CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 luglio 2017, n. 17806
Redditometro – Immobile acquistato non in proprietà esclusiva – Acquisti in comunione legale
Svolgimento del processo
G. D. ha impugnato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Genova l’avviso di accertamento notificatole il 18 dicembre 2001, relativamente all’Irpef e all’Ilor per l’anno 1995, lamentando la nullità della notifica e contestando la rilevanza attribuita dall’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, all’intero corrispettivo pagato – invece che alla sua metà – per l’immobile acquistato in data 29 maggio 1996 non in proprietà esclusiva, ma in comunione legale col coniuge.
Il ricorso è stato rigettato con sentenza n. 434/2002 del 16 marzo 2006, appellata dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Liguria.
In sede di appello la ricorrente ha ribadito la nullità della notifica dell’atto impositivo e ha censurato la decisione di primo grado nella parte in cui ha escluso la rilevanza della comproprietà del bene in considerazione della mancata partecipazione del marito alla compravendita, producendo, peraltro, due atti di vendita dei genitori e suoceri, il cui ricavato, oggetto di donazione, avrebbe costituito la provvista per l’acquisto del 29 maggio 1996, e la quietanza a favore del marito per la cessione allo stesso della quota di 1/2 dell’immobile in esame, effettuata successivamente in sede di separazione consensuale.
Con la sentenza n. 145 del 18 dicembre 2009 è stata integralmente confermata la decisione di primo grado, ritenendosi collegata la presunzione di capacità contributiva non tanto alla proprietà dell’immobile, ma alla capacità di spesa sottesa, attribuita alla sola moglie, avendo quest’ultima partecipato all’atto e sostenuto l’esborso.
Con ricorso per cassazione, notificato il 31 gennaio 2011, G. D. ha impugnato la sentenza di secondo grado, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 e 5, cod.proc.civ.
L’Agenzia delle Entrate si è costituita tardivamente al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso, con cui si è denunciata la violazione o falsa applicazione dell’art. 177 cod.civ., dovendosi ritenere il prezzo dei beni acquistati dai coniugi in regime di comunione legale “pagato da entrambi quale ulteriore manifestazione della contitolarità e comproprietà di tutto quanto si forma in costanza di matrimonio”, è infondato.
Nell’accertamento sintetico il maggior reddito viene desunto da una spesa sostenuta, per cui la rettifica si fonda su un procedimento logico a ritroso incentrato sulla presunzione secondo cui il costo è sopportato, salvo prova contraria, con il reddito del periodo d’imposta o di quelli immediatamente precedenti. Pertanto, anche in caso di incremento patrimoniale (nella specie, investimento immobiliare), la presunzione di una maggiore capacità contributiva deriva non dalla titolarità del nuovo bene, ma piuttosto dall’esborso effettuato, come confermato dall’art. 2, primo comma, del d.m. 10 settembre 1992, ai sensi del quale i beni e servizi rilevanti si considerano nella disponibilità della persona fisica che a qualsiasi titolo o anche di fatto utilizza o fa utilizzare i beni o riceve o fa ricevere i servizi ovvero “sopporta in tutto o in parte i relativi costi”. In questo senso risulta, del resto, orientata la giurisprudenza di legittimità laddove esclude che l’accertamento sintetico possa fondarsi su un acquisto avvenuto senza alcun esborso attuale di danaro – ad esempio, tramite emissione di cambiale o accollo del debito (così, tra le tante, Sez. 6-5, n. 4748 del 23/02/2017, Rv. 643332-01, ai fini dell’accertamento del reddito con il metodo sintetico di cui all’art. 38, commi quarto e quinto, del d.P.R. n. 600 del 1973 nel testo, vigente “ratione temporis”, tra la I. n. 413 del 1991 ed il d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., dalla I. n. 122 del 2010, non è sufficiente l’acquisto di un bene attraverso il mero accollo di un debito o con emissione di cambiali, atteso che tale pattuizione non integra un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento, ma solo una modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato passivo, sicché non comporta un’attuale erogazione di spesa per incrementi patrimoniali e, dunque, non costituisce effettiva ed attuale espressione di capacità economica).
Da tali premesse consegue che, in caso di acquisto da parte di una persona in regime di comunione legale, non conta, ai fini presuntivi, la circostanza che il bene sia, a prescindere dalla partecipazione all’atto e/o dalla formale intestazione, in comproprietà di entrambi i partners, ma piuttosto la provenienza delle somme usate per il pagamento del corrispettivo, unico elemento indiziario che può giustificare l’accertamento a carico di entrambi o di uno soltanto dei coniugi, dei civilmente uniti o dei conviventi che abbiano optato, con il contratto di cui all’art. 1, comma 50, della I. n. 76 del 2016, per tale regime.
