CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 settembre 2017, n. 43615
Fallimento – Bancarotta fraudolenta patrimoniale – Amministratore – Dissipazione somme – Responsabilità
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 2/7/2015 la Corte di appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Chieti del 26/9/2012, appellata dall’imputato, ha rideterminato la pena inflitta a N. M. in anni 2 e mesi 2 di reclusione, confermando nel resto.
L’imputato è stato cosi ritenuto responsabile di bancarotta fraudolenta patrimoniale ex art.110 cod.pen., 216 comma 1, nn. 1 e 2, 219, comma 1, 228, comma 1, legge fall, in concorso con D. E. R. (amministratore e legale rappresentante dal 2/8/2006).
Il M., nella qualità di amministratore e legale rappresentante, fino al 2/8/2006, e di amministratore di fatto, successivamente al 2/8/2006, della società E. I. s.r.l., dichiarata fallita il 3/12/2008, era accusato di aver distratto o comunque dissipato la somma di € 351.396,68=, costituita da assegni emessi a favore della società fallita fra il giugno 2006 e il giugno 2007 dalla M. M. U. s.r.l., cagionando danno di rilevante gravità.
2. Ha proposto ricorso nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia, avv. F. C. del Foro di Vasto, svolgendo quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia errores in procedendo e in iudicando, violazione e falsa applicazione dell’art. 63 cod.proc.pen.
Lamenta inoltre l’inosservanza della norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilità in ordine alle dichiarazioni indizianti e auto-indizianti resa dal coimputato R. (soggetto che sin dall’inizio doveva essere sentito come persona sottoposta ad indagini quale amministratore di diritto della società fallita) alla Guardia di Finanza di Vieste in data 5/6/2008, utilizzate illegittimamente dalla Corte di appello a differenza del Giudice di primo grado, peraltro ribaltando una questione processuale già risolta e superata, sulla quale non era stato proposto appello.
Tale questione, attinente a una forma di inutilizzabilità patologica di atto probatorio assunto contra legem, doveva essere rilevata anche d’ufficio dal giudice in seno al giudizio abbreviato, quale garante della legalità procedimentale.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia errores in procedendo e in iudicando, e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla configurabilità del reato di cui all’art. 216, comma 1, nn.l e 2, 219, comma 1, 223, comma 1, legge fall.
Un primo elemento distorsivo, che minava alle fondamenta l’impianto logico della decisione, scaturiva dal fatto che il fallimento aveva interessato E. I. s.r.l. e non già M. M. U. s.r.l.; inoltre quest’ultima avrebbe versato assegni alla società fallita in assenza di rapporto sottostante, dato questo del tutto distonico rispetto alla logica della motivazione.
Anche in ordine alle dichiarazioni rese dal direttore della BLS, rag. B., la Corte territoriale aveva trascurato la circostanza, riferita dal teste, che non solo il M. era presente agli incassi e si era reso garante del buon fine degli assegni, ma li aveva anche sottoscritti per conoscenza e garanzia, aderendo alla pretesa in tal senso avanzata dal direttore.
Come riferito dal teste, non era stato il M. sua sponte ad accompagnare il R. ma era stata la Filiale della banca a pretendere l’intervento del M. e la sua controfirma.
Alla Corte era poi sfuggito il dato eclatante (derivante dall’inversione fra le posizioni delle due società interessate E. I. s.r.l. e M. M. U. s.r.l.) che il M. aveva versato in assenza di titolo giustificativo somme «sue» (ossia della società M. M. U. s.r.l., non fallita) nella casse della fallita E. I., che aveva quindi ricevuto una somma non dovuta.
Le somme, non riversate nella casse della fallita, erano state prelevate in contanti. Di conseguenza, se di episodio di bancarotta patrimoniale si poteva parlare, questo poteva riguardare solo il R. e non certo il M. che aveva versato le somme. Tutte le distinte di cambio erano state sottoscritte dal R..
Il fatto che il M. accompagnasse il R. alla BLS a cambiare gli assegni non era affatto un segno che tali somme venissero da lui ritirate ma era dovuto alla garanzia rilasciata, su richiesta della Banca, peraltro solo per quattro degli assegni in questione.
