CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 novembre 2017, n. 27669
Infortunio sul lavoro – Indennizzo percepito dall’INAIL per danno biologico – Danno differenziale – Computo per poste omogenee – Esclusione dell’indennizzo del danno patrimoniale – Quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato – Responsabilità di natura contrattuale
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Brescia con sentenza n. 160 in data 29 marzo 7 aprile 2012 rigettava il gravame interposto da B.T. S.p.A. contro D.R., avverso la pronuncia del giudice del lavoro di Mantova in data 11 ottobre 2011, che aveva accolto la domanda dello stesso D., volta ad ottenere il risarcimento del danno differenziale non patrimoniale derivato dall’infortunio sul lavoro avvenuto il 3 dicembre 2007, per cui la società convenuta era stata condannata al pagamento della somma di euro 40.820,81.
Ad avviso della Corte distrettuale, era infondata l’eccezione relativa alla escussione del teste M., siccome validamente disposta dal giudice di primo grado ai sensi dell’articolo 421 c.p.c., in relazione a quanto indicato dal testimone V.M., dopo che il procuratore costituito dell’attore ne aveva fornito il nominativo (il M. peraltro aveva dichiarato che il lavoratore infortunatosi era scivolato cadendo di schiena verso la protezione che non aveva retto, per cui era caduto a terra ed aveva potuto constatare che il paletto di protezione che aveva ceduto era marcio).
Nel caso di specie, secondo la Corte territoriale, sussisteva la responsabilità, di natura contrattuale ex art. 2087 c.c., di parte datoriale in ordine al sinistro verificatosi, per cui non era stata fornita prova liberatoria dalla società, ai sensi dell’articolo 1218 dello stesso codice. La generale situazione di pericolo e di rischio risultava oggetto di rilievi da parte del Servizio di prevenzione della Asl di Mantova, che aveva censurato l’amovibilità del parapetto e comunque la lassità di una difesa costituita da funi metalliche rivestite di plastica, unita alla circostanza dello scarso spazio a disposizione di colui che si trovava ad operare su di un piano di calpestio del tutto irregolare e con la porzione centrale aperta verso il vuoto. A prescindere dalle misure strutturali per ovviare a questa situazione, che competevano al costruttore del mezzo, non vi era dubbio che una così palese situazione di rischio dovesse essere oggetto di intervento da parte del datore di lavoro, che avrebbe dovuto dotare il mezzo quantomeno di ripari più idonei.
Riguardo, poi, alla quantificazione del danno, secondo la Corte di Appello, la contestata duplicazione del risarcimento in gran parte era dipesa da un inciso poco chiaro della sentenza appellata. In realtà, confrontando i dati della tabella a punti nella specie applicata, emergeva chiaramente che la somma di 60.522,00 euro corrispondeva al solo valore di complessivo punteggio, sul quale andava applicata la maggiorazione personalizzata, che era stata contenuta nella misura del 20%, sicché il danno biologico permanente era stimabile in ragione di complessivi 72.956,40 euro, cui andava aggiunto l’importo di 6330,00 euro per invalidità temporanea, dato non contestato. Dal suddetto totale andava, quindi, detratto l’indennizzo percepito dall’INAIL per danno biologico, sicché era del tutto corretta la quantificazione del danno non patrimoniale differenziale in ragione di euro 40.820,81. In proposito non potevano invece patrimoniale, essendo d’altro canto irrilevante la possibilità che sommando il danno non patrimoniale, liquidato dall’Istituto e dal giudice, e la rivalsa dell’Inail, per quanto corrisposto al lavoratore come danno patrimoniale, parte datoriale possa trovarsi esposta per un ammontare superiore a quello previsto per la liquidazione interamente privatistica del danno, senza che questo meccanismo sia motivo di alcuna censura, attenendo ad una scelta del legislatore e che dipendeva dal particolare disvalore sociale per il colpevole del danno subito dal lavoratore nello svolgimento delle sue prestazioni.
Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione B.T. S.p.A. con atto della 3 e 4 settembre 2012 affidato a CINQUE motivi, cui ha resistito D.R. mediante controricorso notificato il 3 ottobre 2012, in seguito illustrato da memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’articolo 421 c.p.c. in relazione all’articolo 360 numero 3 dello stesso codice, riguardo all’assunzione del teste M.G., disposta di ufficio dal giudice.