In proposito, come si desume dal combinato disposto degli artt. 177 e 179 cod.civ. (da coordinare con l’art. 4, comma primo, lett. a, del d.P.R. n. 917 del 1986 quanto alla qualificazione tributaria delle somme utilizzate), gli acquisti a titolo oneroso ricadono nella comunione legale se sono impiegati: 1) denaro e beni della comunione, che fiscalmente costituiscono redditi di ciascuno dei coniugi per metà del loro ammontare netto o per la diversa quota stabilita ai sensi dell’art. 210 cod.civ., 2) proventi dell’attività separata, inclusi nella cd. “comunione de residuo”, che fiscalmente costituiscono reddito imputato al solo coniuge percettore per l’intero ammontare, 3) danaro ricavato dall’alienazione di beni personali alle condizioni di cui all’art. 179 lett. f cod. civ. Non vi è, dunque, alcuna certezza che il nuovo bene, pur ricadendo nella comunione legale, sia acquistato con provvista comune, potendo provenire il danaro utilizzato da uno solo dei coniugi – situazione che, peraltro, risponde alla stessa ratio dell’istituto, che è quella di far beneficiare il coniuge economicamente più debole delle possibilità economiche dell’altro.
In tale situazione di incertezza gli unici elementi indiziari che, prima facie e secondo l’id quod plerumque accidit, possono essere valorizzati ai fini dell’accertamento sintetico di cui all’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973 sono costituiti, pertanto, dalla effettiva partecipazione all’atto e dal pagamento del prezzo, sicché, laddove uno soltanto dei coniugi stipuli formalmente il contratto ed in quell’occasione sostenga materialmente l’esborso, l’Amministrazione finanziaria può legittimamente procedere all’accertamento sintetico nei suoi confronti, salva la possibilità della prova contraria che incombe, anche in considerazione del principio di vicinanza della prova, sul contribuente, il quale può allegare e dimostrare non solo che la provvista è costituita da redditi esenti, ma anche eventualmente che è costituita da redditi comuni o di titolarità esclusiva dell’altro coniuge.
Da tali premesse deriva l’enunciazione del seguente principio di diritto: “ai fini dell’accertamento sintetico di cui all’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione a spesa per incrementi patrimoniali, l’esborso per l’acquisto di un bene in comunione legale può legittimamente essere considerato dall’Amministrazione finanziaria come sostenuto esclusivamente dal partner che abbia da solo stipulato il contratto e pagato il prezzo, salva la prova contraria da parte del contribuente, atteso che dal regime della comunione legale non deriva alcuna presunzione relativamente alla provenienza comune delle somme utilizzate per i nuovi acquisti”.
2. Il secondo motivo di ricorso risulta inammissibile.
Nella prima parte del motivo si denuncia non l’omessa motivazione in ordine ad un fatto storico, ma in ordine alla mancata applicazione del regime giuridico della comunione, per cui la censura è ascrivibile alla violazione di legge e risulta, peraltro, del tutto coincidente con quella di cui al primo motivo. In proposito, può richiamarsi Cass., Sez. 2, n. 26292, del 15/12/2014 (Rv. 634151 – 01), secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ., concerne esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche.
Nella seconda parte del motivo si lamenta, invece, l’omessa motivazione in ordine all’ininfluenza delle prove fornite relativamente alla provenienza delle somme impiegate nell’acquisto del 29 maggio 1996, pari a £ 535.000.00. In proposito va ricordato che, secondo la giurisprudenza consolidata, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato
dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire alla Suprema Corte il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere compiuto sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (così, tra le tante, Cass., Sez. 6-5, n. 48 del 03/01/2014, Rv. 629011 – 01, e Cass. – 01, e Cass., Sez. 6 – L, n. 17915 del 30/07/2010, Rv. 614538 – 01; da ultimo, Sez. 6 – 3, n. 19048 del 28/09/2016, Rv. 642130 – 01, il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – di produrlo agli atti, specificando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso: la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile).
Nel caso di specie, il motivo è carente, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, cod.proc.civ., di qualsiasi specificazione circa le prove fornite. In proposito occorre sottolineare che solo nella parte del ricorso dedicata allo svolgimento del processo e non in quella dedicata alla formulazione dei motivi la ricorrente ha dedotto in modo generico di aver prodotto “due atti di vendita con cui i coniugi Bianchini-Goatelli, rispettivamente genitori e suoceri dei coniugi Bianchini Mario e D. G., alienavano alcuni immobili”, senza né trascrivere il loro contenuto né precisare il momento e la sede processuale di produzione e soprattutto senza effettuare alcun riferimento puntuale alle asserite donazioni del ricavato delle vendite, da parte dei rispettivi genitori, ai due coniugi, e, cioè, ai soli atti che potrebbero avere una rilevanza probatoria circa la provenienza di una parte delle somme impiegate nell’acquisto in esame (e, cioè, nella prospettazione di parte ricorrente di £102.000.000).
3. Le spese devono essere compensate in considerazione della peculiarità della questione di diritto risolta, che esige il coordinamento della disciplina tributaria e civilistica, su cui non constano ancora precedenti specifici di questa Corte, in quanto Sez. 5, n. 11213 del 20/05/2011 e Sez. 5, n. 28415 del 19/12/ 2013 (quest’ultima tra le stesse parti della presente controversia) non affrontano specificamente la problematica dell’asserita violazione dell’art. 177 cod. civ.
P.Q.M.
a) rigetta il ricorso;
b) dichiara integralmente compensate le spese del presente grado di giudizio.
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