CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 ottobre 2017, n. 24583
Pubblico impiego – Risoluzione del rapporto – Raggiungimento massima anzianità contributiva – Espresso rispetto dell’obbligo motivazionale
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, adita dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale con reclamo ex art. 1 della legge n. 92 del 2012, ha riformato la sentenza del locale Tribunale che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza con la quale lo stesso Tribunale aveva accertato l’illegittimità del recesso esercitato dall’INPS il 14 maggio 2014 ai sensi dell’art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, ed aveva condannato l’istituto «a mantenere in servizio R.A. fino all’intervento di nuova e legittima causa di risoluzione del rapporto» ed a corrispondere alla stessa un’indennità risarcitoria pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita.
2. La Corte territoriale ha premesso che alla A. era stato conferito il 12 luglio 2013 l’incarico di livello dirigenziale denominato “integrazione di processi di audit, ispettorato e controllo di INPDAP ed ENPALS in INPS” e che con nota del 14 maggio 2014 l’Istituto aveva comunicato di volersi avvalere della facoltà concessa dal richiamato art. 72, perché la dirigente avrebbe raggiunto il 16 novembre 2014 la massima anzianità contributiva e ricorrevano le condizioni indicate nella determinazione commissariale n. 56 del 24 aprile 2014, con la quale erano state adottate misure finalizzate al rinnovamento della dirigenza ed a garantire l’uniformità e l’imparzialità nell’esercizio del potere di recesso.
3. Ricostruito il quadro normativo ed evidenziato che a norma dell’art. 16, comma 11 del d.l. 98 del 2011, convertito con legge n. 111 del 2011, il recesso non richiede alcuna motivazione in presenza di criteri organizzativi generali adottati dalla P.A., la Corte ha rilevato che l’illegittimità del recesso non poteva essere affermata per il solo fatto che nel contratto individuale l’INPS non si era riservata la facoltà di recedere anticipatamente dal rapporto in caso di raggiungimento della massima anzianità contributiva, perché la circolare n. 10 del 20 ottobre 2008 aveva dettato una mera raccomandazione e non poteva essere ritenuta vincolante, non essendo consentito prevedere con un atto amministrativo condizioni per l’esercizio del diritto non tipizzate dal legislatore.
4. Il giudice di appello ha, poi, aggiunto: che i criteri di carattere generale erano stati adottati con la determinazione richiamata nella lettera di recesso; che la riduzione degli organici non era e non è un presupposto necessario per il legittimo esercizio della facoltà; che era in atto un processo di riorganizzazione connesso all’incorporazione dell’INPDAP e dell’ENPALS, idoneo a giustificare il rinnovamento della compagine dirigenziale; che la facoltà di recesso era stata esercitata nei confronti di tutti i dirigenti in possesso del requisito contributivo, sicché l’ente non era tenuto ad adottare ulteriori criteri di scelta.
5. Infine la Corte territoriale ha escluso l’eccepita violazione del divieto di trattamenti discriminatori, richiamando giurisprudenza della Corte di Giustizia ed evidenziando che la finalità legittima di politica sociale è ravvisabile in un criterio che sia finalizzato a favorire l’accesso e la permanenza dei più giovani nel mondo del lavoro.
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Rosalba Amato sulla base di tre motivi. L’INPS ha resistito con tempestivo controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo R. A. denuncia ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. «violazione art. 19, comma 1 ter, d.lgs n. 165/2001 in combinato disposto con gli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e art. 3,4 e 97 cost. – falsa applicazione art. 16, comma 11, d.l. n. 98/2011 convertito in legge n. 111/2011». Evidenzia che l’incarico dirigenziale può cessare anticipatamente solo nei casi previsti dall’art. 21 del d.lgs. 165 del 2001 ed invoca l’art. 97 cost. ed il principio di affidamento per sostenere che il dirigente deve poter confidare, quanto alla durata del rapporto, nell’osservanza delle pattuizioni contrattuali. Richiama, poi, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha valorizzato il principio del legittimo affidamento, escludendo che giustificazioni di tipo economico possano legittimare la mortificazione con efficacia retroattiva di diritti già acquisiti. Infine sottolinea che anche in caso di eccedenza di personale l’art. 2 del d.l. n. 101 del 2013 assicura al dirigente la conservazione dell’incarico sino alla scadenza dei relativi contratti.
