Tributi – IRPEF – Redditi di impresa – Determinazione – Criteri di imputazione temporale dei corrispettivi di prestazioni di servizi – Distribuzione dell’onere della prova
Fatti di causa
1. A seguito di verifica fiscale generale effettuata dalla G.d.F. nei confronti della C.A. s.r.l. in relazione agli anni di imposta 1999 e 2000, da cui emergevano maggiori ricavi derivanti dalla vendita di autovetture nuove e da lavori di riparazione effettuati in garanzia, nonché plusvalenze non dichiarate in relazione alla vendita di autovetture aziendali utilizzate a fini dimostrativi ed infine costi e minusvalenze non deducibili, la competente Agenzia delle entrate emetteva due avvisi di accertamento ai fini IVA, IRPEG ed IRAP impugnati dalla predetta società contribuente dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento, che li annullava.
2. Ricorreva in appello l’Agenzia delle Entrate e la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, con sentenza n. 84 dell’ 11 settembre 2009, riuniti i ricorsi, accoglieva parzialmente l’appello dell’Amministrazione finanziaria ritenendo, con riferimento alla ripresa a tassazione di maggiori ricavi derivanti dalla vendita di autovetture nuove, che dai contratti di finanziamento risultava un prezzo di vendita della autovetture diverso da quello fatturato e che la società contribuente era tenuta a fatturare l’intero prezzo della auto vendute, senza poter decurtare il valore delle auto usate avute in permuta, mentre confermava il rigetto della ripresa a tassazione di maggiori ricavi derivanti dalle riparazioni della autovetture in garanzia stante l’incertezza della loro esistenza e determinabilità alla data di chiusura dell’esercizio in cui erano state effettuate.
3. Avverso tale statuizione ricorre per cassazione la società contribuente con due motivi, cui l’Agenzia replica con controricorso e ricorso incidentale affidato ad un motivo.
4. Il Collegio ha autorizzato la redazione della sentenza con motivazione semplificata.
Ragioni della decisione
1. Va preliminarmente rigettata l’eccezione, sollevata dalla controricorrente, di violazione del litisconsorzio necessario processuale per omessa notifica del ricorso per cassazione a C.C., A.C. e D.A., soci della società ricorrente, in quanto gli stessi non risultano aver partecipato ai precedenti giudizi di merito, non essendo peraltro litisconsorti necessari nel giudizio di impugnazione di un atto impositivo emesso nei confronti di una società di capitali (arg. da Cass. n. 2214 del 2011, n. 426 del 2013).
2. Va altresì rigettata l’ulteriore eccezione sollevata dalla controricorrente, di inammissibilità dei motivi di ricorso per omessa formulazione del momento di sintesi in relazione ai dedotti vizi motivazionali, previsto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., abrogato dalla legge n. 69 del 2009, art. 47, comma 1, lett. d), atteso che, in base al tenore della norma transitoria di cui all’art. 58, comma 5, della medesima legge, al regime dei quesiti sono soggetti i ricorsi proposti avverso sentenze pubblicate anteriormente al 4 luglio 2009, ancorché proposti successivamente a tale data (cfr., ex multis, Cass. n. 1221 del 2014; n. 6514 del 2014), mentre la sentenza qui impugnata risulta pubblicata in data 11 settembre 2009.
3. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce, sotto un primo profilo, l’omessa motivazione sulla natura del rapporto scaturente dal ritiro delle auto usate di proprietà dei clienti acquirenti di nuove autovetture, da questi consegnati con rilascio in favore della contribuente di una “procura a vendere”, ma che il giudice di appello aveva erroneamente ricondotto al contratto di permuta di cui all’art. 1552 cod. civ.
3.1. Sotto un secondo profilo lamenta la falsa applicazione di norme di diritto sostenendo <che la “procura a vendere” non è riconducibile alla permuta>, sottoposta a tassazione ai sensi dell’art. 11 d.P.R. n. 633 del 1972, ma è cuna tipica clausola di compensazione convenzionale per il saldo del residuo prezzo della vendita> ex art. 1552, secondo comma cod. civ., che pertanto <sotto il profilo fiscale esula dalla disciplina delle operazioni permutative in senso stretto (data di effettuazione dell’operazione art. 6 e valorizzazione della base imponibile art. 13 comma 2 lett. “d”, del D.P.R. 633/72), ed essendo l’eventuale diversa qualificazione del negozio giuridico di cui si tratta comunque sottoposta all’onere della prova a carico dell’Ufficio accertatore (…), onere non assolto come risulta dai fascicoli del giudizio (così alle pagg. 6 e 7 del ricorso).