Con il secondo motivo è stata lamentata la violazione o falsa applicazione degli articoli 1218, 2087 e 2697 c.c.. In base alle acquisite emergenze processuali, la società convenuta ha sostenuto di aver dimostrato la sua totale mancanza di responsabilità nella causazione del sinistro, avendo pienamente adempiuto all’obbligazione incombente sulla stessa ai sensi del citato articolo 2087, norma per la quale vi era stata un’evidente forzatura interpretativa da parte del giudice di merito circa l’onere probatorio, poiché non erano stati considerati gli standard normali di sicurezza applicati in casi analoghi e neppure la quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, dovendo aversi riguardo agli standard medi di sicurezza, normalmente suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche.
Con il terzo motivo di ricorso, la società si è doluta della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza ai sensi dell’articolo 360 n. 5 c.p.c., non avendo la Corte territoriale spiegato assolutamente in modo convincente la ragione della mancanza di prova liberatoria. Inoltre, vi era contraddittorietà della decisione, laddove da un lato si era dato atto che le misure di sicurezza strutturali del mezzo competevano al costruttore, perché le case costruttrici continuavano a produrre mezzi senza ulteriori protezioni, mentre d’altro canto vi sarebbero stati altre protezioni prospettate dagli ispettori del lavoro nel verbale di accertamento, ma di non semplice realizzazione, che potevano essere trovate dagli stessi ideatori della struttura.
Con il quarto motivo è stata denunciata omessa ed insufficiente motivazione ex articolo 360 n. 5 c.p.c.. Infatti, quanto alla prospettata ingiustificata duplicazione del danno biologico, la fa Corte territoriale si era limitata ad ipotizzare una poca chiarezza sul punto della sentenza di 1° grado. Non si poteva trattare, però, di errore materiale relativamente ad un inciso poco chiaro della sentenza appellata, ma di un errore nella sostanza delle operazioni di quantificazione del danno. Inoltre, circa l’ulteriore somma di 6330,00 euro, la legittimità della stessa non risultava spiegata, tenuto conto che la società aveva espressamente censurato l’ingiustificato gonfiamento della somma liquidata e quindi anche del dato, che la Corte di appello aveva ritenuto erroneamente non contestato.
Con il quinto motivo, infine, la ricorrente ha denunciato la violazione dell’articolo 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, dell’art. 13 decreto legislativo numero 38 del 2000, nonché vizio della motivazione. Il danno differenziale riconoscibile doveva comprendere sia quello patrimoniale che quello non patrimoniale. Nella specie il giudice di prime cure avrebbe, quindi, dovuto calcolare il danno differenziale eventualmente spettante, sottraendo l’ammontare della rendita erogata dall’INAIL (pari a euro 87.155,79) all’importo del danno biologico permanente e temporaneo (pari a euro 78.956,40).
L’infortunato non può cumulare risarcimento spettante dall’assicurazione del responsabile civile all’indennizzo del danno biologico ricevuto dall’INAIL oltre al divieto di duplicazione della voce relativa al danno patrimoniale da sempre ricompreso nell’indennizzo Inail. Di conseguenza, al lavoratore infortunato, secondo la società ricorrente, spettava il risarcimento soltanto nella misura del differenziale derivante dal raffronto tra l’ammontare complessivo di risarcimento e quello delle complessive indennità liquidate dall’INAIL in dipendenza del sinistro al fine di evitare un’ingiustificata duplicazione. Pertanto, il danno differenziale andava determinato sottraendo dall’importo del danno complessivo, liquidato dal giudice autonomamente secondo i principi e i criteri civilistici, quello delle prestazioni previdenziali erogate dall’INAIL sulla base di criteri diversi e su voci di danno che, ancorché simili, come per il danno biologico, divergono per quanto concerne i contenuti differenti. La Corte territoriale non si era attenuta a questi principi ed a fronte di specifica ed articolata censura in grado di appello la valutazione al riguardo risultava sommaria ed assolutamente inconferente e non esaustiva, poiché non richiamava il dato normativo cui far risalire la presunta scelta legislativa. Era, altresì, erronea, essendo doveroso e giusto evitare una locupletazione dell’infortunato, il quale non deve ricevere maggiori somme oltre al danno effettivamente patito.
Tanto premesso, il ricorso va respinto in base alle seguenti considerazioni.