1.2. Il secondo motivo, formulato sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., addebita alla sentenza impugnata «violazione dell’art. 16, comma 11, d.l. n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, in combinato disposto con l’art. 72, comma 11, d.l. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008 e art. 1, comma 5, d.l. n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014». La ricorrente sostiene, in sintesi, che il legittimo esercizio del potere di recesso, qualora faccia difetto una specifica motivazione, presuppone la preventiva fissazione di criteri preordinati al soddisfacimento delle finalità indicate dalla legge, ossia la riduzione delle dotazioni organiche e il conseguente contenimento della spesa per il personale. Aggiunge che anche la successiva formulazione della norma, effettuata dal d.l. 90 del 2014, fa esplicito riferimento alle esigenze organizzative ed ai criteri di scelta applicati e conclude evidenziando che nel caso di specie «l’esigenza di rinnovamento della dirigenza», richiamata nella determina commissariale alla quale rinvia la lettera di recesso, risulta del tutto avulsa dalle specifiche esigenze richieste dal legislatore.
1.3. La terza critica denuncia la violazione degli artt. 2 e 3 del d.lgs n. 216 del 2003 nonché dell’art. 6 della direttiva 2000/78/CE e rileva che il recesso fondato solo sulla finalità di rinnovare la dirigenza finisce per operare una illegittima discriminazione in ragione dell’età, in assenza di ragioni idonee a giustificarla. Evidenzia che la Corte territoriale per escludere l’eccepita discriminazione ha richiamato pronunce non conferenti, perché l’INPS non ha realizzato alcun contenimento di spesa, avendo lasciato immutata la dotazione organica dei dirigenti di prima fascia, né favorito l’accesso dei più giovani alla dirigenza, non avendo bandito alcun concorso per l’assunzione di nuovi dirigenti.
2. A fini di chiarezza espositiva è opportuno premettere all’esame dei singoli motivi la ricostruzione degli interventi normativi che hanno interessato l’istituto, più volte modificato dal legislatore.
La facoltà della Pubblica Amministrazione di risolvere unilateralmente il rapporto di impiego al raggiungimento della massima anzianità contributiva è stata prevista dall’art. 72, comma 11, primo e secondo periodo, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, poi convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 112, che, nel testo originario prevedeva: “Nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi. Con appositi decreti” (…) “sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa (n.d.r., a cui, in sede di conversione, si aggiungeva quello “affari esteri”), tenendo conto delle rispettive peculiarietà ordinamentali”.
L’ art. 72, comma 11, veniva successivamente novellato dall’art. 6, comma 3, della legge 4 marzo 2009, n. 15, che ne modificava il testo, sostituendo il requisito del compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, con il requisito del “compimento dell’anzianità massima di servizio di 40 anni”.
Entrambe le formulazioni della norma, succedutesi in breve arco temporale, si limitavano a richiedere il requisito, in un caso della massima anzianità contributiva, nell’altro della massima anzianità di servizio, senza imporre ulteriori condizioni, quanto alla formazione della volontà negoziale dell’Amministrazione, e senza richiedere in modo espresso il rispetto dell’obbligo motivazionale. La determinazione di specifiche modalità applicative era, infatti, espressamente prevista solo per il personale dei comparti sicurezza, difesa ed affari esteri, in ragione delle peculiarietà dei rispettivi ordinamenti.
Successivamente, l’art. 17, comma 35-novies, del d.l. 10 luglio 2009 n. 78 convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, sostituiva il comma 11 dell’art. 72. Si faceva riferimento (anni 2009, 2010, 2011) al requisito della massima anzianità contributiva; si confermava il preavviso; si precisava la unilateralità del recesso collegandolo all’esercizio del potere di organizzazione esercitato ai sensi dell’art. 5, comma 2, del T.U., con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro; si prevedeva l’applicabilità della disciplina anche per il personale dirigenziale. L’adozione di specifici criteri e modalità applicative continuava ad essere prevista solo per i comparti sicurezza, difesa e affari esteri.
