CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 aprile 2017, n. 10154

Licenziamento – Assenza dal lavoro non giustificata da uno stato di malattia – Compatibilità con la possibilità della prestazione lavorativa

Fatto

Con sentenza 19 giugno 2015, la Corte d’appello di L’Aquila rigettava il reclamo proposto da G. M. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto l’opposizione all’ordinanza emessa dallo stesso Tribunale, di rigetto delle sue domande di nullità o annullamento del licenziamento intimatogli dalla datrice S. s.p.a. il 4 luglio 2014 per insussistenza del fatto contestato e di conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria.

Preliminarmente chiarita la giustificazione della mancata assoluzione dell’obbligo di prestazione lavorativa per uno stato di malattia consistente in una alterazione della condizione di salute, non già per una mera varietà di agenti patogeni, se non di entità tale da determinare un’incapacità lavorativa assoluta, la Corte territoriale escludeva alcuna modificazione della contestazione disciplinare né dalla datrice con il licenziamento intimato, né tanto meno dal Tribunale; e così pure l’integrazione di uno stato di malattia rilevante ai fini in esame, per le risultanze della esperita C.t.u. psichiatrica, esente dai plurimi vizi denunciati dal lavoratore reclamante, disattesi con argomentazioni diffuse.

Con atto notificato il 25 luglio 2015, G. M. ricorre per cassazione con tre motivi, cui resiste S. s.p.a. con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 I. 300/1970, 2104, 2105 e 2106 c.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per difetto di una specifica contestazione datoriale fondante il licenziamento disciplinare intimato, ridondante nella lesione del proprio diritto di difesa, in assenza di precisazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti, a fronte della giustificazione delle assenze lavorative per condizione di malattia certificata.

Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per erronea assunzione della propria scorrettezza e malafede nella protratta assenza dal lavoro dietro prescrizione medica.

Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., per nullità della sentenza, a causa di evidente contrasto tra affermazioni inconciliabili, quali l’esclusione di una contestazione datoriale di simulazione di malattia del lavoratore e le validate risultanze della C.t.u. medico-legale, di esplicita induzione del medico curante in errore dal medesimo lavoratore, condizionato dalla rappresentazione di uno stato di salute inveritiero per interesse personale.

Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 I. 300/1970, 2104, 2105 e 2106 c.c., per difetto di specifica contestazione datoriale a base del licenziamento disciplinare intimato, è infondato.

Ed infatti, deve essere esclusa la violazione del principio di genericità della contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, allo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa, sicché essa deve essere dotata del carattere della specificità. E questo è integrato quando siano fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. (Cass. 30 marzo 2006, n. 7546; Cass. 15 maggio 2014, n. 10662).

Il relativo accertamento è oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (Cass. 30 marzo 2006, n. 7546; Cass. 23 marzo 2002, n. 4187).

Nel caso di specie, il principio scrutinato è stato rispettato per la più che sufficiente specificità della lettera di contestazione 20 giugno 2014 (trascritta a pg. 1 del ricorso), come correttamente ritenuto, con argomentazione congrua ed esente da vizi logicogiuridici, in esatta applicazione del suenunciato principio di diritto, dalla Corte territoriale, che ha chiaramente illustrato (per le ragioni esposte dal primo capoverso di pg. 6 al quinto alinea di pg. 7 della sentenza) come il licenziamento sia stato intimato al lavoratore per la sua protratta assenza dal lavoro, non giustificata da uno stato di malattia non incompatibile con la possibilità della sua prestazione.

Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., per erronea assunzione della scorrettezza e malafede del lavoratore nella protratta assenza dal lavoro dietro prescrizione medica, è inammissibile.

Esso è generico.

Il motivo confuta, infatti, solo parzialmente e pertanto in modo inadeguato (in violazione della prescrizione di specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c., che esige l’illustrazione del motivo con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza: Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202) l’ampia ed esauriente esclusione della giustificazione della protratta assenza dal lavoro per malattia, sulla base dell’inidonea certificazione medica (per le ragioni esposte da pg. 6 a pg. 10 della sentenza).

Ad essa si è aggiunto un comportamento del lavoratore non integrante un impegno di leale cooperazione (Cass. 3 maggio 2011, n. 9714), cui il lavoratore è tenuto in qualità di debitore della prestazione lavorativa, non giustificabile con rappresentazioni soggettive a spiegazione della propria condotta (Cass. 14 agosto 2008, n. 21680).

Né un tale comportamento di allontanamento del lavoratore dalla propria abitazione con ripresa delle attività della vita privata è stato determinato dall’ottemperanza a prescrizioni del medico curante (Cass. 21 marzo 2011, n. 6375).

In ogni caso, l’accertamento in fatto del giudice di merito, in quanto nel caso di specie congruamente motivato per le ragioni suindicate, è insindacabile in sede di legittimità (Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 26 aprile 2012, n. 6498).

Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., per nullità della sentenza, a causa di evidente contrasto tra affermazioni inconciliabili, è pure inammissibile.

Non sussiste la nullità della sentenza denunciata, posto che non ricorre la totale omissione, per materiale mancanza, della parte della motivazione riferibile ad argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione (Cass. 22 giugno 2015, n. 12864). E neppure è impossibile l’individuazione degli elementi di fatto considerati e presupposti della decisione, avendo anzi l’atto raggiunto il suo scopo (Cass. 10 novembre 2010, n. 22845).

Sicché, in realtà si tratta della deduzione di un vizio di motivazione contraddittoria, inammissibile alla luce del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna G. M. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.