Invero, quanto al primo motivo, la doglianza appare infondata, avendo i giudici di merito correttamente ritenuto la possibilità di poter disporre di ufficio l’escussione di un teste, individuato grazie al riferimento contenuto in altra deposizione, laddove però il nominativo non veniva saputo indicare, di modo che il primo giudicante vi procedeva, dopo aver appreso il nome fornitogli dal procuratore di parte attrice.
Non può dirsi, quindi, violato l’art. 421 c.p.c., trattandosi di attività istruttoria doverosamente disposta dall’adito giudice del lavoro per il compiuto accertamento dei fatti di causa, ritualmente allegati da parte attrice (v. Cass. lav. n. 3549 del 15/04/1994: il rito del lavoro, pur non attuando un sistema inquisitorio puro, tende a contemperare, in considerazione della particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo – che obbedisce alla regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova – con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo. Ne consegue che, ove sussistano incertezze in ordine ai fatti costitutivi dei diritti in contestazione, legittimamente il giudice provvede “ex officio”, nell’ambito di un potere discrezionale il cui esercizio – o mancato esercizio – non è sindacabile in sede di legittimità, all’assunzione degli atti istruttori ritenuti idonei a superarle.
Cfr., pure, tra le varie, Cass. sez. un. civ. n. 11353 del 17/06/2004: nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere – dovere, sicché il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova, avendo l’obbligo – in ossequio a quanto prescritto dall’art. 134 cod. proc. civ., ed al disposto di cui all’art. 111, primo comma, Cost. sul “giusto processo regolato dalla legge” – di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata. Conforme Cass. lav. n. 7543 del 30/03/2006).
Il secondo ed il terzo motivo, tra loro connessi e perciò esaminabili congiuntamente, vanno anch’essi disattesi, siccome infondati ed implicando gli stessi per altri versi valutazioni in punto di fatto, però riservate alla cognizione del merito.
Invero, risulta correttamente applicata nella specie la disciplina vigente in materia di responsabilità contrattuale per infortuni sul lavoro, di guisa che una volta provato che l’infortunio si è verificato mentre il lavoratore stata eseguendo attività cui era adibito e che la sua caduta dall’alto – con conseguenti lesioni personali e postumi – è dipesa dal cedimento di alcuni elementi di protezione, relativi alla struttura (bisarca), sulla quale il D. stava operando, la prova liberatoria resta comunque a carico di parte datoriale, che però nella specie non risulta averla debitamente fornita. Dalla deposizione testimoniale, pressoché interamente riportata alle pagine 4 e 5 dell’impugnata sentenza, emerge in particolare che la caduta non dipese soltanto da carenze strutturali, relative alle protezioni installate sulla bisarca, peraltro emendabili, ma soprattutto dal fatto che il paletto che aveva ceduto risultava marcio, di modo che la cattiva manutenzione di quest’ultimo resta indubbiamente imputabile alla società, che aveva la disponibilità dell’automezzo, non rilevando evidentemente il fatto della mera omologazione. Rileva, altresì, la situazione di pericolo e di rischio, già pure evidenziata dal Servizio di prevenzione di Mantova, che aveva “censurato l’amovibilità del parapetto e comunque la lassità di una difesa costituita da funi metalliche rivestite di plastica, unita alla circostanza dello scarso spazio a disposizione dell’autista, che si trovava ad operare su di un piano di calpestio del tutto irregolare e con la porzione centrale aperta verso il vuoto”. Di conseguenza, opportunamente la Corte di Appello osservava che, indipendentemente dalle misure strutturali di stretta competenza del costruttore del mezzo (questione estranea al procedimento e quindi palesemente irrilevante), non vi era dubbio che la descritta situazione pericolosa e di rischio dovesse formare oggetto d’intervento da parte datoriale, che avrebbe quindi dovuto dotare la bisarca almeno di più idonei ripari. Tale ragionevoli e adeguate argomentazioni peraltro vanno integrate dall’anzidetta circostanza, probabilmente determinante, inerente al cedimento del paletto marcio, così come constatato dal teste oculare M., il quale aveva assistito alla caduta di schiena del D. verso la protezione che non aveva retto, ossia il paletto marciò, marciume, con conseguente fragilità della protezione, chiaramente, quindi, non ascrivibile a difetti strutturali di fabbricazione, ma a cattiva manutenzione da parte della società, che aveva quindi pacificamente la giuridica disponibilità della bisarca (se non addirittura la piena proprietà del veicolo, ma il titolo della disponibilità del mezzo in capo alla datrice di lavoro è palesemente irrilevante ai fini della decisione).