Le condizioni richieste per il recesso sono rimaste immutate anche nelle successive novelle, fino all’intervento dell’art.1, comma 5, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, in ragione del quale il vigente art. 72, comma 11, primo periodo, prevede che “Con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, incluse le autorità indipendenti, possono, a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento” (…) “risolvere il rapporto di lavoro e il contratto individuale anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi e comunque non prima del raggiungimento di un’età anagrafica che possa dare luogo a riduzione percentuale” (…).
La ricostruzione della disciplina va completata con il richiamo all’art. 16, comma 11, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che, ha stabilito: “In tema di risoluzione del rapporto di lavoro l’esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal comma 11 dell’articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l’amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo”.
Detta ultima disposizione rileva in particolare nella fattispecie, nella quale si discute della legittimità del recesso intimato dall’INPS il 14 maggio 2014 sulla base dei criteri generali adottati con la deliberazione commissariale n. 56 del 2014, adottata ad integrazione della precedente delibera n. 35 del 2008 e recante i criteri applicativi per la risoluzione del rapporto di lavoro del personale dirigenziale di prima e seconda fascia.
3. Questa Corte con plurime recenti pronunce ( Cass. nn. 1754 e 1706 del 2017; nn. 26475, 25378, 18723, 11595 del 2016; n. 21626 del 2015) ha interpretato la normativa sopra richiamata, affermando principi di diritto che, sebbene enunciati in relazione a fattispecie nelle quali veniva in rilievo la legittimità di recessi intimati in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.l. n. 98 del 2011, orientano anche nella soluzione del caso qui controverso, quanto all’assolvimento dell’obbligo motivazionale, al rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede, alla conformità della disciplina con il diritto dell’Unione, nella parte in cui fa divieto di trattamenti discriminatori in ragione dell’età.
Premesso il carattere innovativo e non interpretativo dell’art. 16 del d.l. n. 98 del 2011, è stato osservato che l’esercizio della facoltà non necessita di un’ulteriore motivazione del singolo atto di recesso solo per gli atti adottati nella vigenza della nuova normativa, e ciò perché occorre salvaguardare il controllo di legalità sulla appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata, rispetto alle finalità di riorganizzazione perseguite nell’ambito di politiche del lavoro. Si è aggiunto che è attraverso la motivazione che la Pubblica Amministrazione fa ostensione delle ragioni organizzative sottese all’adozione dell’atto di risoluzione, ragioni che, ove esplicitate, rendono l’atto rispondente al pubblico interesse che deve costantemente orientare l’azione amministrativa (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001), ai canoni generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cc), ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., nonché all’art. 6, comma 1, della direttiva 78/2000/CE.
Dal principio affermato discende, come logica conseguenza, che per i recessi intimati in data successiva all’entrata in vigore del d.l. n. 98 del 2011, è attraverso l’adozione dell’atto organizzativo che vengono tutelati gli interessi sopra evidenziati, poiché l’atto, per la sua stessa natura, è idoneo ad esplicitare le finalità dell’azione dell’ente e la sua previa adozione permette anche di verificare la riconducibilità del singolo atto di recesso alle esigenze esplicitate nel provvedimento di carattere generale.
In tal caso, quindi, per espressa volontà del legislatore, non è necessario che la risoluzione anticipata del rapporto venga ulteriormente giustificata, ben potendo l’Amministrazione limitarsi a richiamare i criteri applicativi della norma di legge individuati in via preventiva, criteri che non possono essere sindacati nel merito, non essendo consentito al giudice sostituirsi alla Pubblica Amministrazione nelle scelte di carattere organizzativo.
4. Ne discende la infondatezza del secondo motivo che, per un verso, richiama giurisprudenza e principi che non si attagliano alla fattispecie, perché relativi ad atti di recesso intimati anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 98 del 2011 ed in difetto di un atto organizzativo di carattere generale; per altro finisce per censurare il merito delle scelte compiute dall’amministrazione, inserendo una limitazione, non prevista dal legislatore, quanto alle finalità perseguibili attraverso la risoluzione anticipata, che la ricorrente pretende di ancorare necessariamente alla riduzione delle piante organiche, quasi che si trattasse di un licenziamento per eccedenza di personale.
In realtà questa Corte ha già chiarito con la sentenza n. 11595 del 2016 che la risoluzione facoltativa si traduce in discriminazione vietata solo qualora a giustificazione della stessa venga posto unicamente il raggiungimento dell’anzianità contributiva, non già allorquando il provvedimento sia finalizzato alla realizzazione dell’interesse pubblico ad una più efficace ed efficiente organizzazione dell’Amministrazione.