La Corte addebitava poi al M. di non aver fornito la prova del rapporto giustificativo dei versamenti, prova che semmai avrebbe dovuto essere fornita dall’accusa.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia errores in procedendo e in iudicando e violazione dell’art. 533 cod.proc.pen., come novellato dalla legge n. 46 del 2006 poiché l’imputato avrebbe dovuto essere assolto in difetto di prove della sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia errores in iudicando in ordine alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 219 legge fall., che non poteva essere contestata al M. che non aveva appreso materialmente tale somma (come risultava dalle girate degli assegni e dalle distinte di versamento) e che comunque, a tutto concedere, poteva ritenersi implicato solo per la molto minor somma di € 50.000,00= (e non di € 351.396,68 = ) corrispondente ai quattro assegni su diciassette che egli aveva controfirmato per garanzia.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia vizio processuale per violazione e falsa applicazione dell’art.63 cod.proc.pen. e in particolare l’inosservanza della norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilità in ordine alle dichiarazioni indizianti e auto-indizianti rese dal coimputato R. (soggetto che sin dall’inizio doveva essere sentito come persona sottoposta ad indagini quale amministratore di diritto della società fallita) alla Guardia di Finanza di Vieste in data 5/6/2008, utilizzate illegittimamente dalla Corte di appello a differenza del Giudice di primo grado, ribaltando una questione processuale già risolta e superata, sulla quale non era stato proposto appello.
1.1. La Corte aquilana, a pag.4 della sentenza impugnata, ha motivato il proprio convincimento circa il ruolo di amministratore di fatto svolto dal M. anche dopo la cessazione dalla carica e la nomina ad amministratore di D. E. R. (2/8/2006) sulla base delle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza di Vieste il 5/6/2008, ritenute attendibili alla luce anche della sua residenza a Peschici, senza tener conto della palese violazione della norma processuale di cui all’art. 63, cod.proc.pen., sancita a pena di inutilizzabilità.
Tale norma, in tema di dichiarazioni indizianti, stabilisce che se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata, ovvero una persona non sottoposta alle indagini, rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne deve interrompere l’esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese.
Inoltre (comma 2), se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate.
Quanto al fatto che il R. dovesse essere sentito sin dall’inizio e già in quel momento in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini sono leciti davvero pochi dubbi, visto che si trattava dell’amministratore di diritto della società fallita in relazione alla quale si ipotizzavano condotte distrattive; in ogni caso, egli nel corso della sua deposizione ha ammesso di aver concorso a porre in essere operazioni palesemente distrattive, imputandone la maggior responsabilità al M., da lui indicato come l’effettivo amministratore di fatto della società.
1.2. Per altro verso, come correttamente recriminato dal ricorrente, la Corte di appello non poteva, in difetto di impugnazione sul punto, rimettere in discussione la statuizione di inutilizzabilità della prova decretata dal primo giudice (sentenza GIP Tribunale di Chieti 26/9/2012, pag.3), costituente specifico punto della decisione ex art. 581, comma 1, lett. a), cod.proc.pen. e 597, comma 1, cod. proc. pen., secondo il quale l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione a cui si riferiscono i motivi proposti.
Tale concetto è analogo a quello di «parti della sentenza», impiegato dall’art. 624 cod. proc. pen. al fine di individuare le disposizioni della decisione che acquistano autorità di cosa giudicata, in caso di annullamento parziale da parte della Corte di Cassazione; tale espressione si riferisce a qualsiasi statuizione avente un’autonomia giuridico-concettuale e, quindi, non solo alle decisioni che concludono il giudizio in relazione ad un determinato capo d’imputazione, ma anche a quelle che, nell’ambito di una stessa contestazione, individuano aspetti non più suscettibili di riesame (Sez. 3, n. 18502 del 08/10/2014 – dep. 2015, Gusmeroli, Rv. 263636).
Per l’appello, come per ogni altro gravame, il combinato disposto degli art. 581, comma 1, lett. c) e 591, comma 1, lett. c) del codice di rito comporta la inammissibilità dell’impugnazione in caso di genericità dei relativi motivi. Per escludere tale patologia è necessario che l’atto individui il «punto» che intende devolvere alla cognizione del giudice di appello, enucleandolo con puntuale riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, e specificando tanto i motivi di dissenso dalla decisione appellata che l’oggetto della diversa deliberazione sollecitata presso il giudice del gravame. (Sez. 6, n. 13261 del 06/02/2003, Valle e altri, Rv. 227195).
