CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 febbraio 2018, n. 4215
Socio lavoratore di cooperativa – Natura subordinata del rapporto di lavoro – Licenziamento nullo intimato oralmente
Svolgimento del processo
1) La Corte d’Appello di Brescia ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Bergamo, che aveva accolto la domanda di N.I., socia della Cooperativa C., solo con riferimento all’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercoso con la società, condannando la cooperativa al pagamento di differenze retributive. La corte territoriale ha accolto anche la domanda svolta dalla lavoratrice di accertamento dell’illegittimità dell’allontanamento, con condanna della cooperativa al pagamento delle retribuzioni sino al ripristino del rapporto di lavoro.
2) La Corte territoriale ha ritenuto che la prestazione lavorativa della I. si era svolta con le caratteristiche del lavoro subordinato, avendo la lavoratrice svolto la prestazione lavorativa, nelle varie realtà aziendali delle società appaltanti, osservando le direttive della responsabile della cooperativa e sottostando ai controlli di costei, osservando l’orario di ingresso e di uscita dal lavoro e giustificando le assenze; che non era emerso dalle testimonianze raccolte alcun elemento riconducibile ad un’attività svolta in autonomia, come eccepito dalla cooperativa.
3) Secondo la corte l’estromissione orale della lavoratrice equivaleva ad un licenziamento nullo intimato oralmente e che, stante la mancanza di interruzione del rapporto, la cooperativa era tenuta al ripristino dello stesso, oltre al pagamento delle retribuzioni sino all’effettivo ripristino.
4) Ha proposto ricorso per Cassazione C., affidato a cinque motivi. Ha resistito la cooperativa con controricorso.
Motivi della decisione
5) Con il primo motivo di ricorso la Cooperativa ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 437 c.p.c , ex art. 360 n.3 c.p.c., per non avere la corte territoriale rilevato che le conclusioni di appello contenevano domande nuove, in quanto: a) In primo grado la lavoratrice aveva chiesto dichiararsi l’illegittimità dell’allontanamento posto in essere nei suoi confronti e per l’effetto condannare la cooperativa a risarcirla per il danno subito, con corresponsione delle retribuzioni tutte perdute dal 1.4.2008 sino al ripristino della funzionalità del rapporto; b) in appello la stessa aveva invece chiesto dichiararsi non interrotto il rapporto e condannarsi la società al pagamento delle retribuzioni sino all’effettiva reintegrazione. A dire della ricorrente si tratterebbe di domande diverse.
6) Il motivo è infondato. Da quanto riportato sia nella sentenza impugnata, sia nelle conclusioni degli atti introduttivi di primo grado e poi di appello, trascritte nel ricorso che si esamina, si desume chiaramente che, aldilà delle espressioni utilizzate che sembrerebbero apparentemente riferirsi ad un petitum alquanto diverso, in realtà l’oggetto della domanda è lo stesso. In entrambe le richieste la lavoratrice ha chiesto il pagamento delle retribuzioni maturate dall’aprile 2008, data dell’allontanamento, sino al ripresa dell’attività lavorativa, qualificata in primo grado come “ripristino del rapporto”e in appello come “reintegrazione”, ma chiaramente dirette a chiedere le retribuzioni non percepite sin dall’atto di licenziamento. La sentenza d’appello, sul punto riformando quella di primo grado, ha accolto la domanda della lavoratrice individuando un licenziamento orale, dunque inefficace, con conseguente ripristino del rapporto, ma ritenendo che non si richiedesse in tal caso alcun atto di messa in mora, trattandosi di un licenziamento. La corte di merito ha escluso implicitamente che si fosse in presenza di un rapporto rientrante nell’area della tutela obbligatoria che, ove accertato, avrebbe comportato soltanto una tutela risarcitoria da determinarsi, secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, solo a far tempo da un atto di messa in mora, secondo giurisprudenza costante di questa Corte (cfr tra le tante Cass. n. 11670/2006; Cass. n.19344/2007; Cass. n. 18844/2010, Cass. n. 13669/2016). Tuttavia tale punto della decisione non è stato oggetto di impugnazione e dunque è divenuto irrevocabile.
7) Con il secondo motivo di ricorso si denuncia un’omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.1.n.5. Secondo la ricorrente circostanza decisiva e controversa sarebbe stata quella di accertare l’esercizio di un potere direttivo e gerarchico o meno da parte di C.. La corte non avrebbe individuato le fonti probatorie del proprio convincimento, ma neppure esplicitato il ragionamento con cui le fonti probatorie l’avrebbero portata al convincimento espresso nella sentenza.