Detto interesse ben può sussistere anche in assenza di una riduzione del personale, perché può dirsi, a titolo meramente esemplificativo e senza pretesa di esaustività, che la necessità di un ricambio generazionale può derivare, oltre che dall’esigenza di contenimento della spesa pubblica, dalla necessità di adeguare all’evolversi delle tecnologie il bagaglio di conoscenze del personale o di assicurare una classe dirigente che sia in grado di confrontarsi con nuove e diverse tematiche organizzative.
L’atto generale di organizzazione interna, richiamato dall’art. 16 del d.l. n. 98 del 2011, non deve, pertanto, essere necessariamente correlato ad un provvedimento di riduzione degli organici, essendo sufficiente per giustificare il recesso che lo stesso indichi le condizioni in presenza delle quali la facoltà deve essere esercitata e le ragioni della scelta operata, scelta che, lo si ripete, non può essere sindacata nel merito.
A conforto di detta interpretazione va sottolineato che anche il successivo d.l. n. 90 del 2014, nel rendere esplicito l’obbligo motivazionale ( obbligo desumibile in via interpretativa anche dal testo originario per le ragioni tutte indicate da questa Corte nelle pronunce sopra richiamate), ha fatto riferimento “alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati”, senza limitare in alcun modo l’apprezzamento da parte delle amministrazioni delle richiamate esigenze, necessariamente correlate alle necessità ed alle situazioni contingenti dei singoli enti.
5. La motivazione della sentenza impugnata è conforme ai principi di diritto sopra enunciati perché la Corte territoriale, oltre ad escludere correttamente ogni rilevanza della mancata riduzione del numero complessivo di dirigenti di prima fascia, ha esaminato la determinazione commissariale n. 56 del 2014 e l’ha qualificata atto generale di organizzazione interna sussumibile nell’ambito della previsione del richiamato art. 16, senza che detta qualificazione sia stata oggetto di specifico motivo di censura.
Ha, poi, valutato il tenore complessivo dell’atto ed ha evidenziato che l’INPS non si era limitato a porre a fondamento della deliberata cessazione anticipata di tutti gli incarichi conferiti ai dirigenti in possesso del requisito contributivo la sola circostanza del raggiungimento della soglia, avendo giustificato la necessità del ricambio generazionale con il richiamo alla normativa che, nel disporre la soppressione dell’INPDAP e dell’ENPALS, aveva anche invitato l’ente subentrato nell’esercizio delle funzioni a promuovere ogni iniziativa necessaria per il conseguimento degli obiettivi di efficienza e di efficacia, di razionalizzazione dell’organizzazione amministrativa e di riduzione dei costi.
Il giudice di appello, in sintesi, ha ritenuto non “incoerente con l’indubbio piano di riassetto in atto la scelta di procedere ad un rinnovamento della compagine dirigenziale, applicando indistintamente a tutta la dirigenza dell’istituto la risoluzione automatica, a prescindere dalla natura dell’incarico e da ulteriori valutazioni”. La evidenziata sussistenza di una ragione di carattere organizzativo rende la pronuncia conforme, in diritto, ai principi di cui sopra si è detto. Per il resto l’accertamento di merito non è sindacabile in sede di legittimità e, quanto all’interpretazione del provvedimento adottato dall’INPS, poteva essere, al più , censurato in questa sede per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, violazione che non è stata dedotta dalla ricorrente, la quale si è limitata apoditticamente ad affermare che la sola esigenza esplicitata nel provvedimento sarebbe stata quella del ricambio generazionale, non sufficiente a giustificare il recesso.
La censura va, pertanto, disattesa.
6. Ad analoghe conclusioni si giunge quanto al primo motivo con il quale la A. ha sostenuto che l’amministrazione non poteva risolvere anticipatamente il rapporto, perché al momento della conclusione del contratto non si era riservata detta facoltà, pur essendole già noto che in pendenza dell’incarico la dirigente avrebbe maturato il requisito contributivo richiesto per il recesso anticipato.
