Licenziamento – Per giustificato motivo soggettivo – Scontrino non emesso – Appropriazione di denaro – Prova
Fatto
Con sentenza 27 febbraio 2014, la Corte d’appello di Venezia rigettava l’appello proposto da M. G. s.r.l. avverso la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla predetta il 4 gennaio 2011 per giustificato motivo soggettivo con preavviso al proprio dipendente G. P., per non aver emesso il 18 novembre 2010 alle ore 18,40 uno scontrino di € 5,30, per la vendita di due tranci di pizza quale addetto al banco pizzeria della società presso il buffet della stazione ferroviaria S. Lucia di Venezia, comportante una sanzione di € 134,16 comminata da agenti della Guardia di Finanza, intervenuti nell’immediatezza.
In esito a critico e argomentato esame delle risultanze istruttorie, nel rispetto di una corretta ripartizione dell’onere della prova, la Corte territoriale escludeva, come già il primo giudice, la consistenza della condotta del lavoratore nel notevole inadempimento previsto dal giustificato motivo soggettivo, in assenza di prova della sua appropriazione (neppure contestata dalla datrice) del denaro corrispondente allo scontrino non emesso: piuttosto da ricondurre ad una negligenza giustificabile per l’intensa affluenza di clientela in quell’orario.
Essa riteneva tanto più sproporzionato il licenziamento intimato al fatto contestato, in considerazione dell’assenza di alcun precedente in sedici anni di lavoro di G. P. alle dipendenze di M. G. s.r.l., nonché dell’esiguità della sanzione da questa ricevuta e dall’assenza di danno all’immagine.
Con atto notificato il 27 agosto 2014, la società datrice ricorre per cassazione con due motivi, cui resiste il lavoratore con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Il collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.
Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 2104 e 2106 c.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per l’erronea riconduzione del comportamento illecito del lavoratore ad una mera disattenzione, cosi ravvisando il difetto di proporzionalità rispetto ad esso del licenziamento intimato, invece adeguata reazione ad un inadempimento estremamente grave, anche per la sempre maggiore severità legislativa verso l’evasione fiscale e la crescente sua intolleranza dall’opinione pubblica.
Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 legge 604/1966, 1455 e 1564 c.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per erronea valutazione delle norme denunciate, ai fini della (non) ravvisata sussistenza del notevole inadempimento integrante il giustificato motivo soggettivo del licenziamento intimato, alla luce delle circostanze del fatto, nell’ininfluenza della speciale tenuità del danno patrimoniale arrecato, laddove vulnerato il vincolo fiduciario tra le parti.
I due motivi possono essere congiuntamente esaminati, per ragioni di stretta connessione.
Essi sono inammissibili.
Ed infatti, non si configurano le violazioni di legge denunciate, in difetto degli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
I due mezzi si risolvono piuttosto in un’evidente sollecitazione al riesame del merito, per la contrapposizione dell’interpretazione del fatto, propria della ricorrente, a quella della Corte territoriale. Ma l’accertamento del fatto e la valutazione probatoria sono di esclusiva pertinenza del giudice di merito e sono pertanto insindacabili in sede di legittimità, laddove sorretti da una motivazione congrua (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694): come appunto nel caso di specie, per le corrette e adeguate argomentazioni svolte dalla Corte lagunare (per le ragioni esposte ai p.ti da 7 a 9, 11 e 12 da pg. 5 a pg. 7 della sentenza).
E le doglianze, così interpretate nella loro effettiva consistenza al di là del tenore di formulazione, sono tanto più inammissibili, alla luce del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis, non riguardando l’omesso esame di un fatto storico ma della sua (non condivisa) valutazione, preclusa per assoluta incompatibilità (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 26 maggio 2014, n. 11728; Cass. 17 febbraio 2011, n. 3869).
Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente l’inammissibilità del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 3.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.