4. Il primo profilo del primo motivo di impugnazione è inammissibile per inosservanza dell’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. in quanto, ponendo la questione della natura del rapporto instaurato con gli acquirenti di auto nuove, in relazione alle autovetture usate ritirate dalla società contribuente – se cioè qualificabile come contratto di permuta, piuttosto che come mandato a vendere -, la società ricorrente avrebbe dovuto trascrivere il contenuto della “procura a vendere” che veniva sottoscritto dai clienti, di cui non vi è traccia alcuna nel ricorso, che difetta anche dell’indicazione specifica del se e dove quei documenti siano stati prodotti in questo giudizio di legittimità, con la conseguenza che non è consentita a questa Corte di effettuare la necessaria verifica di fondatezza della doglianza (cfr. Cass. S.U. n. 28547 del 2008, n. 7161 del 2010 e n. 22726 del 2011, nonché Cass. nn. 1142, 26489 e 14541 del 2014, n. 14784 del 2015). In ogni caso il motivo è infondato, perché, se da un lato non sia neanche sostenibile – come fa, invece, la ricorrente – che i giudici di appello abbiano ricondotto quel rapporto nell’ambito del contratto di permuta di cui all’art. 1552 cod. civ., avendo la CTR affermato che la contribuente in tali operazioni commerciali otteneva <da parte dell’acquirente un mandato a vendere per l’autovettura usata> (così a pag. 4 della sentenza impugnata), dall’altro, correttamente la CTR sostiene che, anche in caso di mandato a vendere dell’auto usata ritirata dal cliente, la società contribuente avrebbe dovuto fatturare per intero il prezzo di vendita dell’autovettura nuova, perché in tal caso al momento della vendita di tale auto la concessionaria avrebbe registrato come plusvalenza o minusvalenza< la differenza positiva o negativa> (così a pag. 5 della sentenza impugnata) rispetto al prezzo pattuito con il cliente.
5. Il secondo profilo del primo motivo di censura è anch’esso inammissibile perché la ricorrente omette di specificare le norme di legge di cui lamenta la falsa applicazione, che non indica né nella rubrica, né nel corpo del mezzo di impugnazione, in cui fa un generico quanto equivoco riferimento al d.P.R. n. 633 del 1972, artt. 6 e 13, secondo comma, lett. d), (nella versione anteriore alla modifica apportata dalla l. n. 88 del 2009, art. 24, quarto comma, lett. “b”), nonché alle disposizioni civilistiche sull’onere della prova e cioè a norme di cui non è neanche intellegibilmente spiegata l’incidenza della violazione nella decisione impugnata, così contravvenendo al principio giurisprudenziale secondo cui, <quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbono ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità> (cfr. Cass. n. 635 del 2015; v. anche Cass. n. 828 e n. 15768 del 2007).
6. Incorre nel vizio di autosufficienza anche il secondo motivo di ricorso, con cui la ricorrente deduce l’omessa e insufficiente motivazione della sentenza impugnata laddove i giudici di appello, condividendo la tesi dell’Amministrazione finanziaria, hanno ritenuto che costituisse corrispettivo della vendita di auto effettuata con finanziamento del prezzo da parte di società finanziarie, l’intero importo del finanziamento erogato al cliente, comprensivo, quindi, sia del prezzo dell’auto che degli interessi e delle spese del finanziamento stesso. La ricorrente omette di riportare nel ricorso le parti rilevanti delle fatture di vendita delle auto e dei corrispondenti contratti di finanziamento, idonei a consentire la verifica di fondatezza del denunciato vizio, dovendosi peraltro osservare che la CTR, con motivazione succinta ma sufficiente – tale da rendere anche infondato il denunciato difetto motivazionale – ha accolto la tesi dell’Ufficio finanziario secondo cui il prezzo indicato nei contratti di finanziamento (escluso ogni altro accessorio) non coincideva con l’importo fatturato (v. pag. 3, punto “a” della sentenza impugnata), ciò risultando dalla copia dei contratti di finanziamento prodotti dall’Agenzia delle entrate, in relazione ai quali la contribuente si era limitata a generiche contestazioni sfornite di adeguata dimostrazione.
7. Con il motivo di ricorso incidentale la controricorrente lamenta che la CTR, nel rigettare il motivo di appello proposto con riferimento alla rideterminazione dei ricavi derivanti dai lavori di riparazione effettuati in garanzia, ha violato e falsamente applicato il d.P.R. 917 del 1986, art. 75, primo comma (attualmente art. 109, secondo la diversa numerazione apportata dal d.lgs. n. 344 del 2003), in base al quale i componenti positivi o negativi di reddito di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare vanno imputati all’esercizio in cui si verificano tali condizioni. Sostiene l’Agenzia controricorrente che nel caso di specie la certezza dell’esistenza e l’obiettiva determinabilità dei ricavi derivanti dai lavori di riparazione eseguiti in garanzia – che secondo la non contestata prospettazione di parte ricorrente, dovevano attendere< l’approvazione della “Casa Madre”> (pag. 3 della sentenza impugnata), erano intervenute dopo la data di chiusura dell’esercizio ma prima della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazione in cui la società contribuente avrebbe, pertanto, dovuto inserirli.
