CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 giugno 2017, n. 15209

Licenziamento – Contestazione disciplinare – Insubordinazione – Espressioni lesive dell’onore dell’Ordine degli Avvocati

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Bologna, adita in via principale dall’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia e in via incidentale da A.V., in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto il ricorso proposto da quest’ultima nei confronti dell’Ordine degli Avvocati, ricorso volto all’accertamento della nullità, illegittimità ed inefficacia del licenziamento intimato il 12.5.2005, alla pronuncia dei provvedimenti restitutori, economici e reali ed alla condanna dell’Ordine al risarcimento dei danni ulteriori patrimoniali e non patrimoniali (morale, biologico, esistenziale, alla professionalità, all’immagine alla dignità professionale ed alla perdita di occasioni di lavoro).

2. La Corte territoriale ha rilevato che: dalla istruttoria era emerso che la V. aveva commesso le condotte oggetto di contestazione disciplinare e poste a base del licenziamento (pronuncia a gran voce ed in presenza di terzi di espressioni gravemente infamanti, gratuitamente offensive e diffamatorie e lesive dell’onore e del decoro del Consiglio e delle altre collaboratrici in servizio, plurimi episodi di insubordinazione e rifiuto di prestare servizio allo sportello e di effettuare la protocollazione degli atti, prolungata perdita dell’autocontrollo).

3. Ha, quindi, ritenuto che la condotta così ricostruita fosse sussumibile entro la fattispecie tipizzata dall’art. 16 c. 8 del CCNL di Comparto, che punisce con la sanzione del licenziamento senza preavviso le “violazioni di doveri di comportamento, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da compromettere irreparabilmente il rapporto di fiducia con l’Amministrazione e da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro e “la commissione anche nei confronti di terzi “di fatti o atti dolosi che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro”. Ha affermato che la condotta era grave, avuto riguardo alla pluralità dei comportamenti, alla rilevanza penale, alla lesione del principio di gerarchia ed al fatto che esse erano indicative della totale assenza della capacità autocontrollo in situazioni di normali e fisiologici contrasti con le colleghe di lavoro ed ha ritenuto che l’applicazione di una sanzione conservativa si sarebbe rilevata inadeguata a tutelare l’interesse dell’Ente datore di lavoro, a nulla rilevando, sul piano della gravità e sulla ricaduta della condotta sull’elemento fiduciario, la mancata verificazione di danni.

4. La Corte territoriale ha escluso la natura ingiuriosa del licenziamento ed ha ritenuto che non era stata provata la commissione di atti vessatori in danno della lavoratrice, costituendo la disposta sospensione cautelativa dal servizio della lavoratrice espressione della autotutela prevista dall’art. 29 del CCNL del 1995.

5. Avverso detta sentenza A.V. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico articolato motivo, illustrato da successiva memoria, al quale ha resistito con controricorso l’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia.

Motivi della decisione

Sintesi del motivo

6. La ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del CCNL Enti Pubblici non economici del 9.10.2003, dei principi di proporzionalità e gradualità della sanzione e dell’art. 2106 c.c.

7. Lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare e di applicare i principi di gradualità e di proporzionalità enunciati dall’art. 16 del CCNL richiamato nella rubrica, deducendo che la rilevanza penale di condotte disciplinarmente rilevanti è punita dal 5 comma dell’art. 16 con la sanzione conservativa della sospensione dal servizio sino a 10 giorni e che anche in relazione a fatti ben più gravi (sistematici e reiterati atti e comportamenti aggressivi ostili e denigratori, forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di altri dipendenti al fine di procurare danni in ambito lavorativo o di esclusione dal contesto lavorativo) di quelli che erano stati posti a fondamento della contestazione disciplinare e del i licenziamento, l’art. 16 commina la sanzione conservativa della sospensione dal servizio da 11 giorni a sei mesi.

8. Assume che la sentenza, nella parte in cui ha sussunto i comportamenti oggetto di contestazione disciplinare entro la fattispecie descritta nell’art. 16 c. 8 del CCNL, avrebbe forzato il dato normativo contrattuale per far rientrare nell’ambito dell’illecito ivi tipizzato la condotta addebitata nonostante l’assenza della “terza recidiva nel biennio di minacce, ingiurie, gravi calunnie e diffamazione”. Deduce che i comportamenti posti in essere avevano carattere unitario per essere stati compiuti in un’unica unità di tempo e di luogo.

9. Sostiene che la sentenza sarebbe illogica e insufficientemente motivata e che, in relazione alla proporzionalità tra la condotta contestata e posta a base del licenziamento e la sanzione espulsiva, la Corte territoriale avrebbe formulato un giudizio astratto, privo di concreto riferimento ai criteri valutativi contenuti nell’art. 16 del CCNL. Deduce l’assenza della intenzionalità della condotta sul rilievo di essere afflitta da uno stato di forte prostrazione e che non si era verificato a causa del suo comportamento nessun danno o pericolo di danno.