La tesi sostenuta è smentita dal chiaro tenore della normativa che qui viene in rilievo che, a partire dal d.l. n. 78 del 2009, è stata espressamente estesa al personale dirigenziale, per definizione legato all’amministrazione da contratti di durata predeterminata, senza richiedere alcun’altra condizione e senza operare alcuna differenziazione fra incarichi conferiti in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova normativa, nei quali, evidentemente, non poteva essere inserita alcuna riserva rispetto ad un istituto non ancora previsto dal legislatore, e quelli stipulati successivamente.
Non vale, poi, richiamare la previsione contenuta nella circolare n. 10 del 2008 del Ministero della Funzione Pubblica, con la quale le amministrazioni erano state invitate a tener conto della nuova disciplina al momento del conferimento dell’incarico, perché le circolari della P.A. sono atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi, con la conseguenza che le stesse non possono essere fonte di diritti diversi ed ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge, e in sede di legittimità non ne può essere denunciata la violazione ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in quanto la interpretazione che dell’atto amministrativo abbia dato il giudice del merito è soggetta a sindacato solo nei casi di omesso rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale, applicabili anche agli atti unilaterali (Cass. 23.9.2016 n. 18723; Cass. 10.8.2015 n. 16644; Cass. 19.6.2008 n. 16612; Cass. 10.4.2006 n. 8296; Cass. 10.3.2004 n. 4942).
Il motivo di ricorso, pertanto, è inammissibile nella parte in cui censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto che la circolare avesse dettato una “mera raccomandazione”, perché la conclusione espressa dalla Corte territoriale attiene all’interpretazione dell’atto, della quale poteva essere denunciata la erroneità solo nei termini sopra indicati.
E’ infondato per il resto in quanto la Corte romana ha correttamente escluso che la circolare potesse predeterminare, in assenza di ogni indicazione rinvenibile nella normativa, casi specifici di asserita violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede.
Così ragionando la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte ( Cass. S.U. n. 26724 del 2007 e Cass. S.U. n. 15764 del 2011), principio che va qui ribadito, secondo cui occorre tenere ben distinte le norme di comportamento che regolano l’esecuzione del contratto da quelle che stabiliscono le condizioni di validità degli atti negoziali, per cui le prime, ancorchè di carattere imperativo, non possono incidere, in difetto di una diversa previsione normativa, sulla validità dell’atto, né alle stesse si può fare ricorso per imporre requisiti che il legislatore non abbia espressamente previsto. Una volta escluso che l’INPS avesse l’obbligo di formulare nel contratto una espressa riserva, si deve anche escludere che sia stato leso il legittimo affidamento riposto dalla ricorrente nella stabilità dell’incarico sino alla scadenza del termine di durata. Alla data di sottoscrizione del contratto, infatti, era da tempo vigente la norma che consentiva alle amministrazioni la facoltà di recesso per il raggiungimento della massima anzianità contributiva la quale ha integrato le ulteriori cause di cessazione dell’incarico già previste dalla disciplina del rapporto dirigenziale, legittimando il recesso dal rapporto, oltre che per giusta causa e per la sussistenza di responsabilità dirigenziale, anche a seguito della maturazione dei requisiti previsti per la risoluzione anticipata.
7. E’ parimenti infondato il terzo motivo.
La questione della compatibilità delle norme interne che qui vengono in rilievo con i principi dettati dalla direttiva 2000/78/CE è già stata vagliata positivamente da questa Corte che con le pronunce sopra richiamate ha ricondotto la previsione dell’art. 72 del d.l. n. 112 del 2008, nelle diverse versioni succedutesi nel tempo, nell’ambito delle eccezioni consentite dall’art. 6 della stessa direttiva che legittima gli Stati membri a prevedere “che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.
In particolare la sentenza n. 11595 del 2016, del tutto condivisa ha esaminato la giurisprudenza della Corte di Giustizia ed ha evidenziato che la stessa “non lascia adito a dubbi interpretativi, poiché una disparità di trattamento in ragione dell’età, (come quella oggetto della disciplina in esame, nei termini sopra precisati), non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata da una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Peraltro, una mancanza di precisione della normativa, riguardo allo scopo perseguito, non ha la conseguenza di escludere automaticamente che quest’ultima possa essere giustificata ai sensi della disposizione suddetta. In mancanza di una tale precisazione, è importante che altri elementi, attinenti al contesto generale della misura interessata, consentano l’identificazione dell’obiettivo cui tende quest’ultima, al fine di esercitare un controllo giurisdizionale, quanto alla sua legittimità, e al carattere appropriato e necessario dei mezzi adottati per realizzare detto obiettivo (sentenze Palacios de la Villa, C-411/05, C-Vital Pérez C-416/13)”.