Una specifica applicazione del concetto di «punto della decisione», non oggetto di devoluzione, in tema di inutilizzabilità della prova è stata effettuata da questa Corte, previa trasposizione delle regole generali alla materia cautelare, quando ha affermato che «La regola della devoluzione, propria del giudizio di appello nel processo di cognizione è applicabile anche all’appello nel procedimento de liberiate. Ne consegue che al giudice della fase del gravame è precluso ogni esame dei punti della decisione di primo grado diversi da quelli oggetto di censura.» (Sez. 1, n. 1219 del 26/02/1998, Tornese e altro, Rv. 210249).
1.3. Appare condivisibile anche il rilievo ulteriore, proposto dal ricorrente a sostegno della correttezza della soluzione adottata dal giudice di primo grado: la questione attinente a una forma di inutilizzabilità patologica di atto probatorio assunto contra legem, doveva essere rilevata anche d’ufficio dal giudice in seno al giudizio abbreviato, quale garante della legalità procedimentale.
Secondo le Sezioni Unite «Il giudizio abbreviato costituisce un procedimento “a prova contratta”, alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge invece nelle forme ordinarie del dibattimento. Tuttavia tale negozio processuale di tipo abdicativo può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli
interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio. Ne consegue che in esso, mentre non rilevano né l’inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 cod. proc. pen., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 stesso codice (in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo), né le ipotesi di inutilizzabilità relativa stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, va attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cosiddetta “patologica”, inerente, cioè, agli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonché le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito.» (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216246).
La giurisprudenza successiva di questa Corte ha recepito siffatta nozione, attribuendo rilevanza alla figura della inutilizzabilità «patologica» derivante dall’assunzione della prova contra legem: Sez. 6, n. 48949 del 07/10/2016, Guarnieri, Rv. 268213; Sez. 2, n. 10134 del 24/02/2016, Scarciglia e altri, Rv. 266195;Sez. 1, n. 21185 del 02/12/2015 – dep. 2016, Scoponi, Rv. 266883; in particolare è costante anche la giurisprudenza specifica che afferma che nel giudizio abbreviato sono deducibili e rilevabili, oltre alle nullità di carattere assoluto, le inutilizzabilità cosiddette patologiche (Sez. 5, n. 542 del 15/11/2016 – dep.2017, Mantella, Rv. 269020; Sez. 2, n. 19483 del 16/04/2013, Avallone e altri, Rv. 256038).
1.4. Il motivo di ricorso merita quindi accoglimento e la deposizione del R. deve essere considerata inutilizzabile, come correttamente statuito dal Giudice di primo grado.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’esistenza di errores in procedendo e in iudicando, e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla configurabilità del reato di cui all’art.216, comma 1, nn.l e 2, 219, comma 1, 223, comma 1, legge fall.
2.1. Il M. era accusato di aver in qualità di amministratore di diritto (sino al 2/8/2006) e poi di fatto, agendo sotto la copertura della fittizia gestione da parte del R. distratto dalle casse della società fallita E. I. s.r.l. l’ingente somma di € 351.396,68=, costituita da una serie di assegni emessi a favore di tale società da altra società da lui amministrata, la M. M. U. s.r.l.
Tuttavia la lettura della sentenza della Corte di appello di L’Aquila, come pure quella della sentenza di primo grado del G.I.P. di Chieti, evidenziano con chiarezza che tutti le negoziazioni degli assegni e i prelievi in contanti sono avvenute quando ormai l’amministratore di diritto della società fallita era il R. e che era stato questi a sottoscrivere la documentazione bancaria, ancorché egli si fosse presentato insieme allo sportello bancario con il M. e anche questi avesse interloquito con la banca.
E’ quindi evidente che l’addebito mosso al M. è stato accolto solo per fatti successivi alla sua cessazione dalla veste di amministratore della società fallita (2/8/2006) e quindi solo in veste di amministratore di fatto (e non di diritto).
Dalla sentenza impugnata si desume che il R. si recava alla filiale della banca BLS di Pollutri, diretta dal rag.B., ove era stato presentato dal M. e provvedeva ad incassare, in contanti, gli assegni tratti a favore della società poi fallita dalla M. M. U. s.r.l. e che ciò era stato reso possibile dall’intervento del M. che si era reso garante del buon fine dell’operazione e dei rapporti economici sottostanti. Tali somme incassate in contanti non erano state riversate nelle casse sociali della E. I., il che aveva favorito e integrato l’operazione distrattiva.