L’anzidetto quarto motivo è poi del tutto inammissibile, non soltanto per difetto di precisa ed univoca individuazione del <<fatto controverso e decisivo per il giudizio>>, rilevante ex art. 360 n. 5 c.p.c. (secondo il testo in vigore dal 2-3-2006 all’11-08-2012, nella specie ratione temporis applicabile), ma anche per carente allegazione (art. 366 co. 1 nn. 3, 4 e 6 c.p.c.) di tutte le circostanze fattuali, tali da rendere compiutamente comprensibile l’asserita ingiustificata duplicazione del danno biologico, risultando del tutto insufficienti i dati in proposito forniti dalla ricorrente.
Infine, il quinto motivo, inerente agli art. 10 d.P.R. n. 1124/65 e 13 del dl.vo n. 38/2000, è infondato, oltre che inammissibile in ordine al preteso vizio di motivazione, anche qui senza esatta individuazione del fatto rilevante ai sensi del citato art. 360 n. 5.
Ed invero, in tema di liquidazione del danno biologico c.d. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall’ammontare complessivo del danno biologico va detratto, non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale (v. Cass. lav. n. 20807 del 14 ottobre 2016). Nella fattispecie qui in esame va ancora evidenziato come il sinistro sia accaduto il tre dicembre 2007, di modo che indubbiamente opera la nuova disciplina introdotta dal succitato articolo 13 (v. inoltre Cass. lav. n. 4025 – 01/03/2016, secondo cui il datore di lavoro risponde dei danni occorsi al lavoratore infortunato nei limiti del c.d. danno differenziale che non comprende le componenti del danno biologico coperte dall’assicurazione obbligatoria, sicché, per le fattispecie anteriori all’ambito temporale di applicazione dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il datore risponde dell’intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtati gli importi percepiti a titolo di rendita INAIL, corrispondenti, nel regime allora vigente, solo al danno patrimoniale legato al pregiudizio alla capacità lavorativa generica.
V. altresì Cass. lav. n. 10834 del 5/5/2010: l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la limitazione dell’azione risarcitoria di quest’ultimo al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale – a norma dell’art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte costituzionale – riguarda solo le componenti del danno coperte dall’assicurazione obbligatoria, la cui individuazione è mutata nel corso degli anni. Ne consegue che per le fattispecie sottratte, “ratione temporis”, all’applicazione dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 la suddetta limitazione riguarda solo il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica, e non si applica al danno non patrimoniale – ivi compreso quello alla salute o biologico – e morale, per i quali continua a trovare applicazione la disciplina antecedente al d.lgs. n. 38 del 2000, che escludeva la copertura assicurativa obbligatoria.
Cfr. pure Cass. lav. n. 9166 del 25/01 – 10/04/2017: <<…I confini posti al concorso di tutele sono quelli fissati, ad un estremo, dal divieto di occulte duplicazioni o indebite locupletazioni risarcitone in favore del danneggiato, ma, all’estremo opposto, dalla necessità di garantire al lavoratore l’integrale risarcimento, tanto più quando vengano coinvolti beni primari della persona, in particolare il nucleo irriducibile del diritto fondamentale alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (Corte cost. n. 309 del 1999).
11. Il precipitato logico del descritto assetto normativo ha indotto questa Corte ad escludere “che le prestazioni eventualmente erogate dall’INAIL esauriscano di per sé e a priori il ristoro del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato” (Cass. n. 777 del 2015; successive conformi: Cass. n. 13689 del 2015; Cass. n. 3074 del 2016; in precedenza v. Cass. n. 18469 del 2012; Cass. n. 5437 del 2011; tutte in motivazione).
Esaminando l’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 si è rilevato “che la prospettiva della norma non è quella di fissare in via generale ed omnicomprensiva gli aspetti risarcitori del danno biologico, ma solo quella di definire i meri aspetti indennitari agli specifici ed unici fini dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali. Infatti, l’erogazione effettuata dall’INAIL è strutturata in termini di mero indennizzo, indennizzo che, a differenza del risarcimento, è svincolato dalla sussistenza di un illecito (contrattuale o aquiliano) e, di conseguenza, può essere disposto anche a prescindere dall’elemento soggettivo di chi ha realizzato la condotta dannosa e da una sua responsabilità”….
