CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 ottobre 2017, n. 24582
Reati di accesso abusivo a sistema informatico e frode informatica – Prescrizione -Licenziamento
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Genova, con sentenza n. 29/2016, pronunciando in sede di reclamo ex art. 1, comma 58, Legge n. 92 del 2012, in accoglimento dell’impugnazione incidentale proposta dall’Agenzia delle Entrate e del Territorio, in parziale riforma della pronuncia emessa in sede di opposizione, ha rigettato tutte le domande proposte da C.A., aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato dalla predetta Agenzia delle Entrate per la Liguria con provvedimento del 16 aprile 2014.
2. Il ricorrente era stato condannato in sede penale, nei gradi di merito, per i reati di accesso abusivo a sistema informatico e frode informatica, assorbito il reato di abuso d’ufficio. Con sentenza n. 21246/2013 la Corte di cassazione aveva dichiarato l’intervenuta prescrizione dei reati suddetti, peraltro evidenziando l’infondatezza delle censure mosse dal C. avverso la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte d’appello di Salerno ed affermando la sussistenza di elementi gravi e convergenti, oltre che idonei a sostenere in maniera univoca l’assunto accusatorio.
3. Il Giudice del lavoro di Genova, in sede di opposizione, aveva ritenuto tardiva la contestazione disciplinare; dichiarata l’illegittimità del licenziamento, aveva riconosciuto la tutela di cui all’art. 18, comma 6, L. 300 del 1970, come modificato dalla Legge n. 92 del 2012.
4. Avverso tale pronuncia il C. aveva proposto appello per ottenere la reintegra nel posto di lavoro, con ogni conseguenza di ordine economico; l’Agenzia delle Entrate aveva impugnato per insistere sulla tempestività della contestazione disciplinare.
5. La Corte di appello di Genova, nell’accogliere il gravame incidentale dell’Agenzia, ha osservato:
– che, pur prevedendo l’art. 66, co. 2, C.C.N.L. Agenzie Fiscali del quadriennio 2000-2005 che alcun provvedimento potesse essere adottato se non previa contestazione scritta dell’addebito, “da effettuarsi tempestivamente e comunque non oltre 20 giorni da quando ufficio istruttore secondo l’ordinamento dell’Agenzia, è venuto a conoscenza del fatto….”, il concetto di immediatezza della contestazione va inteso in un’accezione relativa, compatibile con l’intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento dei fatti;
– che nel caso in esame, alla data della notizia del sequestro conservativo, l’Amministrazione non disponeva ancora di sufficienti elementi per procedere alla contestazione; a tale data l’Agenzia delle Entrate non aveva fatto alcun tipo di indagine in ordine alla sussistenza dei fatti poi contestati, riguardanti la condotta di abusivo inserimento informatico di pratiche catastali; inoltre, se era vero che il decreto di sequestro conteneva l’indicazione delle condotte ascritte al C., si trattava di un’ipotesi accusatoria ancora da sottoporre al vaglio del Giudice per le indagini preliminari;
– che il successivo sviluppo del procedimento penale aveva evidenziato il venir meno della contestazione di aver agito in concorso con terze persone ed era stata ascritta al solo C. la materiale commissione degli illeciti, consistenti nell’acquisizione abusiva di password e nell’inserimento fraudolento dei dati di pratiche catastali; solo con la richiesta di rinvio a giudizio si era passati da una fluida ipotesi accusatoria ad una contestazione cristallizzata;
– che, pertanto, doveva ritenersi legittima la scelta dell’Agenzia di individuare il dies a quo del termine per formulare la contestazione disciplinare nel giorno in cui aveva ricevuto la notizia della richiesta di rinvio a giudizio;
– che, una volta ritenuta tempestiva la contestazione disciplinare, era possibile affermare, sulla base degli atti acquisiti al giudizio penale, l’effettiva sussistenza della responsabilità del dipendente in ordine agli illeciti posti a base del licenziamento: l’ing. C., tecnico redattore di pratiche catastali in servizio presso l’Agenzia del Territorio di Genova, si era procurato la disponibilità di programmi informatici “pirata” idonei a carpire da remoto le password di accesso di altri impiegati onde gestire illegalmente pratiche di accatastamento presso l’Agenzia delle Entrate di Salerno, facendo figurare come approvate dette pratiche senza pagamento, da parte degli interessati, dei relativi diritti.
5. Per la cassazione di tale sentenza C. A. propone ricorso affidato a due motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate. con controricorso. 6. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo, denunciando falsa applicazione dell’art. 55 D.Lgs. n. 165/2001, nel testo vigente ratione temporis, e dell’art. 66, co. 2, CCNL del comparto Agenzie Fiscali, censura la sentenza nella parte in cui, applicando la norma contrattuale, la quale prescrive che la contestazione sia effettuata non oltre venti giorni da quando l’ufficio istruttore, secondo l’ordinamento dell’Agenzia, è venuto a conoscenza del fatto, non aveva debitamente considerato la successione degli eventi ed in particolare la circostanza che la conoscenza dei fatti, poi sfociati nella contestazione del marzo 2006, fosse configurabile sin dal luglio 2004 e comunque fosse giunta a completezza il 30 giugno 2005, con la notifica del decreto di sequestro del 14 giugno 2005.
2. Il secondo motivo denuncia falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 654 c.p.p. e 111 Cost., comma 2, primo periodo per non avere i Giudici di merito dato ingresso alla prova testimoniale e alla perizia informatica. La Corte di appello aveva assunto a fondamento della decisione prove non acquisite nel contraddittorio delle parti, utilizzando gli elementi raccolti in sede penale, in violazione dell’art. 654 c.p.p. secondo cui il giudicato penale è vincolante nel giudizio civile o amministrativo solo ove si tratti sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento, mentre nel caso di specie si era trattato di sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione.