8. Il motivo pone la questione delle regole – invero inderogabili sia per il contribuente che per l’amministrazione finanziaria (cfr. Cass. n. 14774 del 15/11/2000, n. 7912 del 2000, n. 17195 del 2006, n. 23987 del 2008, n. 28070 del 2009, n. 2213 del 2011; n. 25282 del 2015) – sull’imputazione temporale dei componenti del reddito d’impresa, dettate dal d.P.R. 917 del 1986, art. 75, nella numerazione vigente ratione temporis (ante riforma del 2004, ora art. 109), secondo cui ricavi, costi e altri oneri concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza, a condizione che la loro esistenza o il loro ammontare siano determinabili in modo oggettivo (dovendo altrimenti essere calcolati nel periodo d’imposta in cui si verificano tali condizioni), mirando a <contemperare la necessità di computare tutte le componenti nell’esercizio di competenza con l’esigenza di non addossare al contribuente un onere troppo difficile da rispettare, va interpretato nel senso che il dovere di conteggiare tali componenti nell’anno di riferimento si arresta soltanto di fronte a quei ricavi ed a quei costi che non siano ancora noti all’atto della determinazione del reddito, e cioè al momento della redazione e presentazione della dichiarazione> (Cass. 19671/2013; conf. n. 3484 del 2014).
8.1. La presunzione legale di imputazione dei corrispettivi conseguiti per prestazioni di servizi all’esercizio di competenza in cui dette prestazioni sono ultimate (art. 75, comma 2, lett. “b”, d.P.R. TUIR, ante riforma del 2004, ma analogamente nell’attuale art. 109) può pertanto essere superata soltanto nell’ipotesi prevista dalla seconda parte del primo comma del citata art. 75, ovverosia nel caso in cui dei predetti corrispettivi «non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obbiettivo l’ammontare», giacché in tal caso, tali corrispettivi concorrono a formare il reddito dell’anno in cui dette condizioni si verificano (d.P.R. citato, art. 75, comma 1).
Ne discende che l’onere della prova tra le parti, ex art. 2697 cod. civ., va ripartita nel senso che all’Ufficio, in sede di accertamento, incombe provare la data in cui si sono verificati i fatti assunti come presunzioni legali di verificazione dei componenti negativi o positivi di reddito (nel caso considerato le date di ultimazione delle prestazioni di riparazione della autovetture in garanzia), così determinando l’esercizio di competenza; al contribuente che abbia registrato i ricavi in un esercizio diverso, spetta provare che solo in tale anno questi sono diventati certi e determinabili nell’ammontare (in tal senso, Cass. n. 25282 del 2015) e che non lo erano al momento della redazione e presentazione della dichiarazione (Cass. 19671/2013; conf. n. 3484 del 2014).
9. L’applicazione di detti principi al caso di specie determina la fondatezza del motivo di ricorso incidentale in quanto, dato per pacifico tra le parti che i ricavi derivanti dai lavori di riparazione eseguiti in garanzia erano divenuti certi ed obiettivamente determinabili dopo la data di chiusura dell’esercizio, la CTR non poteva rigettare il motivo di impugnazione proposto dall’Amministrazione finanziaria solo sulla base di tale presupposto, ma avrebbe dovuto accertare se – così come sostenuto dall’Agenzia delle entrate nel motivo di appello (riprodotto, per autosufficienza, a pag. 7 del controricorso) – la società contribuente avesse anche dimostrato – come era suo onere, trattandosi di circostanza diretta a superare la presunzione legale di imputazione dei componenti di reddito, posta dal d.P.R. 917 del 1986, art. 75 – che erano decorsi i termini di presentazione della dichiarazione in cui inserire i predetti ricavi. Circostanza, questa, che la società contribuente non risulta aver neanche mai dedotto, in quanto dalla narrativa della sentenza impugnata (pag. 4, lett. “c”) si evince che la medesima si è limitata a sostenere che la certezza di tali ricavi <si è verificata successivamente alla chiusura dell’esercizio, che è un dato da sé solo insufficiente a superare quella presunzione.
9.1. Ciò consente di cassare sul punto la sentenza impugnata senza rinvio alla Commissione territoriale, non essendo all’uopo necessario alcuna ulteriore attività accertativa.
10. Conclusivamente, quindi, vanno dichiarati inammissibili i motivi di ricorso principale e va accolto il ricorso incidentale, con conseguente cassazione in parte qua della sentenza impugnata e rigetto dell’originario ricorso della società contribuente proposto con riferimento alla rideterminazione dei ricavi relativi ai lavori di riparazione effettuati in garanzia.
11. In applicazione del principio della soccombenza, la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo ai sensi del d.m. giustizia n. 55 del 2014, nonché al rimborso in favore dell’Agenzia delle entrate delle eventuali spese prenotate a debito.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i motivi di ricorso principale, accoglie il motivo di ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso della società contribuente avverso la ripresa a tassazione di maggiori ricavi conseguiti dai lavori di riparazione effettuati in garanzia. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in 7.300,00 euro, oltre spese prenotate a debito.