8) Il motivo cosi come posto è inammissibile. La corte ha evidenziato le circostanze di fatto che erano state accertate in causa relative alla natura subordinata del rapporto, con riferimento in primo luogo al potere direttivo e di controllo, quindi gerarchico, esercitato dalla responsabile A.M. per conto della cooperativa, poi con riferimento anche ad altri elementi sussidiari (timbratura in ingresso ed in uscita e all’inizio di una pausa, recupero dei ritardi e giustificazione delle assenze, modalità retributive). La Corte bresciana ha poi escluso che dalle testimonianze fosse emerso alcun elemento di fatto riconducibile all’autonomia della prestazione lavorativa. Il non aver riportato il nominativo dei testi escussi non comporta alcun vizio motivazionale, ove non siano presenti elementi di contraddittorietà o di insufficienza, come nel caso in esame.
9) Con il terzo motivo di gravame si lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n.3 c.p.c., perché nel ricorso di primo grado nulla era stato dedotto di specifico al fine di provare il carattere subordinato del rapporto con la cooperativa e che, contrariamente a quanto asserito dalla lavoratrice, la cooperativa non aveva responsabili con il nome indicato dalla I., non aveva imposto un preciso orario di lavoro, non potendosi confondere la subordinazione con il coordinamento organizzativo necessario del lavoro dei soci.
10) Il motivo, che peraltro si ricollega a quello precedente, è inammissibile perché non censura alcun preciso errore percettivo della corte attinente alla ricognizione del contenuto oggettivo delle prove, per aver la stessa posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, errore peraltro sindacabile in caso di errore percettivo a norma dell’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. (cfr, Cass. n. 9356/2017), ma lamenta in maniera generica e priva di collegamento con la norma che si denuncia violata, la mancata specificità delle deduzioni contenute nel ricorso introduttivo del primo giudizio, relative agli elementi in fatto identificativi della subordinazione, a cui la ricorrente contrappone quelli, di opposto tenore, dedotti nella memoria di costituzione e finisce pur sempre per lamentare un errore di valutazione in cui sarebbe incorsa la corte di merito, che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare, errore che non è mai sindacabile in sede di legittimità (Cfr Cass. 9356/2017 citata).
11) Con il quarto motivo di ricorso la cooperativa deduce l’omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio ai sensi dell’art. 360 comma 1 n.5 c.p.c.,
consistito nel mancato esame del suo Regolamento interno applicato a tutti i soci, sia autonomi che subordinati, e che disciplina espressamente i casi di mancanza di lavoro e la sospensione temporanea dell’attività lavorativa, con conseguente sospensione delle reciproche obbligazioni.
12 ) Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. E’ inammissibile in quanto, pur avendo la ricorrente indicato la collocazione nel proprio fascicolo del regolamento, quale documento prodotto, non trascrive e quindi non riporta con completezza in ricorso le statuizioni rilevanti che si collegherebbero alla questione oggetto di censura, ma si limita a trascrivere soltanto parte dell’art.9 di tale regolamento, che stabilisce che ..”a seguito di riduzione o mancanza momentanea di lavoro, i soci ammessi non possono esercitare la loro attività o possono esercitarla solo ad orario ridotto”.
13) Ma comunque il motivo è infondato, perché tende in realtà pur sempre al riesame di questioni di merito, già vagliate dalla corte d’appello in base alle risultanze testimoniali raccolte in primo grado — quali il potere direttivo e il controllo sulla prestazione lavorativa esercitato da una responsabile della cooperativa, l’obbligo della socia lavoratrice di rispettare un orario di lavoro impostole dalla cooperativa, l’obbligo di timbrare l’entrata e l’uscita- in base a cui la corte territoriale ha desunto, con motivazione esente da vizi logici e quindi insindacabile in questa sede, la natura subordinata del rapporto di lavoro e la conseguente nullità della estromissione, avvenuta oralmente.
13) con il quinto motivo di ricorso la cooperativa deduce l’omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.1.n.5 c.p.c..
La Corte avrebbe omesso di valutare l’offerta rivolta da C. alla lavoratrice, dopo la cessazione dell’attività presso la ditta C. ove la stessa era occupata, di un nuovo posto di lavoro in altro appalto, offerta rifiutata dalla lavoratrice, come confermato dalla teste B., dipendente amministrativa.
14) Anche tale motivo è inammissibile atteso che la ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza, non riporta per completo le deposizioni testimoniali e anche l’interrogatorio della I., solo in parte trascritti, così non consentendo una verifica diretta delle risultanze istruttorie relative alla proposta di lavoro a suo dire non accettata, di cui lamenta l’omesso esame. Ma a ben vedere anche in tal caso la censura di fatto tende a fornire una diversa lettura delle risultanze testimoniali, che hanno portato la corte di merito a ritenere essere stato posto in essere un allontanamento definitivo, dunque un licenziamento in forma orale e non una mera comunicazione di sospensione temporanea del rapporto.
Il ricorso deve pertanto essere respinto, con condanna della cooperativa, soccombente, alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 4500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater DPR n.115/2002 , dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso , a norma del comma 1- bis dello stesso art.13 .
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