CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 gennaio 2018, n. 137
Licenziamento disciplinare – Uso di autovettura aziendale per fini personali – “Distrazione” dai fini lavorativi e professionali – Non sussiste – Scarsa valenza trasgressiva della condotta, comunemente accettata – “Modus agendi” del lavoratore non animato da un intento profittatore – Nessun aperto contrasto con chiare ed univoche norme aziendali – Nozione legale di “giusta causa di licenziamento” – Fattispecie
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 4818/2015 la Corte di appello di Napoli, in riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento disciplinare intimato in data 10.11.2007 a G.E. dalla F.G.A. s.p.a., ordinato la reintegra dell’E. nel posto di lavoro e condannato la società al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegra, oltre accessori, ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
1.1 Il giudice di appello, per quel che qui ancora rileva, premesso che il primo giudice aveva già escluso, con autorità di giudicato, l’addebitabilità del fatto rappresentato dall’uso di autovettura aziendale per l’intero periodo feriale, ha ritenuto priva di riscontro la contestazione con la quale si imputava al lavoratore di avere, con finalità elusive del controllo aziendale, nella richiesta di pass di accesso nominativo relativa all’anno 2007, indicato come autovettura di sua proprietà un’autovettura aziendale; in merito al nucleo essenziale della contestazione disciplinare, consistente nell’avere il dipendente utilizzato, in maniera sistematica, alcune auto aziendali per uscire dallo stabilimento in occasione della pausa pranzo rientrandovi dopo circa 20/40 minuti e nell’avere, spesso, con le stesse autovetture, fatto rientro presso la propria abitazione a fine giornata lavorativa per poi tornare al lavoro la mattina successiva, ha osservato che, non essendo emersa una vera e propria “distrazione” dai fini lavorativi e professionali (quale ipotizzabile in presenza di viaggi o visite di piacere o per il disbrigo di incombenze personali, ecc.) la condotta addebitata non travalicava un concetto “lato” di uso aziendale del mezzo per motivi di lavoro; ciò comportava, sotto il profilo dell’intensità dell’elemento psicologico, la scarsa valenza trasgressiva della condotta in sé considerata rispetto alla nozione di “servizio” comunemente accettata ed escludeva che il modus agendi del lavoratore fosse stato animato da un vero e proprio intento profittatore in aperto contrasto con chiare ed univoche norme aziendali, non ravvisabili nelle comunicazioni di servizio ricevute dal dipendente nel 2007 in tema di corretta gestione delle procedure riguardanti l’uso delle autovetture di servizio. Sotto altro profilo si evidenziava che l’assoluta carenza, nella contestazione disciplinare, di elementi relativi alla quantità di carburante presumibilmente consumato attraverso il sistematico uso della vettura aziendale, da un lato non consentiva l’accertamento della effettiva sussistenza di un pregiudizio economico per la società datrice riconducibile alla condotta addebitata e, dall’altro, deponeva nel senso che l’inadempienza imputata al dipendente non aveva riguardo ad un serio aggravio di spese per l’azienda o ad altro particolare pregiudizio, neppure evidenziato nelle difese della società.
1.2. In base a tali considerazioni il giudice di appello ha ritenuto che, anche a voler configurare come irregolare la condotta del lavoratore, essa non giustificava, comunque, l’adozione della misura espulsiva; ciò tanto più in ragione del fatto che la società aveva posto a fondamento della propria iniziativa disciplinare la previsione di cui all’art. 25 lett. B) del c.c.n.I. nel quale le condotte sanzionate con il licenziamento erano connotate da elevato disvalore etico e sociale, dalla gravità del nocumento morale o materiale per l’azienda o integravano fattispecie delittuose o, comunque, condotte atte a ledere beni o interessi primari della comunità interna all’ambiente lavorativo; pertanto, tenuto altresì conto che l’E. non aveva mai ricevuto contestazioni disciplinari, la irrogazione della sanzione espulsiva non appariva proporzionata.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso F.I. s.p.a. (già F.G.A. s.p.a.) sulla base di cinque motivi; l’intimato ha resistito con tempestivo controricorso e contestuale ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo avverso il quale F.I. s.p.a. ha depositato controricorso.