Ne ha desunto la non necessità del rinvio pregiudiziale, rilevando che l’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di Giustizia, sia in sede di rinvio pregiudiziale, sia in sede di procedura d’infrazione (Corte cost., sentenze n. 168 del 1991, n. 389 del 1989, n. 113 del 1985 e n. 227 del 2010), ha efficacia ultra partes, con la conseguenza che alle sentenze dalla stessa rese va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità (Cass., n. 22577 del 2012).
In presenza di una interpretazione consolidata e in termini o di una norma comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi, il giudice di ultima istanza non ha, quindi, l’obbligo di disporre il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., Sez. Un., 24 maggio 2007, n. 12067; Cass., ord. n. 22103 del 2007; Cass., n. 4776 del 2012; Cass., n. 26924 del 2013, Cass. n.13603 del 2011). Le considerazioni che precedono comportano la infondatezza del terzo motivo di ricorso, posto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha da tempo chiarito che costituiscono finalità legittima di politica sociale sia la promozione delle assunzioni dei più giovani ( sentenza Torsten Hórnfeldt in causa C -141/11), sia, nell’ambito dell’impiego pubblico, “la finalità consistente nell’instaurare una ripartizione equilibrata delle fasce di età tra giovani funzionari e funzionari più anziani al fine di favorire l’occupazione e la promozione dei giovani, di ottimizzare la gestione del personale e, al tempo stesso, di prevenire le eventuali controversie vertenti sull’idoneità del dipendente ad esercitare la sua attività dopo una certa età, il tutto mirando ad offrire un servizio di qualità” (Commissione Europea Ungheria in causa C- 286/12).
Le finalità che si desumono dal combinato disposto degli artt. 72 e 74 del d.l. 112 del 2008 sono, dunque, legittime e lo strumento utilizzato, oltre a realizzare un contemperamento degli interessi in gioco, prevedendo la possibilità del recesso solo nei confronti dei dipendenti in possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione, appare anche necessario al perseguimento dell’obiettivo.
E’ utile osservare al riguardo che analoghe considerazioni sono state espresse dalla Corte Costituzionale che, pronunciando sulla legittimità del d.l. n. 90 del 2014 nella parte in cui ha eliminato l’istituto del trattenimento in servizio ha evidenziato che « le finalità di ricambio generazionale, insite nella normativa in esame, rientrano nell’ambito delle «legittime finalità di politica del lavoro», che non danno seguito a discriminazioni sulla base dell’età, secondo la citata direttiva (paragrafo 1 dell’art. 6). In questa direzione si è coerentemente orientata la Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha riconosciuto ampi margini alla discrezionalità dei legislatori nazionali (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 21 luglio 2010, in cause C-159/10 e C- 160/10, Fuchs e Kiihler).» ( Corte Cost. n. 133 del 2016).
La Corte ha anche posto l’accento sull’obiettivo «di favorire risparmi di spesa con l’abbattimento del monte stipendiale derivante dalla sostituzione di lavoratori più anziani, cui normalmente spettano livelli retributivi più elevati, con personale di nuova assunzione e quindi meno costoso.». Ha precisato che «tale risultato è atteso nel lungo periodo, nonostante la prima applicazione delle misure mostri un difficile bilanciamento fra maggiori spese per anticipo dell’erogazione delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio e corrispondenti risparmi derivanti dalle cessazioni dal servizio».
Non rileva, pertanto, che nella fattispecie l’Istituto abbia risolto il rapporto senza procedere a nuove assunzioni perché, come evidenziato dal Giudice delle leggi, gli obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire con gli interventi normativi attuati nel tempo volti al ricambio generazionale, vanno valutati nel lungo periodo e non nell’immediato.
8. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
La complessità delle questioni giuridiche trattate e la novità dei profili inerenti l’interpretazione dell’art. 16 del d.l. n. 98 del 2011, quanto al contenuto ed all’incidenza dell’atto organizzativo, giustificano la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dalla ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
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