencati al comma 3 dell’art. 52 d.P.R. n. 633 del 1972).
5. Inammissibile è anche il secondo mezzo di impugnazione, con cui la società ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., il vizio di omessa pronuncia del giudice di appello sul motivo di ricorso con cui aveva dedotto l’inutilizzabilità delle risultanze del p.v.c. perché redatto dalla G.d.F. in assenza del legale rappresentante della società contribuente, non assumendo alcuna rilevanza giuridica la sottoscrizione apposta nei verbali di verifica giornaliera e nel p.v.c., in quanto finalizzata ad attestare l’avvenuta consegna di quei verbali.
6. Invero, la domanda di cui la ricorrente lamenta l’omessa pronuncia da parte dei giudici di appello risulta essere stata proposta per la prima volta, e quindi inammissibilmente, con le memorie illustrative depositate in primo grado (in data 6 marzo 2009 – v. pag. 19 del ricorso), per essere poi riproposta, altrettanto inammissibilmente, in grado di appello (v. ricorso, pag. 20), essendosi la ricorrente limitata con il ricorso introduttivo a prospettare la violazione da parte dei verificatori delle disposizioni di cui agli artt. 33 d.P.R. n. 600 del 1973 e 52 d.P.R. n. 633 del 1972 solo ed esclusivamente con riferimento all’inosservanza da parte dei medesimi delle disposizioni del codice di procedura penale in presenza di accertate violazioni di natura penale.
7. Va comunque rilevato che il motivo di impugnazione dell’avviso di accertamento, che la ricorrente sostiene essere stato pretermesso dai giudici di merito, è palesemente infondato e ciò consente, alla stregua del consolidato orientamento nomofilattico di questa Corte (cfr. Cass n. 2313 del 2010, n. 16171 del 2017 e Sez. U. n. 2731 del 2017), di omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata per non avere pronunciato sul motivo di ricorso e decidere la causa nel merito su questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto.
7.1. Al riguardo, infatti, deve osservarsi che, diversamente da quanto sostiene la ricorrente, la sentenza di questa Corte n. 21153 del 2008 non afferma affatto il principio riprodotto a pag. 20 del ricorso (punto 3.d.), leggendosi, nella citata pronuncia, «che la questione della sottoscrizione del PVC è del tutto irrilevante perché la Commissione Tributaria Regionale non ha fondato la sua decisione su tale fatto formale né ha negato il potere dell’Ufficio di utilizzare “atti e notizie acquisiti” dalla Guardia di Finanza “nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria” ma ha semplicemente osservato che si trattava di indagini alle quali il contribuente non aveva preso parte: tanto non integra nessuna violazione di legge perché il giudice, così motivando, non ha interpretato la norma diversamente né la ha applicata a fattispecie dalla stessa non regolata o, comunque, la ha disapplicata a fattispecie dalla stessa regolata».
7.2. In realtà, le disposizioni tributarie in materia sono interpretate da questa Corte nel senso che l’art. 33, sesto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, «non prevede che le operazioni di verifica contabile, accesso, ispezione siano fatte in contraddittorio, ma soltanto che tali operazioni siano compiute “alla presenza di un responsabile della sede o dell’ufficio”», mentre l’art. 52, sesto comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, in materia di IVA, prevede anche «che il verbale debba essere sottoscritto dal contribuente», con la conseguente «legittimità dell’operato della Guardia di Finanza e della pretesa fiscale pur quando il processo verbale di constatazione non sia stato redatto in contraddittorio con il contribuente e da lui sottoscritto», ove si tratti di accertamento ai fini delle imposte dirette, richiedendosi la sottoscrizione solo per gli accertamenti in materia di IVA (cfr. Cass. n. 27060 del 2007).
7.3. Orbene, nella specie è pacifico, perché ammesso dalla stessa ricorrente (ricorso, pag. 19, punto 3.a. del par. 3), che i verificatori della G.d.F., in ossequio al disposto di cui all’art. 12, commi 2 e 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, invitarono il legale rappresentante della società ad assistere alle operazioni di verifica o a farsi rappresentare (v. Cass. n. 19524 del 2011) e che quest’ultimo non accolse l’invito ma appose la sua sottoscrizione in calce al processo verbale di constatazione anche per ritiro dello stesso. E’, quindi, del tutto legittimo l’operato dei verificatori con conseguente legittimità del processo verbale di constatazione e degli avvisi di accertamento che su di esso si fondano.
8. Con il terzo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, e contestualmente, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine alla questione della legittimità degli avvisi di accertamento impugnati affermata dai giudici di appello nonostante l’amministrazione finanziaria non avesse dato risposta alle “osservazioni e richieste” di essa società contribuente, sul rilievo che la citata disposizione non prevede, per tale violazione, alcuna sanzione.