2.1. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso di F.I. s.p.a. si deduce violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1363 e 1324 cod. civ. in relazione alla interpretazione della richiesta di pass effettuata dall’E. con mail del 5.12.2006. Premesso che il criterio ermeneutico di cui all’art. 1363 cod.civ., applicabile, in virtù del rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ., anche alle dichiarazioni unilaterali di volontà ed anche agli atti non negoziali, impone la valutazione globale dell’atto, si assume che la interpretazione della richiesta di pass operata dal giudice di appello, secondo il quale con tale richiesta l’E. non aveva affatto affermato e neppure suggerito che l’autovettura in questione fosse di sua proprietà, era frutto di una lettura parziale dell’atto.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 416, comma 3, cod. proc. civ. nonché dell’art. 115 cod. proc. civ. in relazione alla mancata contestazione, da parte dell’E., della violazione di specifiche disposizioni aziendali attinenti all’utilizzo dell’autovettura. Si sostiene che la consapevolezza del dipendente in ordine al fatto che l’uso privato dell’autovettura non fosse consentito risultava provata dalle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo laddove l’esponente aveva ammesso di non avere diritto all’assegnazione tout court di un’auto aziendale da poter utilizzare anche per fini personali. In questa prospettiva si assume che costituiva onere dell’E. contrastare in maniera specifica e dettagliata i fatti posti a base del licenziamento e che tale onere non poteva ritenersi assolto a fronte della generica contestazione dei fatti oggetto di addebito da parte del lavoratore.
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1363 e 1324 cod. civ. in relazione alla non corretta interpretazione della disposizione aziendale di cui alla mail dell’8.5.2007, che si afferma frutto di una interpretazione parziale della stessa. In particolare ci si duole dell’omessa considerazione della clausola 4 secondo la quale “ogni utilizzatore deve provvedere mensilmente ad aprire e chiudere una specifica trasferta indicando esclusivamente i rifornimenti delle rifornimento del carburante valgono esclusivamente in caso di utilizzo dell’auto per ragioni di servizio”.
4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. in relazione alla sussunzione nella fattispecie prevista dalla detta norma del concreto comportamento posto in essere dal lavoratore.
Ricordato che, secondo il giudice di legittimità, la nozione di “giusta causa” costituisce una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama, si invoca il controllo di legittimità sulla correttezza del metodo seguito nell’applicazione della norma generale, sostenendosi, in sintesi, l’inadeguatezza o irrilevanza dei parametri ai quali il giudice di appello aveva ancorato la verifica della ” giusta causa” di recesso; tali il concetto lato di uso del mezzo per motivi di lavoro; la mancanza di prova dell’utilizzo dell’auto aziendale in termini distrattivi, la scarsa valenza trasgressiva della condotta contestata alla luce della comune nozione di “servizio”, l’assenza di dolo, l’omessa prova di un pregiudizio economico per l’azienda . Sul presupposto che in caso di illecito contrattuale è nell’ambito della regolamentazione del rapporto che vanno individuate le regole violate e che il giudizio di gravità deve tenere conto della consapevolezza del dipendente nel violare le regole aziendali e della continuità della violazione, si censura la decisione per non avere considerato le concrete circostanze della fattispecie, quali il ruolo rivestito dal lavoratore in azienda, il grado di affidabilità esigibile, la reiterazione delle condotte, la piena consapevolezza dell’obbligo di utilizzo delle autovetture aziendali per il solo espletamento di attività lavorativa denotava, a prescindere dalla verifica di un intento fraudolento o dalla realizzazione di un indebito vantaggio, I’ intenzionalità nel porre in essere i comportamenti addebitati restando irrilevante, anche alla luce di precedenti di legittimità, l’effettivo verificarsi di un danno economico per l’azienda; in ogni caso, andava considerato il danno all’immagine aziendale consistente nella svalutazione nei confronti degli altri dipendenti della vincolatività della disciplina interna aziendale.
5. Con il quinto motivo del ricorso principale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 25 lett. B) c.c.n.I. industria metalmeccanica del 7.5.2003 per avere la Corte di appello ritenuto determinante, al fine dell’esclusione della proporzionalità, la circostanza che la previsione collettiva non contemplava specificamente, fra quelle sanzionate, la condotta ascritta all’E..
6. Con l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato si deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Tale fatto, dedotto con il secondo motivo di appello, era costituito dalla circostanza che per ventitré dei ventisette episodi contestati, l’E. risultava essere in trasferta giornaliera con rimborso delle spese a piè di lista, come attestato dagli statini paga, dai moduli di riepilogo spese trasferta e dai fogli di presenza, oggetto di controllo di merito da parte del superiore gerarchico.
