CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 ottobre 2017, n. 24437
Cartella esattoriale – Contributi Inps dovuti per Cigo, Cigs e mobilità – Società per azioni a prevalente capitale pubblico – Esercizio di attività industriali – Esenzione già stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici – Non sussiste
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 2.12.2013, la Corte d’appello di Bologna confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da E. s.p.a. (poi fusa per incorporazione in I. s.p.a.) avverso la cartella esattoriale con cui le era stato richiesto di pagare all’INPS somme dovute a titolo di contributi dovuti per cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria nonché per mobilità dei dipendenti con qualifiche di operai, impiegati e quadri, oltre accessori.
Contro tale statuizione ricorre I. s.p.a. (già IR. s.p.a.), deducendo due motivi di censura, illustrati con memoria.
L’INPS, anche quale mandatario di S.C.C.I. s.p.a., resiste con controricorso, parimenti illustrato con memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo e il secondo motivo di censura, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 1°, d.I.C.p.S. n. 869/1947, dell’art. 2, I. n. 1115/1968, dell’art. 1, I. n. 474/1972, dell’art. 1, I. n. 164/1975, dell’art. 4, I. n. 270/1988, dell’art. 22, I. n. 142/1990, dell’art. 113, T.U. n. 267/2000, dell’art. 35, I. n. 448/2001, dell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 158/1995, dell’art. 3, comma 28, d.lgs. n. 163/2006, dell’art. 2, d.lgs. n. 333/2003, dell’art. 20, comma 2, I. n. 133/2008, degli artt. 2112 e 2359 c.c., e dell’art. 16, commi 1-2, I. n. 223/1991, nonché violazione dell’art. 115 c.p.c. e motivazione illogica e insufficiente su un punto decisivo della controversia, per avere la Corte territoriale ritenuto che la società opponente, avendo natura di società per azioni a prevalente capitale pubblico, non potesse essere esentata dal pagamento dei contributi dovuti per cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria nonché per mobilità dei dipendenti con qualifiche di operai, impiegati e quadri, come invece le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato.
I motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati.
Giudicando su fattispecie affatto sovrapponibile alla presente, questa Corte ha infatti avuto modo di ribadire che, anche successivamente all’entrata in vigore dell’art. 35, I. n. 448/2001, dell’art. 3, comma 28, d.lgs. n. 163/2006, e dell’art. 20, comma 2, d.l. n. 112/2008 (conv. con I. n. 133/2008), le società per azioni a prevalente capitale pubblico aventi ad oggetto l’esercizio di attività industriali sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l’esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata, finalizzate all’erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione pur maggioritaria da parte dell’ente pubblico (Cass. nn. 20818 e 20819 del 2013).
Resta da aggiungere che le suesposte conclusioni non possono essere scalfite né dall’art. 10, d.lgs. n. 148/2015, il quale – per quanto qui interessa – ha espressamente previsto l’assoggettamento alla cassa integrazione (e alla relativa contribuzione) delle imprese industriali aventi ad oggetto la «produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas», dal momento che la sua natura innovativa rispetto al quadro ordinamentale già esistente è già stata espressamente disconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. in tal senso Cass. nn. 9816 del 2016, 26016 e 26202 del 2015), né a fortiori dall’art. 1, comma 309, I. n. 208/2015, il quale, nel far salvo dal novero delle abrogazioni previste dall’art. 46, d.lgs. n. 148/2015, l’art. 3, d.I.C.p.S. n. 869/1947 (a norma del quale «sono escluse dall’applicazione delle norme sulla integrazione dei guadagni degli operai dell’industria […] le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato»), ha semmai confermato la voluntas legis di escludere dall’area di operatività delle disposizioni concernenti l’integrazione salariale soltanto quei soggetti che possano qualificarsi come “imprese industriali dello Stato o di altri enti pubblici”, tra le quali, per le ragioni anzidette, non possono figurare le imprese gestite in forma di società a partecipazione pubblica (così Cass. nn. 7332 e 8704 del 2017, dove il richiamo a Cass. S.U. nn. 26283 del 2013 e 5491 del 2014).
Va invece dichiarata inammissibile la doglianza concernente la violazione e falsa applicazione dell’art. 116, I. n. 388/2000, per non avere la Corte territoriale provveduto a ridurre le somme aggiuntive in applicazione dei commi 8 e/o 15 dell’art. cit., in considerazione delle sovrapposizioni normative e dei contrasti di giurisprudenza: è sufficiente sul punto rilevare che essa è stata prospettata per la prima volta con la memoria depositata ex art. 378 c.p.c., disattendendo il principio di diritto secondo cui, poiché le memorie di cui all’art. 378 c.p.c. sono destinate esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l’atto di costituzione ed a confutare le tesi avversarie, non è possibile per loro tramite specificare od integrare, ampliandolo, il contenuto di argomentazioni che non siano state adeguatamente prospettate o sviluppate con l’atto introduttivo, risultandone altrimenti violato il diritto di difesa della controparte (Cass. S.U. n. 11097 del 2006).
Il ricorso, conclusivamente, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in favore dell’INPS come da dispositivo. Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono inoltre i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 4.200,00, di cui € 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.