Dalla “differenza strutturale e funzionale tra l’erogazione INAIL ex art. 13 cit. e il risarcimento del danno biologico” ne è conseguita la preclusione “a ritenere che le somme eventualmente a tale titolo versate dall’istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato od ammalato, nel senso che esse devono semplicemente detrarsi dal totale del risarcimento spettante al lavoratore”, anche perché ritenere il contrario significherebbe attribuire al lavoratore “un trattamento deteriore – quanto al danno biologico – del lavoratore danneggiato rispetto al danneggiato non lavoratore”, con dubbi di legittimità costituzionale. Tale esigenza di detrazione è confermata da altre recenti pronunce della Corte che hanno chiarito alcuni criteri che presiedono allo scomputo. Così Cass. n. 20807 del 2016, in continuità con Cass. n. 13222 del 2015, ha affermato il principio secondo cui: “in tema di liquidazione del danno biologico c.d. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall’ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale”. …
12. In definitiva, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore il risarcimento dei danni connessi all’espletamento dell’attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l’inadempimento, innanzitutto dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive e oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal D.P.R. n. 1124 del 1965 (sul punto v., da ultimo, Cass. n. 23146 del 2016; per l’assunto secondo cui per le malattie non tabellate i fattori di rischio comprendono anche quelle situazioni di dannosità che, seppure ricorrenti anche per attività non lavorative, costituiscono un rischio specifico cd. improprio v. Cass. n. 3227 del 2011; entrambe in motivazione).
In tal caso potrà procedere alla verifica di applicabilità dell’art. 10 del decreto citato nell’intero del suo articolato meccanismo, anche ex officio ed indipendentemente da una richiesta di parte in quanto si tratta dell’applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (in tal senso, circa i criteri di liquidazione del danno differenziale, v. Cass. n. 20807/2016 cit.). …
13. Alla stregua delle considerazioni che precedono, in relazione ai motivi del ricorso principale innanzi esposti al paragrafo n. 6, la sentenza della Corte territoriale deve essere cassata in parte qua.
Erra, prima di tutto, detta sentenza laddove, a fronte di una pronuncia di primo grado che aveva condannato la società a risarcire, senza decurtazioni, il danno biologico e morale per patologia contratta in violazione dell’art. 2087 c.c., accoglie il gravame della società secondo cui, in seguito alla riforma di cui al dl.vo n. 38 del 2000 che ha assorbito le lesioni all’integrità psico-fisica nell’ambito della copertura assicurativa obbligatoria, “ogni pretesa in tal senso non può che essere oramai indirizzata nei confronti dell’INAIL”, configurando, così, un “difetto di legittimazione passiva” del datore di lavoro, anche per il danno morale ritenuto “necessariamente una componente del danno biologico”.
Per quanto detto, le prestazioni dovute dall’INAIL a titolo di indennizzo in seguito all’entrata in vigore del dl.gs. n. 38 del 2000 non sono a priori integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno in capo al soggetto infortunato o ammalato; il datore di lavoro, anche ove ricorra una ipotesi in cui è operante l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, resta debitore e titolare dal lato passivo dell’obbligazione di risarcire i danni complementari e differenziali.
…Si ribadisce invece che, ai fini dell’accertamento del danno differenziale, è sufficiente che siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, sottolineando che anche la violazione delle regole di cui all’art. 2087 c.c., norma di cautela avente carattere generale, è idonea a concretare la responsabilità penale (Corte cost. n. 74 del 1981; Cass. n. 1579 del 2000). Spetterà poi al giudice il compito di qualificare giuridicamente i fatti e sussumerli nell’alveo della fattispecie penalistica, accertando autonomamente ed in via incidentale la sussistenza del reato.
Inoltre, la richiesta del lavoratore di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti dall’inadempimento datoriale, è idonea a fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare il meccanismo legale previsto dall’art. 10 D.P.R. n. 1124/65 anche ex officio, pur dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’indennizzo, atteso che, rappresentando il differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può essere considerata incompleta al punto da essere rigettata una domanda in cui si richieda l’intero danno.
…>>.
Pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna della soccombente al pagamento delle relative spese.
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 4000,00 per compensi ed in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, con attribuzione al procuratore anticipatario del controricorrente, avv. S.V..