9. Il motivo è inammissibile sotto diverse convergenti ragioni, la prima delle quali – anche a voler soprassedere sulla difficile comprensibilità delle argomentazioni svolte nel mezzo in esame – va ravvisata nella simultanea deduzione di più vizi tra quelli denunciagli ex art. 360 cod. proc. civ. tra loro così inestricabilmente accomunati nell’esposizione da non consentire e, comunque, da rendere assai difficoltoso – anche alla stregua di quella mancanza di chiarezza delle argomentazioni sviluppate nel motivo in esame, di cui si è detto sopra – individuare le questioni riconducibili all’uno o all’altro dei due vizi dedotti (in tal modo precludendo l’applicazione del principio espresso dalle Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 9100 del 2015), non essendo «ricompreso nel compito di nomofilichia assegnato al Giudice di legittimità anche la individuazione del vizio in base al quale poi verificare la legittimità della sentenza impugnata, come emerge dal combinato disposto degli artt. 360 e 366 co. 1 n. 4 c.p.c. che riservano in via esclusiva tale compito alla parte interessata» (cfr. Cass. n. 18242 del 2003 e n. 4610 del 2016).
9.1. La seconda ragione di inammissibilità va ravvisata nel difetto di autosufficienza del motivo, proposto in violazione dell’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. È principio costantemente affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 14784 del 2015, n. 26489, n. 19306 e n. 14541 del 2014) che in base alla citata disposizione processuale – che prevede che «il ricorso deve contenere a pena di inammissibilità […] la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda», che ha codificato il principio di autosufficienza, nel ricorso devono essere presenti tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. Cass. n. 15952 del 2007). Si è perciò di nuovo ricordato che la disposizione di cui all’art. 366 c.p.c., primo comma, n. 6, impone di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, “gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso si fonda mediante riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura, oppure attraverso una riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione” (cfr. Cass. n. 1142 del 2014).
9.3. La circostanza che la ricorrente non si sia attenuta ai suddetti principi emerge con evidenza dal fatto che il vaglio di fondatezza della censura presuppone l’esame e, quindi, la conoscenza del contenuto degli atti cui si fa riferimento nel motivo di ricorso, ovvero delle motivazioni degli avvisi di accertamento e del contenuto essenziale delle osservazioni presentate dalla contribuente ai sensi dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, che la ricorrente, al fine di evitare che il mezzo di impugnazione proposto non incorresse nel rilevato vizio, avrebbe dovuto trascrivere nelle parti rilevanti, così da mettere questa Corte – cui non è consentito, in relazione ai vizi denunciato (error in iudicando e vizio motivazionale) l’accesso agli atti del giudizio di merito – nelle condizioni di effettuare le opportune valutazioni.
10. Il motivo di cassazione in esame è, in ogni caso, anche infondato.
10.1. Come affermato da questa Corte in caso analogo, con argomentazioni che il Collegio condivide a alle quali intende dare continuità, «la legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 12 (Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali) prevede, al comma 7, prima parte, che “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori”; la seconda parte prosegue chiarendo che “l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”. Come emerge dalla stessa lettura della prima parte del comma 7 – e dal raffronto con il tenore più perentorio della seconda parte, per la quale invece, all’esito di tanto complessa quanto nota evoluzione giurisprudenziale, si è pervenuti a conclusione opposta – all’obbligo dell’amministrazione finanziaria di “valutare” le osservazioni del contribuente (cui l’imposizione del termine dilatorio, questa sì a pena di nullità, è strumentale) non si aggiunge l’ulteriore obbligo di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo, a pena di nullità» (cfr. Cass. n. 3583 del 2016, p. 4.2; conf. Cass. n. 8378 del 2017). «Invero, sulla questione dell’omessa considerazione, nell’atto impositivo, delle osservazioni formulate dal contribuente, questo Collegio non intende discostarsi dall’approdo per cui “non tutte le irregolarità possono dar luogo a nullità, ma soltanto quelle così sanzionate dalla legge, ovvero quelle che, anche in difetto di una comminatoria espressa, sono talmente lesive di specifici diritti o garanzie da impedire la produzione di qualsiasi effetto da parte dell’atto cui ineriscono” (Cass. n. 4324 del 2011; conf. n. 28764 del 2005; cfr. Cass. n. 4624 del 2008, relativa ad ipotesi in cui l’amministrazione è invece esplicitamente obbligata a tener conto dell’esito del contraddittorio con il contribuente, in tema di applicazione dei coefficienti e parametri presuntivi di reddito derivanti dal c.d. redditometro, a fronte di puntuali e dettagliate deduzioni difensive presentate dal contribuente a seguito della relativa richiesta di chiarimenti). Non ricorrendo nella fattispecie in esame né il presupposto formale, né quello sostanziale per la comminatoria della sanzione di nullità, deve concludersi che la sentenza impugnata non abbia violato le disposizioni di legge suddette nel rigettare la corrispondente eccezione, ritenendo implicitamente respinte le osservazioni che la parte era stata abilitata a svolgere, nel termine dilatorio pacificamente rispettato dall’amministrazione» (Cass. sent. cit., p. 4.4). In buona sostanza, una conferma del principio di irrilevanza come nullità della mancanza nell’avviso di accertamento di traccia di valutazione delle osservazioni del contribuente la si ricava dalla stessa lettura della disposizione di cui all’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000. Infatti, tale norma esprime certamente la previsione di una nullità con il disposto sul “non potere” l’amministrazione finanziaria, prima del termine dilatorio ivi stabilito, emettere l’atto impositivo e, poiché solo per il termine di emissione dell’atto la procedimentalizzazione è considerata come obbligatoriamente da rispettare, per argomentato a contrario, le altre previsioni procedimentali non possono esserlo.
