CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 gennaio 2017, n. 1174
Risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale – Comunicazione precedente alla scadenza del termine contrattuale – Facoltà di disdetta
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 176/2011, depositata il 4 aprile 2011, la Corte di appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva le domande di risarcimento danni da perdita di tre annualità retributive e lesione dell’immagine professionale proposte da U.M. nei confronti di A.A. S.p.A. (già ASMIU – Azienda Municipalizzata Servizi di Igiene Urbana) per avere la società comunicato la risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale già in essere con il ricorrente solo due giorni prima della scadenza del termine triennale apposto al relativo contratto in data 7/6/2004 e cioè quando il rapporto, in assenza di disdetta anteriore al termine trimestrale dalla scadenza del triennio, doveva ritenersi rinnovato per un eguale periodo, in conformità della delibera, con cui era stata disposta l’assunzione, e di quanto previsto dall’art. 35 del D.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902.
La Corte osservava, a sostegno della propria decisione, che tale norma, al di là di ogni considerazione circa il suo perdurante vigore, era stata dettata per le aziende speciali e conseguentemente non poteva trovare applicazione ad una società di capitali, quale l’appellante; osservava, inoltre, che l’art. 35 del CCNL di riferimento, nel richiamare (al comma 13) il termine trimestrale da computarsi a ritroso dalla scadenza del termine contrattuale, non aveva inteso fare riferimento ad un meccanismo di rinnovazione o di proroga del contratto a tempo determinato ma solo fissare uno degli estremi temporali su cui calcolare l’indennità di mancato preavviso, non ostando a tale ricostruzione il rilievo che l’incremento di tale indennità, così come contrattualmente disciplinato, si arrestasse alla data di inizio del termine trimestrale, perché ciò costituiva determinazione indennitaria rimessa alla discrezionalità delle parti collettive.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il M. con tre motivi; la società ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1367 c.c. per avere la Corte di appello trascurato di considerare che il rapporto di lavoro del ricorrente risultava disciplinato non solo dalle disposizioni del contratto collettivo (art. 35 CCNL Dirigenti delle Imprese aderenti alla Confederazione Nazionale dei Servizi) ma anche, in ordine alla sussistenza o meno della clausola di rinnovo automatico, dalle previsioni di cui al contratto individuale, come definito dalla delibera n. 68 in data 7/6/2004 del Consiglio di Amministrazione della società, il quale, stabilendo la “facoltà di disdetta” in relazione all’assunzione a tempo determinato per un periodo di tre anni, conteneva una previsione non altrimenti giustificabile se non con la contestuale, e sia pure implicita, previsione anche della clausola suddetta.
Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1363, 1367 e 1369 c.c. con riguardo all’interpretazione del combinato disposto del comma 18 dell’art. 35 CCNL e del comma 13 della medesima disposizione cui il primo rinvia, nonché dei commi 11 e 12 a loro volta richiamati dal comma 13, per avere la Corte di appello escluso l’esistenza nella disciplina collettiva di un meccanismo di rinnovazione tacita del contratto e ritenuto che l’indennità sostitutiva del preavviso fosse diretta a compensare il pregiudizio subito dal dirigente che non fosse stato informato della volontà datoriale di non addivenire alla stipula di altro contratto dopo la scadenza di quello in essere, peraltro configurando il termine trimestrale (richiamato nella clausola collettiva mediante il riferimento all’art. 35 D.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902) come uno degli estremi temporali su cui calcolare la misura dell’indennità in questione e con ciò adottando un’interpretazione in contrasto con la stessa ragione posta a giustificazione della clausola, atteso che il dirigente, superata la soglia del terzo mese anteriore alla scadenza del rapporto, e pur nell’accentuarsi della sua condizione di difficoltà, non avrebbe più diritto ad alcun ristoro di natura economica.
Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 n. 4 e 360 n. 5 c.p.c. per essere la sentenza di appello priva di motivazione, ovvero munita di motivazione solo apparente, nella parte in cui ha ritenuto l’impossibilità di estendere ai dirigenti delle società di capitali, che gestiscono servizi pubblici locali, la normativa in tema di rinnovo automatico del rapporto a termine (salvo tempestiva disdetta) già prevista per i dirigenti delle aziende municipalizzate.
Il primo motivo di ricorso deve essere accolto.
