CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 luglio 2017, n. 18031

Licenziamento – Dirigente – Danno da demansionamento nel periodo del distacco – Difetto del riassetto aziendale

Fatti di causa

Con sentenza 31 dicembre 2014, la Corte d’appello di Roma accertava il demansionamento di F.G. dal 29 marzo 2002 al 20 luglio 2004 e l’illegittimità del licenziamento intimatole il 20 luglio 2004 da S.I. s.p.a., che condannava al pagamento, in favore della prima, delle somme di € 102.600.0 per danno da demansionamento e di € 2.405,00 per danno biologico, oltre interessi legali e rivalutazione dalla data di messa in mora, nonché di € 118.750,00 per indennità supplementare, oltre interessi legali dalla maturazione del diritto: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato le domande della dirigente.

In esito ad attento scrutinio delle risultanze istruttorie, la Corte territoriale riteneva illegittimo il distacco della predetta dal 1° aprile 2002 al 31 marzo 2004 presso I.I. s.p.a., in mancanza di un interesse della datrice alla creazione di una professionalità anche commerciale alla lavoratrice distaccata, che già l’aveva maturata in S.I. nello svolgimento dell’incarico di Dirigente Tecnico di Area dal gennaio 1997 e quindi di I.S.D. per l’anno 2002.

Essa accertava quindi, per l’evidente riduzione di ampiezza e importanza dei compiti assegnatile, il demansionamento nel periodo del distacco, liquidandole in via equitativa, tenuto conto dell’entità temporale (ventisette mesi) e sul parametro della retribuzione globale di fatto da ultimo percepita (€ 9.500,00 mensili), la somma di € 102.600.0 a titolo risarcitorio del danno conseguente.

La Corte capitolina riteneva altresì l’illegittimità del licenziamento intimatole, privo di adeguata giustificatezza del comportamento datoriale, in difetto di alcun riassetto aziendale giustificante l’attribuzione a G. di un’inedita (minore) figura professionale, non in linea con la precedente e soppressa qualche mese dopo, a fronte del mantenimento di quella dalla medesima rivestita prima del distacco in IBM. In ragione di ciò, liquidava alla dirigente la somma di € 118.750,00, a titolo di indennità prevista dall’art. 19 CCNL Dirigenti di Aziende Industriali vigente.

Infine, essa riconosceva alla stessa la somma di € 2.405,00 per danno biologico subito, dal periodo di distacco fino alla data di licenziamento, sulla base della C.t.u. medico – legale esperita con la limitazione finale detta e delle tabelle adottate presso il Tribunale di Milano; con il rigetto di ogni altra domanda risarcitoria, in difetto di prova. Con atto notificato il 11 maggio 2015 S.I. (già s.p.a. ed ora) s.r.l. ricorre per cassazione con sei motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste F.G. con controricorso.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 437 c.p.c., per vizio di ultrapetizione sulle domande di demansionamento e di illegittimità del distacco, inammissibilmente proposte per la prima volta in grado di appello.

2. Con il secondo, la ricorrente deduce omesso esame del fatto controverso di incidenza della riorganizzazione aziendale sul demansionamento della lavoratrice erroneamente ritenuto.

3. Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., per erronea individuazione di un demansionamento della lavoratrice nella contrazione della clientela seguita e del personale coordinato, per l’occasione di sviluppo della professionalità offerta dall’incarico oggetto del distacco.

4. Con il quarto, la ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., per omessa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto giustificanti la condanna risarcitoria per demansionamento della lavoratrice.

5. Con il quinto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697 c.c. e 414 c.p.c., per erronea liquidazione del danno patrimoniale da demansionamento in difetto di sua allegazione e prova e del relativo nesso causale.

6. Con il sesto, la ricorrente deduce violazione del principio di diritto della sufficienza per il licenziamento del dirigente della sola giustificatezza, ricorrente nell’effettiva soppressione, per riorganizzazione aziendale, della posizione di direttore tecnico ricoperta dalla lavoratrice, anche se le mansioni siano ripartite tra altri, senza alcun obbligo di repechage, incompatibile con la posizione dirigenziale, assistita da un regime di libera recedibilità.

7. Il primo motivo, relativo a nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 437 c.p.c., per vizio di ultrapetizione sulle domande di demansionamento e di illegittimità del distacco, è infondato.