7. Il primo motivo di ricorso principale, con il quale si censura la interpretazione da parte del giudice di appello della richiesta di pass relativo ad autovettura aziendale risulta, come eccepito nel controricorso, inammissibile incorrendo nella violazione del principio di autosufficienza che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute negli artt. 366, Co. 1, n.6 e 369, co. 2, n. 4 cod. proc. civ. (v. tra le altre, Cass. 08/07/2004 n. 12577, Cass. 26/09/2002 n. 13953). Parte ricorrente si è, infatti, sottratta all’onere prescritto al fine della valida articolazione della censura posto che non ha riprodotto l’intero contenuto del documento (richiesta di pass) della cui interpretazione si duole; né, ai fini dell’ammissibilità del motivo in esame, appare sufficiente la sintesi del contenuto del documento e la trascrizione solo parziale di alcune espressioni in esso riportate (v., in particolare, pag. 18 del ricorso) atteso che la verifica sollecitata alla Corte, fondata in particolare sulla necessità del rispetto del criterio dell’art. 1363 cod. civ. implicante la necessità di valutazione globale dell’atto da interpretare, rendeva necessaria la integrale trascrizione del documento.
8. Il secondo motivo di ricorso è anch’esso inammissibile per difetto di autosufficienza. La censura, fondata sull’assunto che la consapevolezza nell’E. della violazione delle norme aziendali risultava dalle ammissioni formulate nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, di talché, a differenza di quanto ritenuto dal giudice di appello, non richiedeva di essere provata, è affidata esclusivamente alla riproduzione di alcune espressioni contenute nell’ atto evocato, intrinsecamente inidonee, in quanto avulse dal contesto argomentativo di riferimento, a suffragare l’assunto dell’odierna parte ricorrente principale. La carente esposizione del fatto processuale, con specifico riguardo alle allegazioni in fatto ed alle deduzioni in diritto sviluppate nei gradi di merito dalle parti in ordine alla questione in argomento, non consente, pertanto, di ritenere escluso dal thema probandum la verifica della conoscenza da parte del dipendente di direttive della società datrice che consentivano l’utilizzazione, solo per motivi strettamente lavorativi, dell’auto aziendale. Tanto è sufficiente per respingere il motivo in esame risultando assorbite le ulteriori deduzioni del ricorrente.
9. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per le medesime ragioni alla base della analoga declaratoria di inammissibilità formulata in relazione al primo motivo. La società ricorrente, infatti, non ha riprodotto il contenuto integrale dell’atto – disposizioni aziendali di cui alla mail in data 8.5.2007 – della cui interpretazione si duole. La censura articolata è, infatti, illustrata mediante riproduzione solo parziale di alcune espressioni contenute nella richiamata mail, risultandone preclusa a questa Corte ogni verifica ex actis della denunziata violazione dei criteri legali di interpretazione ed in particolare dell’art. 1363 cod. civ., in tema di valutazione globale dell’atto da interpretare, implicante, come già evidenziato, la riproduzione integrale del relativo testo.
10. Il quarto motivo di ricorso, incentrato, in estrema sintesi, sulla non corretta applicazione della nozione legale di “giusta causa di licenziamento” alla fattispecie in esame, è infondato.
10.1. Occorre premettere che, come evidenziato anche dalla parte ricorrente principale, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici, (v., tra le altre, Cass. 26/04/2012 n. 6498).
10.2. Questa Corte ha, inoltre, ripetutamente ribadito in tema di licenziamento disciplinare che il principio di proporzionalità della sanzione all’infrazione richiede che il giudice proceda all’accertamento della gravità del fatto contestato sotto il profilo oggettivo e soggettivo (Cass. 18/09/2012 n. 15654; Cass. 23/02/2012 n. 2720; Cass. 01/03/2011 n. 5019; Cass. 20/08/2003 n. 12273), potendosi quest’ultimo connotare da un punto di vista psicologico sia dall’elemento della colpa che di quello del dolo (Cass. 26/01/1991 n. 765).