3. Il ricorso è infondato. Innanzitutto, il primo motivo, sostanzialmente incentrato sulla omessa considerazione di fatti che – ad avviso del ricorrente -, se valorizzati dal giudice di merito, avrebbero consentito di retrodatare il dies a quo del termine per la contestazione disciplinare, muove – come è evidente dal tenore del motivo di ricorso – da una diversa ricostruzione degli elementi di fatto ritenuti decisivi e non verte, contrariamente alla natura del vizio denunciato, all’interpretazione e applicazione alla fattispecie di norme di legge o di contratto collettivo.
3.1. Al riguardo, va ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
3.2. La Corte di appello, sulla base delle risultanze istruttorie, ha affermato che il momento della completa conoscenza dei fatti da parte dell’Amministrazione, nei termini di cui alla contestazione poi mossa al ricorrente, si ebbe solo nel momento in cui l’Agenzia ricevette, in data 27 febbraio 2006, la notifica della richiesta di rinvio a giudizio del C., mentre la contestazione degli addebiti venne mossa al ricorrente in data 10 marzo 2006. La ricostruzione del momento della conoscenza dei fatti è questione di merito e non ricade nel vizio di legittimità denunciato con il primo motivo.
4. Giova osservare inoltre che nella specie trova applicazione, ratione temporis, l’art. 55 del D.Lgs. n. 165 del 2001, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 150 del 2009. Sull’interpretazione di disposizioni contrattuali che prevedono, come quella in esame, un analogo termine di venti giorni, entro il quale, dalla conoscenza del fatto, deve essere effettuata la contestazione da parte del datore di lavoro, questa Corte si è già pronunciata in diverse occasioni, affermando che la natura dei termini contrattualmente previsti per lo svolgimento del procedimento disciplinare deve essere definita con riguardo allo scopo che essi perseguono nel procedimento, nella prospettiva di un’inderogabile garanzia della necessaria legittimità di tutto il relativo procedimento, con la conseguenza che il carattere della perentorietà non è generalmente rinvenibile in tutti i termini volti a cadenzarne l’andamento (quali quello per la segnalazione d’ufficio, per la contestazione degli addebiti e la relativa comunicazione all’interessato), ma deve essere riconosciuto solo a quello stabilito per la sua conclusione (cfr., da ultimo, Cass. n. 18315 del 2016, nonché Cass., n. 24529 del 2015, n. 19216 del 2014, n. 6091 del 2010, n. 5637 del 2009). Tali pronunce hanno confermato che in tema di sanzioni disciplinari, qualora il contratto collettivo preveda termini volti a scandire le fasi del procedimento disciplinare e un termine per la conclusione di tale procedimento, solo quest’ultimo è perentorio, con conseguente nullità della sanzione in caso di inosservanza, mentre i termini interni sono ordinatori e la violazione di essi comporta la nullità della sanzione solo nel caso in cui l’incolpato denunci, con concreto fondamento, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà della sua difesa, circostanza che non ha costituito oggetto delle censure.
5. Il secondo motivo è infondato. Il ricorrente richiama il principio, espresso da questa Corte con la sentenza n. 21299 del 2014, secondo cui il giudicato penale è vincolante nel giudizio civile in ordine all’accertamento dei fatti materiali solo ove si tratti di sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento, ma non nel caso di sentenza meramente dichiarativa della intervenuta prescrizione, dovendosi escludere l’applicazione analogica dell’art. 654 c.p.p., atteso il carattere eccezionale della norma e tenuto conto del fatto che non sempre la prescrizione importa l’accertamento della sussistenza del fatto materiale costituente reato, sicché, in tale ipotesi, il giudice civile deve procedere autonomamente all’accertamento ed alla valutazione dei fatti.
5.1. Trattasi di un principio non conferente alla fattispecie. La sentenza impugnata, difatti, non ha deciso alla stregua del principio di cui all’art. 654 c.p.c., che regola gli effetti del giudicato penale nel giudizio civile, ma ha utilizzato e rivalutato autonomamente gli elementi di prova acquisiti al giudizio penale, pervenendo su tali basi a formulare un autonomo giudizio di responsabilità in ordine ai fatti ascritti in sede disciplinare, ritenuti idonei ad integrare la giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c..
5.2. Risulta, infatti, dalla sentenza impugnata che il quadro probatorio sulla cui base il Giudice di appello ha confermato la legittimità del licenziamento è costituito da “risultanze documentali (acquisite anche nel presente procedimento), dalle dichiarazioni testimoniali (richiamate delle sentenze penali versata in atti), dall’esito della perquisizione effettuata nell’ufficio del C. (v. documentazione in atti), dagli accertamenti svolti dalla datrice di lavoro (prodotti) e dagli elaborati redatti dal Consulente del P.M. (versati anch’essi in atti)” (pag. 12 della sentenza impugnata).
5.3. Come più volte affermato da questa Corte (v. tra le più recenti, affermato in Cass. n. 5317 del 2017 e n. 2168 del 2013; v. pure 132 del 2008), il giudice del lavoro, ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento, può valutare gli atti del procedimento penale, anche ove sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto la parte può sempre contestare nel giudizio civile i fatti acquisiti in sede penale. Il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto ed in virtù del principio dell’unità della giurisdizione, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o anche altre parti e, pertanto, può desumere dalle risultanze del processo penale concernenti i medesimi fatti elementi sui quali fondare il proprio convincimento (cfr. Cass. 8096 del 2006).
6. Per il resto, il motivo sollecita, sotto l’apparente vizio della violazione di legge, una rilettura del materiale istruttorio, ossia un riesame del merito, inammissibile in questa sede.
7. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo.
7.1. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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