2.2. Tale ricostruzione è manifestamente illogica e contraddittoria.
Il primo, grave, elemento distorsivo, che mina alle fondamenta l’impianto logico della decisione, ineccepibilmente stigmatizzato dalla difesa del ricorrente scaturisce dal fatto che il fallimento aveva interessato E. I. s.r.l. e non già M. M. U. s.r.l.
L’operazione descritta infatti sembra sottendere una distrazione di risorse dalle casse della M. M. U., attuata attraverso pagamenti per operazioni inesistenti e poi ristornati in contante attraverso la pronta restituzione della somma incassata da R. a M.; ciò, tanto più che la stessa decisione impugnata, in palese contraddizione, ipotizza anche che la M. M. U. avrebbe versato questi assegni alla società fallita in assenza di rapporto sottostante, sicché la distrazione avrebbe finito con l’investire denaro che non era realmente di pertinenza della fallita.
Le operazioni descritte e ricostruite nella sentenza impugnata (per vero, come si è detto, anche utilizzando l’inutilizzabile deposizione di D. E. R.), al di là delle ulteriori censure mosse dal ricorrente, sembrano piuttosto corrispondere all’obiettivo di creare una provvista liquida e in nero attraverso un meccanismo distrattivo dal patrimonio della M., che peraltro non consta neppure che sia anch’essa fallita.
L’inversione fra le posizioni delle due società interessate E. I. s.r.l. e M. M. U. s.r.l. ha portato la Corte territoriale a obliterare il fatto che il M. aveva versato in assenza di titolo giustificativo somme della società M. M. U. s.r.l., non fallita, nella casse della fallita E. I., che aveva quindi ricevuto una somma non dovuta.
Anche seguendo la ricostruzione accolta nella sentenza impugnata e leggendo la costante presenza e la disponibilità alla garanzia del M., così come riferite, la motivazione addotta è del tutto illogica se centrata sulla distrazione di risorse dal patrimonio della E. I..
2.3. In ordine alle dichiarazioni rese dal direttore della BLS, rag.B., il ricorrente aggiunge che la Corte territoriale aveva trascurato la circostanza, riferita dal teste, che non solo il M. era presente agli incassi e si era reso garante del buon fine degli assegni, ma, in alcuni casi, li aveva anche sottoscritti per conoscenza e garanzia, aderendo alla pretesa in tal senso avanzata dal direttore; in sostanza non era stato il M. sua sponte ad accompagnare il R. ma era stata la Filiale della banca a pretendere l’intervento del M. e la sua controfirma.
Tale elemento, effettivamente risultante dal documento indicato dal ricorrente (dichiarazione 28/5/2009 rag.B.), seppur non decisivo, di per sé denota i sospetti della Banca sulla natura dell’operazione, sicuramente rafforzati dall’intenzione del R. di incassare la somma in contanti, con la conseguenza della richiesta di coinvolgimento del M. all’evidente fine di aver maggiori certezze sul fatto che i titoli di credito sarebbero poi stati onorati con buon fine (come in effetti accaduto).
2.4. Infine, osserva il ricorrente, le somme poi avrebbero dovuto essere riversate nella casse della fallita da cui erano invece state prelevate in contanti.
Di conseguenza, se di episodio di bancarotta patrimoniale si poteva parlare, questo poteva riguardare solo il R. e non certo il M. che aveva versato le somme, tanto più che tutte le distinte di cambio erano state sottoscritte dal R..
Il fatto che il M. accompagnasse il R. alla BLS a cambiare gli assegni non era affatto un segno univoco che tali somme venissero da lui ritirate ma era dovuto alla garanzia rilasciata, su richiesta della Banca, peraltro solo per quattro degli assegni in questione.
Il coinvolgimento del M. nella distrazione del contante riposa esclusivamente sulla sua veste all’epoca di amministratore di fatto, a sua volta fondata esclusivamente sulle dichiarazioni indizianti del R. e illegittimamente utilizzate dalla sentenza impugnata.
2.5. Di conseguenza anche il secondo motivo va accolto, con l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte di appello più vicina per nuovo esame.
3. Gli altri motivi restano assorbiti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Perugia per nuovo esame.
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