7.1. Deve infatti essere escluso il vizio denunciato, che si sostanzia nel divieto per il giudice di introdurre nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché esso ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato): così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass. 24 settembre 2015, n. 18868; Cass. 11 gennaio 2011, n. 455). Ma la Corte territoriale ha pronunciato sulle domande di demansionamento e di illegittimità del distacco della lavoratrice già proposte in primo grado e sulle quali si è pronunciato (in senso negativo) anche il Tribunale, come chiaramente si evince dalla contrapposizione dialettica istituita dal giudice di secondo grado con quello del primo (in ordine al distacco: dal secondo capoverso di pg. 3 all’ultimo di pg. 4 della sentenza; in ordine al demansionamento: dal primo capoverso di pg. 5 al primo di pg. 7 della sentenza) e risulta dall’integrale trascrizione delle conclusioni del ricorso introduttivo della lavoratrice, di accertamento delle specifiche fattispecie dedotte e di condanna al pagamento di una somma complessiva a titolo risarcitorio (a pgg. da 14 a 16 del controricorso), così come sinteticamente ma distintamente riportate dalla Corte territoriale nella parte espositiva della pronuncia di rigetto del Tribunale delle suddette domande (primo periodo, in particolare sub p.ti 1 e 3 di pg. 2 della sentenza).

8. Il secondo motivo, relativo ad omesso esame del fatto controverso dell’incidenza della riorganizzazione aziendale sul demansionamento della lavoratrice, è inammissibile.

8.1. Il profilo riorganizzativo, rilevante ai fini della verifica di (il)legittimità del licenziamento, è invece ex se ininfluente sull’accertamento del demansionamento, che riguarda il diverso potere datoriale (non già di recesso, ma) di esercizio dello ius variarteli, che deve essere valutato dal giudice di merito (con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato) in ordine all’omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente (Cass. s.u. 24 novembre 2006, n. 25033; Cass. 14 giugno 2013, n. 15010). E ciò integra un accertamento dell’aderenza effettiva delle nuove mansioni alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e della garanzia, al contempo, dello svolgimento e accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze, nell’irrilevanza dell’equivalenza formale fra le vecchie e le nuove mansioni (Cass. 3 febbraio 2015, n. 1916).

8.2. Sicché, il divieto di variazione peggiorativa, in violazione dell’art. 2103 c.c., comporta che al prestatore di lavoro non possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito, e garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali (Cass. 4 marzo 2014, n. 4989). E ciò anche qualora, in caso di nuovo assetto organizzativo disposto dal datore di lavoro, che comprenda la riclassificazione del personale concordata con le organizzazioni sindacali, le mansioni del lavoratore, a seguito di riclassificazione, risultino compatibili con la nuova qualificazione ma incompatibili con la sua storia professionale (Cass. 25 settembre 2015, n. 19037).

8.3. Pertanto, il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, non rilevando in alcun modo che l’assegnazione a mansioni inferiori sia temporanea, o effettuata solo per il tempo occorrente alla realizzazione di una nuova struttura produttiva (Cass. 21 agosto 2014, n. 18121, con specifico riferimento a dirigente responsabile di servizio di cali center).

8.4. In applicazione di tali principi, la Corte territoriale ha accertato il demansionamento della dirigente, dandone argomentato conto (per le citate ragioni dal primo capoverso di pg. 5 al primo di pg. 7 della sentenza), rispetto alle quali non interferisce il profilo di omesso esame denunciato.

9. Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. per erronea individuazione di un demansionamento della lavoratrice nella contrazione della clientela seguita e del personale coordinato, è infondato.

9.1. Posto che in tema di mansioni del lavoratore, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 c.c. sul divieto di demansionamento, non ogni loro modificazione quantitativa è sufficiente ad integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo (Cass. 11 luglio 2005, n. 14496; Cass. 5 maggio 2004, n. 8589), la Corte territoriale ha accertato proprio come, lungi dal costituire un’offerta di sviluppo della sua professionalità (così da escludere l’esercizio dello ius variarteli una violazione dell’art. 2103 c.c.: Cass. 27 giugno 2014, n. 14600), l’evidente riduzione delle mansioni abbia inciso negativamente sulla professionalità della dirigente.

10. Il quarto motivo, relativo a nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., per omessa esposizione delle ragioni giustificanti la condanna risarcitoria per demansionamento della lavoratrice, è inammissibile.

