CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 giugno 2017, n. 30827
Professionista – Commercialista – Cancellazione dall’albo – Abusivo esercizio della professione di consulente del lavoro – Reato
Ritenuto in fatto
1. La sentenza n. 2176/2016 della Corte di appello di Trieste ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Trieste a T. Z. ex art. 348 cod. pen. per abusivo esercizio della professione di consulente del lavoro, ma ha ridotto la pena.
2. Nel ricorso di Z. si chiede annullarsi la sentenza per: a) mancanza dell’elemento psicologico del reato ex art. 348 cod. pen. stante che, come risulta dalla documentazione prodotta nel giudizio, Z. rappresentò compiutamente la sua situazione alla Direzione provinciale del Lavoro (Ispettorato del Lavoro) di Trieste; b) violazione dell’art. 47, comma 3, cod. pen. per essere l’imputato incorso in erronea rappresentazione di elementi materiali del reato e non in errore di diritto, cancellandosi dall’Ordine dei dottori commercialisti e ritenendo che la contestuale iscrizione all’Istituto nazionale revisori legali fosse sufficiente per espletare il lavoro; c) disconoscimento delle circostanze generiche, trascurando la buona fede del ricorrente.
Considerato in diritto
1. I primi due motivi di ricorso possono essere trattati unitariamente e risultano infondati.
1.1. L’errore di fatto, come falsa rappresentazione che può escludere la sussistenza dell’elemento psicologico, rileva se il soggetto si rappresenta la realtà di fatti che, se effettivamente sussistessero, escluderebbero l’antigiuridicità del suo comportamento (Sez. 6, n. 3485 del 25/02/1983, Rv. 158576). Invece, l’ignoranza della norma integratrice (perché in esso incorporata) del precetto penale non costituisce errore sul fatto ma ignoranza della legge penale, rilevante solo se inevitabile (Sez. 6, n. 27941 del 31/05/2016, Rv. 267390; Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, dep. 2014, Rv. 258991). L’errore rilevante ex art. 47, comma 3, cod. pen. è quello relativo alle norme extrapenali che non integrano quella incriminatrice (norme destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, non richiamate, esplicitamente o implicitamente, dal precetto penale), non anche quello circa le norme extrapenali integranti la norma incriminatrice (Sez. 2, n. 17205 del 19/04/2002, Rv. 22171201; Sez. 2, n. 148 del 22/10/1993, dep. 1994, Rv. 197026; Sez. 1, n. 8827 del 25/05/1983, Rv. 160844).
1.2. L’art. 348 cod. pen.è norma penale in bianco perché presuppone l’esistenza di altre disposizioni, integrative del precetto penale, che definiscono l’area oltre la quale non è consentito l’esercizio di determinate professioni: l’errore sulle norme da esso richiamate è quindi parificabile a errore sulla legge penale e non ha valore scriminante ex art. 47 cod. pen. (Sez. 6, n. 1632 del 06/12/1996, dep. 1997, Rv. 208185). In questo quadro normativo, la Corte di appello ha così argomentato (pag. 2): “Z., successivamente alla sua cancellazione dall’albo dei commercialisti, si è occupato per vari anni, a partire dal 26 febbraio 1999, reiteratamente, della tenuta e della trasmissione di documentazione fiscale, attività esplicitamente riservate ai professionisti iscritti all’albo, la pretesa buona fede dell’imputato deve escludersi con sicurezza, alla luce della qualifica professionale specializzata del medesimo, il cui grado di diligenza richiesto nella conoscenza della normativa in oggetto era maggiore, con conseguente esclusione della pretesa inevitabilità dell’errore (…) errore di diritto, in quanto tale inescusabile, alla luce delle specifiche competenze professionali del prevenuto, il quale ben avrebbe potuto accertare, presso gli organi competenti, i requisiti indispensabili per il legittimo svolgimento dell’attività professionale abusivamente esercitata”. Questa conclusione vale a fortiori se – come congruamente considerato, con esiti convergenti, dai giudici di merito – il ricorrente non era agli inizi della sua carriera professionale, avendo per molti anni operato proprio in un settore che necessariamente lo rende edotto delle questioni in materia (Sez. 6, n. 36410 del 3/06/del 2014; Sez. 6, n. 1632 del 06/12/1996, dep. 1997, Rv. 208185; Sez. 6, n. 1632 del 06/12/1996, dep. 21/02/1997, Rv. 208185).
2. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato. Il riconoscimento delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a fare emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo (Sez.6, n. 41365 del 28/10/2010, Rv.248737; Sez. l, 46954 del 04/11/2004, Rv.230591). Nel caso in esame, la Corte d’appello ha idoneamente esplicitato di non avere ritenuto concedibili le circostanze attenuanti generiche perché incompatibili con la “personalità dell’imputato, in relazione ai prolungato periodo in cui l’illecita condotta è stata reiteratamente posta i essere dal prevenuto nonché considerati i suoi precedenti penali, con particolare riferimento alla contestata e ritenuta recidiva reiterata”.
2. Dal rigetto del ricorso deriva ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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