La Corte territoriale ha, infatti, totalmente omesso di considerare, nell’interpretazione dell’art. 35 CCNL per i Dirigenti delle Imprese aderenti alla Confederazione Nazionale dei Servizi, il contratto individuale di lavoro fra le parti, come definito dalla delibera del Consiglio di Amministrazione della società n. 68 del 7 giugno 2004: delibera che aveva disposto farsi luogo all’assunzione a termine del ricorrente per un periodo di tre anni, con previsione della “facoltà di disdetta” e di un “periodo di preavviso pari a mesi sei” ai sensi della norma di cui all’art. 35, penultimo comma, del CCNL sopra richiamato. Tale norma identifica la categoria dei dirigenti “il cui rapporto di lavoro”, come per il M., “sia disciplinato, in virtù di regolamenti aziendali o di patti individuali, da contratto a termine” e stabilisce che “il periodo di preavviso per la risoluzione del rapporto stesso sarà quello previsto dal relativo regolamento o patto individuale”.
La norma successiva estende poi, alla medesima categoria di dirigenti, le disposizioni “di cui ai commi 13, 14, 15 e 16” e ciò in relazione “al periodo di preavviso previsto, per il loro contratto a termine, dai rispettivi regolamenti o patti individuali”.
Ne consegue che il giudice del merito, chiamato a ricostruire la volontà delle parti e a pronunciarsi sul complessivo regolamento contrattuale con cui le stesse hanno inteso disciplinare i reciproci interessi, non avrebbe potuto sottrarsi ad un esame anche delle pattuizioni individuali e, soprattutto, delle loro interrelazioni con la disciplina del CCNL di riferimento, alla stregua di una normativa che – come si è osservato – dispone in modo dichiarato ed esplicito il concorso, nella regolazione della fattispecie, di una pluralità di fonti, sia emanazione dell’autonomia individuale che di quella collettiva.
Né può ritenersi, diversamente da quanto osservato dalla difesa della società, che la questione delle pattuizioni individuali e della loro (necessaria) incidenza sulla disciplina del rapporto contrattuale rechi i tratti della novità (con la conseguente inammissibilità del motivo che tale questione ha posto), dovendosi al riguardo osservare come il fatto della stipula di un contratto individuale, con i contenuti sopra riportati, abbia formato oggetto del corredo di allegazioni tanto del ricorrente, nel primo grado di giudizio, come del lavoratore in sede di memoria difensiva in secondo grado (oltre a risultare pacificamente documentato con la produzione del relativo testo avanti al Tribunale), così da essere presente alla cognizione del giudice del merito, e non rilevando in senso difforme che il dibattito processuale si sia orientato alla sola disamina del significato delle disposizioni di cui all’art. 35 CCNL di riferimento, in presenza di un elemento, quale l’esistenza di patti individuali, avente portata costitutiva della fattispecie e, come emerge con chiarezza dalle norme citate, diretta valenza sul piano della disciplina del caso concreto.
Nell’accoglimento del primo motivo resta assorbito il secondo.
E’ altresì fondato, e deve essere accolto, il terzo motivo di ricorso.
La Corte, infatti, nel trattare (per poi ritenerlo infondato) l’argomento dell’appellato relativo all’applicabilità nella specie dell’art. 35 d.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902 (recante “Approvazione del nuovo Regolamento delle aziende di servizi dipendenti dagli enti locali”), al quale è fatto riferimento nell’ambito della disposizione di cui al comma 13 dell’art. 35 CCNL, ha osservato come non fosse “evidentemente possibile riferire ad una società di capitali … le disposizioni organizzative dettate per le aziende speciali”.
In tal modo peraltro il giudice di merito ha reso sul punto sottoposto alla sua indagine una motivazione palesemente “apparente”, non implicando il concetto di “evidenza”, e cioè di indubitabilità o di innegabilità di un’affermazione, alcun elemento idoneo a consentire il controllo della validità delle conclusioni raggiunte, le quali, in definitiva, da null’altro sono precedute che non sia la mera ricognizione della diversità dei termini di partenza del problema.
In conclusione, accolti i motivi primo e terzo, la causa deve essere rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Bologna, la quale procederà alla ricostruzione della disciplina del rapporto fra le parti attraverso l’esame non solo dell’art. 35 CCNL di riferimento ma anche dei patti individuali intercorsi fra le stesse e, ove la questione oggetto del terzo motivo le fosse riproposta, ad un’adeguata motivazione della soluzione raggiunta.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Bologna.
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