10.3. Alla luce dei richiamati principi le censure della parte ricorrente si rivelano prive di pregio. Si premette che la verifica del vizio denunziato con il motivo in esame postula la corretta ricostruzione dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice di appello il quale ha fondato la valutazione di illegittimità del licenziamento su un duplice ordine di considerazione: a) l’utilizzo dell’autovettura nelle circostanze contestate non travalicava un concetto “lato” di uso del mezzo per motivi di lavoro; b) in ogni caso, anche a voler ritenere la condotta di rilievo disciplinare, la sanzione espulsiva non era proporzionata all’intensità dell’elemento soggettivo ed all’assenza di pregiudizio derivatone alla società.
10.4. Ciò posto, appare evidente che, nel contesto argomentativo della decisione di appello, in relazione alla considerazione sub b), da sola idonea a fondare la valutazione di illegittimità del recesso datoriale, l’evocazione di un “concetto lato” di uso aziendale dell’autovettura viene in rilievo a connotare in termini di minore gravità la condotta addebitata e non in funzione scriminante della illiceità della condotta , nel senso di rendere la stessa legittima; in questa prospettiva si sottrae, pertanto, alle contestazioni formulate dalla parte ricorrente relative alla congruità di uno dei parametri utilizzati dal giudice di appello nel dare concreta specificazione alla nozione legale di giusta causa.
10.5. Gli ulteriori elementi sulla base dei quali è stata ritenuta la non proporzionalità della condotta addebitata risultano del tutto coerenti con il parametro normativo di cui all’art. 2119 cod. civ. in quanto hanno riguardo all’intensità dell’elemento soggettivo ed alle conseguenze oggettive scaturite per la società datrice dalla condotta irregolare del dipendente; attengono, in altri termini, alle circostanze concrete della vicenda e si collocano, quindi, sul piano del giudizio di fatto che, in quanto privo di incongruità logiche, resta sottratto al sindacato di legittimità.
10.6. In merito alle residue censure è da segnalare che parte ricorrente, pur formalmente denunziando violazione di norme di diritto, sotto il profilo della corretta applicazione delle clausole generali di cui agli artt. 2119 e 2106 cod. civ., non individua alcuno specifico contrasto con i criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, nei parametri astratti ai quali ha fatto riferimento il giudice di merito nel ritenere proporzionata la sanzione espulsiva; le critiche articolate, infatti, tendono, piuttosto, a contestare la valutazione di proporzionalità del licenziamento sotto il profilo della mancata considerazione di alcune circostanze di fatto, che – si sostiene – avrebbero condotto ad affermare l’applicabilità della sanzione espulsiva. In altri termini, ciò che viene in concreto criticato è l’apprezzamento di fatto delle circostanze del caso concreto ed il relativo giudizio di proporzionalità il quale è censurabile in sede di legittimità solo ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (v. tra le altre, Cass. 25/05/2012, n. 8293; Cass. 19/10/2007, n. 21965). Consegue che, trovando applicazione, ratione temporis, il testo attualmente vigente dell’art. 360 comma primo, n. 5 cod. proc. civ., la deduzione del vizio motivazionale poteva avvenire solo mediante la denunzia dell’omesso esame di un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, omissione neppure formalmente dedotta dalla società ricorrente.
11. Il quinto motivo di ricorso è anch’esso da respingere in quanto ancorato ad una lettura errata della sentenza impugnata nella parte riferita alla previsione contrattuale collettiva. Il giudice di appello, a differenza di quanto presupposto dalla società ricorrente principale, non ha affatto escluso la proporzionalità dell’addebito contestato sul rilievo che la condotta ascritta non era ricompresa fra quelle espressamente contemplate dalla norma collettiva richiamata nella lettera di licenziamento ma ha ritenuto non assimilabili, in quanto connotati da minore gravità, i fatti addebitati con quelli presi in considerazione dalla detta previsione e da questa sanzionati con il licenziamento per giusta causa. Quanto ora rilevato esclude in radice la configurabilità del denunziato vizio di violazione del principio di non tassatività delle ipotesi previste dalla norma collettiva in tema di licenziamento disciplinare, espressione di consolidata giurisprudenza di questa Corte alla quale si ritiene di dare continuità (v., da ultimo, Cass. 12/02/2016 n. 2830).
12. In base alle considerazioni che precedono il ricorso principale deve essere respinto, con effetto di assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
13. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.
14. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228 ( Cass. Sez. 17/10/2014. n. 22035/2014).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale. Condanna parte ricorrente principale alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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