11. A quanto detto deve, infine, aggiungersi che non corrisponde al vero la circostanza, affermata dalla ricorrente, che la CTR avrebbe ritenuto «indebitamente emesso» l’atto impositivo impugnato, che è valutazione che non è dato cogliere dalla frase da cui la ricorrente ha estrapolato dette parole, in cui invece si afferma da parte dei giudici di appello che la disposizione di cui all’art. 12, comma 7, legge 212 del 2000 «rappresenta un richiamo all’Amministrazione Finanziaria ad attenersi al principio di cooperazione con il contribuente, ma non prevede che l’atto impositivo indebitamente emesso sia di per sé nullo».
12. Con il quarto motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., l’omessa pronuncia del giudice di merito sulla domanda di illegittimità degli avvisi di accertamento perché «viziati di “eccesso di potere”» e perché con gli stessi l’amministrazione finanziaria aveva proceduto al recupero dei soli costi ritenuti fittizi senza tenere conto dei ricavi ritenuti anch’essi fittizi.
13. Con il quinto motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., l’omessa pronuncia del giudice di merito sull’eccezione di nullità degli avvisi di accertamento in quanto privi della indicazione, nella parte motivazionale degli stessi, dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che li avevano determinati.
14. Con il sesto motivo la ricorrente deduce, sempre in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., l’omessa pronuncia del giudice di merito sulla eccepita nullità degli avvisi di accertamento perché fondati su presunzioni non qualificate, oltre che per violazione dell’art. 42, secondo comma d.P.R. n. 600 del 1973 e per violazione del diritto di difesa.
15. I suddetti motivi sono tutti infondati e vanno rigettati in quanto la circostanza che la CTR abbia ritenuto legittimo gli atti impositivi impugnati e pronunciato nel merito delle questioni dedotte dalla ricorrente, costituisce implicito rigetto dei motivi di appello che la contribuente sostiene essere stati pretermessi (cfr., in tema di infondatezza del vizio di omessa pronuncia in ipotesi di sussistenza di una statuizione implicita di rigetto, Cass. n. 16788 del 2006, n. 20311 del 2011, n. 3417 del 2015, n. 1360 del 2016).
16. Con il settimo mezzo di impugnazione la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza impugnata per contrasto tra dispositivo e motivazione, nonché per omessa pronuncia dei giudici di appello sulla legittimità della deduzione dei costi e della detrazione della corrispondente imposta sul valore aggiunto.
16.1. Sostiene la ricorrente che nella motivazione della sentenza impugnata la CTR, accogliendo parzialmente i motivi di impugnazione degli avvisi di accertamento, aveva affermato che gli importi su cui liquidare le imposte, IVA compresa, era pari alla «differenza tra l’ammontare dell’accertato e dei costi da considerarsi deducibili come riepilogati da parte contribuente a pag. 94 dell’appello», ma nel dispositivo i giudici di appello avevano utilizzato la parola «reddito», in tal modo ingenerando «nel difensore forti dubbi sugli effetti del giudicato e sulla liquidazione delle imposte» (ricorso, pag. 54).
17. Il motivo è infondato.
18. Invero, premesso che «il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione – che dà luogo a vizio di nullità della sentenza da far valere mediante impugnazione e, in difetto della quale prevale il dispositivo – presuppone che non vi sia alcuna coerenza tra i due atti, sicché va escluso quando sussista una parziale coerenza tra dispositivo e motivazione e si possa escludere che il contrasto sia l’esito di un ripensamento sopravvenuto» (Cass. n. 27880 del 2008), la ricorrente nel motivo in esame prospetta una difficoltà interpretativa del dispositivo della sentenza impugnata, per l’utilizzo in esso del termine “reddito”, che non consente di far ritenere configurabile un contrasto tra il dictum giudiziale e la sua motivazione, l’effettiva volontà del giudice potendo agevolmente trarsi dalla loro combinazione, risultando evidente che nella rideterminazione del maggior reddito (analiticamente indicato nel dispositivo per ciascun anno di imposta accertato) non si possa prescindere dal considerare ai fini IVA anche i costi «da considerarsi deducibili come riepilogati da parte contribuente a pag. 94 dell’appello», potendo essere recuperati a tassazione solo gli importi «che si evincono dalla differenza tra l’ammontare dell’accertato e dei [predetti] costi». Il che rende infondata anche la censura di omessa pronuncia, pure prospettata nel mezzo di cassazione in esame.
19. Conclusivamente, quindi, il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento in favore della controricorrente delle spese processuali liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 17.400,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
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