Esame del motivo

10. Il ricorso è infondato e va rigettato.

11. Il motivo, al di là della titolazione della rubrica, che richiamando l’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., denuncia violazione o falsa applicazione delle norme di legge e del contratto collettivo, reputa in sostanza non corretta la sussunzione del fatto nell’archetipo negoziale collettivo secondo prospettazioni che restano estranee al perimetro del vizio denunziabile ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. perché sono correlate essenzialmente al giudizio valoriale di gravità formulato dalla Corte territoriale ed alla denuncia di illogicità e insufficienza motivazionale.

12. E’ utile osservare che, anche con riferimento alle ipotesi, quali quella in esame, di illeciti disciplinari tipizzati dalla contrattazione collettiva, debba escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto (ex plurimis Cass. 10842/2016, 1315/2016, 24796/2010, 26329/2008). La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi, come è stato affermato nelle pronunce innanzi richiamate è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative ex art. 11, I. n. 689 del 1981, etc.), e risulta trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari.

13. E’, poi, indubitabile che l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme elastiche come quelle citate non sfugge alla verifica in sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi (anche costituzionali) desumibili dall’ordinamento (ex multis Cass. 21351/2016, 12069/2015, 692/2015, 25608/2014, 6501/2013, 6498/2012, 8017/2006, 10058/2005, 5026/2004).

14. Al riguardo è stato ripetutamente affermato da questa Corte che la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass. 1977/2016, 1351/2016, 12059/2015, 25608/2014 del 2014).

15. E’ stato anche precisato quanto a quest’ultimo che, al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto. (Cass. 13512/2016, 5548/2010).

16. Nel caso di specie, parte ricorrente propone un diverso apprezzamento della gravità dei fatti e della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo della giusta causa, apprezzamento che, ponendosi sul piano del giudizio di fatto, è demandato al giudice di merito ed è sindacabile in cassazione solo a condizione che la contestazione contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 5707/2017, 23862/2016, 7568/2016, 2692/2015, 25608/2014, 6498/2012, 5095/2011, 35/2011, 19270/2006, 9299/2004), incoerenza che non è ravvisabile nella sentenza impugnata.

17. Questa, infatti, ha tratto il giudizio di proporzione della sanzione risolutiva rispetto ai fatti contestati, nei termini risultati accertati, non in considerazione delle sole tipizzazioni degli illeciti disciplinari contenute nell’art. 16 del CCNL del Comparto Enti Pubblici non Economici del 9.10.2003, ma con applicazione dei principi affermati da questa Corte in tema di giusta causa di licenziamento (cfr. punto 15 di questa sentenza).

18. La valutazione è stata, poi, formulata non in via astratta, come opina la ricorrente, ma in considerazione degli aspetti concreti del rapporto dedotto in giudizio, del ripetuto rifiuto di svolgere le mansioni affidate (servizio allo sportello, protocollazione degli atti), della rilevanza penale dei comportamenti (espressioni ingiuriose e diffamatorie contrarie al decoro ed all’onore del datore di lavoro e delle colleghe di lavoro), del clamore dei comportamenti (avvertiti anche da soggetti estranei all’Ordine), della protrazione nel tempo della condotta e dell’elemento intenzionale, tratto dalla manifestata incapacità di gestire in maniera controllata le relazioni (ed i contrasti con le colleghe) nell’ambito di un contesto lavorativo di normalità (cfr. punto 3 di questa sentenza). Va rilevato, quanto all’elemento soggettivo, che la dedotta condizione di prostrazione psicologica, che, peraltro, la ricorrente non allega di avere sottoposto all’attenzione della Corte territoriale, non sarebbe idonea ad infirmare la coerenza del giudizio valoriale di gravità formulato nella sentenza impugnata (cfr punto 16 di questa sentenza).

19. Il motivo è poi inammissibile nella parte in cui, sotto l’apparente denuncia del vizio di violazione dell’art. 2106 c.c., addebita alla Corte territoriale irragionevolezza e insufficienza motivazionale, censura che è ormai inammissibile, avuto riguardo alla nuova formulazione dell’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. (la sentenza è stata pubblicata il 27.3.2014), il quale consente di denunciare in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza” della motivazione. Perché la violazione sussista si deve essere in presenza di un vizio “così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. Mancanza di motivazione che è configurabile quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo “talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del “decisum” (Cass. SSUU 8053/2014).

20. Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame, avendo la Corte di appello esaustivamente motivato le ragioni della decisione in ordine alla sussunzione della condotta posta a base del licenziamento entro la fattispecie sanzionata dall’art. 16 c. 8 del richiamato CCNL, alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, alla proporzione della sanzione espulsiva rispetto ai comportamenti contestati), alla intenzionalità della condotta (cfr. punti 2, 3, 17 e 18 di questa sentenza).

21. Sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso va rigettato.

22. Le spese seguono la soccombenza.

23. Ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 2.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre 15% per rimborso spese generali forfettarie, oltre IVA e CPA.

Ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.