10.1. Non è infatti configurabile il vizio di error in procedendo denunciato, per l’articolazione della motivazione della sentenza impugnata, non meramente apparente né inintelligibile, in argomentazioni idonee a rivelarne chiaramente la ratio decidendi: sicché deve essere esclusa la ricorrenza dei requisiti della nullità denunciata, consistenti nell’impossibilità di individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti della decisione, in funzione della sua intelligibilità e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento (Cass. 8 gennaio 2009, n. 161; Cass. 10 novembre 2010, n. 22845; Cass. 20 gennaio 2015, n. 920; Cass. 22 giugno 2015, n. 12864). E la Corte territoriale ha esposto le ragioni della condanna risarcitoria in continuità logica (come non aveva potuto fare il Tribunale, per la sua esclusione: terz’ultimo capoverso di pg. 10 della sentenza) con il ravvisato demansionamento, per il periodo e i profili di dequalificazione accertati (ultimi due capoversi di pg. 10, in correlazione con le argomentazioni dal penultimo capoverso di pg. 5 al primo di pg. 7 della sentenza).

11. Il quinto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697 c.c. e 414 c.p.c. per erronea liquidazione del danno patrimoniale da demansionamento in difetto di allegazione e prova, è infondato.

11.1. Indubbia l’esclusione di automatica consequenzialità di un danno (in re ipsa) da demansionamento, non potendosi prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell’esistenza di un pregiudizio (Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327) e con particolare necessità, per la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore, della prova del danno e del relativo nesso causale con l’asserito demansionamento (Cass. 30 settembre 2009, n. 20980), è tuttavia ben possibile per il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato (Cass. 26 novembre 2008, n. 28274), desumere l’esistenza del relativo danno, di natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4652).

11.2. Ed è ciò che ha fatto la Corte capitolina, con accertamento in fatto congruamente motivato, ricavando il pregiudizio comportato dal demansionamento dall’entità del periodo e dei diversi profili di dequalificazione accertati (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 5 al primo di pg. 7 della sentenza) ed operando una prudente liquidazione in via equitativa, nel bilanciamento del parametro retributivo assunto a base con la loro concreta incidenza sul diminuito bagaglio di conoscenze (danno positivamente riscontrato, nucleo individuativo del patrimonio professionale pregiudicato) nell’arco temporale rilevato (ultimi due capoversi di pg. 10 della sentenza).

12. Il sesto motivo, relativo a violazione del principio di diritto della sola sufficienza per il licenziamento del dirigente della sua giustificatezza ricorrente nella soppressione effettiva della posizione ricoperta, è pure infondato.

12.1. Esclusa la pertinenza alla materia di un obbligo di repechage datoriale, per la libera recedibilità del rapporto di lavoro con il dirigente e di cui neppure la sentenza ha trattato, è noto come il licenziamento del dirigente non sia soggetto alle norme limitative dei licenziamenti individuali previste dagli artt. 1 e 3 I. 604/1966, n. 604, né la nozione di “giustificatezza”, posta dalla contrattazione collettiva al fine della legittimità del suo licenziamento, coincida con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall’art. 3 I. cit. (Cass. 20 dicembre 2006, n. 27197; Cass. 15 luglio 2009, n. 16499). Da ciò consegue che l’indennità supplementare, a norma dell’art. 19 CCNL dei dirigenti di aziende industriali del 27 aprile 1995, spetti al dirigente licenziato solo nei casi in cui il recesso non sia assistito da giustificatezza, che si può fondare su ragioni sia soggettive ascrivibili al dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale (Cass. 15 luglio 2009, n. 16498). Ed esse non coincidono necessariamente con l’impossibilità di continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale, tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. (Cass. 8 marzo 2011, n. 3628; Cass. 20 giugno 2016, n. 12668); fermo, in ogni caso, il principio per cui la possibilità che il licenziamento di un dirigente possa considerarsi giustificato, anche se derivante da esigenze di riorganizzazione aziendale, non esime il giudice dal controllare che esse siano effettivamente sussistenti e siano tali da coinvolgere la posizione del dirigente licenziato (Cass. 13 maggio 2015, n. 9796).

12.2. La Corte territoriale ha compiuto proprio un tale accertamento di inesistenza di “alcun riassetto aziendale in grado di giustificare l’attribuzione alla G. di una inedita figura professionale, non in linea con la precedente … risultando per converso provato il mantenimento in capo ad altro dirigente della stessa posizione già ricoperta dall’appellante prima del suo distacco in IBM” (così al terzo capoverso di pg. 10 della sentenza), riscontrato dalle scrutinate risultanze istruttorie (dal primo all’ultimo capoverso di pg. 8 e ancora dall’ultimo di pg. 9 al secondo di pg. 10 della sentenza) sulla base delle argomentate ragioni esposte (ai primi due capoversi di pg. 9 e al terzo già citato di pg. 10 della sentenza).

13. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso e la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 8.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per ciascun ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.