CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 dicembre 2017, n. 30822
Tributi – Accertamento – Reddito di impresa – Riscossione – Maggiori ricavi – Regime di contabilità ordinaria
Fatti di causa
All’esito di verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza, G. P. impugnava l’avviso di accertamento emesso ai fini Irpef, Irap ed Iva per l’anno 1999, con il quale l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione maggiori ricavi, eccependo la nullità dell’operato dell’Ufficio per mancanza dei presupposti di legge richiesti dall’art. 52, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 e la insussistenza delle violazioni contestate.
La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso sul presupposto che la Guardia di Finanza avesse eseguito l’accesso presso l’abitazione del contribuente in assenza di indicazione nel provvedimento di autorizzazione dei gravi indizi di violazione tributaria richiesti dall’art. 52, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972.
La Agenzia delle Entrate proponeva appello avverso la suddetta pronuncia facendo rilevare che il provvedimento di autorizzazione richiamava la richiesta di autorizzazione della Guardia di Finanza, nella quale erano chiaramente indicati i gravi indizi di violazioni tributarie posti a fondamento della richiesta accolta dalla autorità giudiziaria. Il contribuente proponeva appello incidentale, chiedendo che venisse dichiarato inammissibile l’appello principale.
La C.T.R. confermava la sentenza di primo grado, rilevando che la Guardia di Finanza aveva ispezionato la abitazione del P. in difetto dei presupposti di cui agli artt. 52 e 10 del d.P.R. n. 633 del 1972; riteneva, altresì, illegittima la sommatoria delle operazioni attive e passive rilevate in sede di accertamento, tenuto conto che gli importi attivi e passivi erano stati versati e prelevati per far fronte ad esigenze economiche del P., ed evidenziava che il P. operava in regime di contabilità ordinaria, sicché le risultanze delle scritture contabili facevano piena prova.
Avverso la suddetta sentenza proponevano ricorso per cassazione il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate, mentre il contribuente resisteva con controricorso.
Con sentenza n. 7816/10 la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e accoglieva il ricorso proposto dalla Agenzia delle Entrate.
Al riguardo, nella motivazione la Corte evidenziava che la decisione della C.T.R. era gravemente carente nella valutazione degli elementi di fatto che costituivano oggetto del giudizio di appello, in quanto: a) il giudice di appello non aveva valutato adeguatamente la circostanza che la Guardia di Finanza nel richiedere l’autorizzazione ad accedere al domicilio del contribuente aveva chiarito i motivi di tale richiesta, ai quali aveva fatto espresso riferimento la Procura della Repubblica nel provvedimento con il quale aveva concesso l’autorizzazione; b) non aveva adeguatamente valutato, rispetto al contenuto dell’accertamento del maggior reddito di impresa, quanto era emerso dalla verifica bancaria che aveva consentito d individuare, nell’anno di imposta, versamenti sul conto personale del contribuente per alcuni milardi di lire, importo che superava di molto quello dei ricavi registrati e fatturati dall’impresa nello stesso anno; c) non aveva tenuto conto della documentazione extra contabile rinvenuta presso l’abitazione del contribuente dalla quale emergevano operazioni non fatturate annotate separatamente rispetto a quelle fatturate.
La Corte evidenziava, altresì, che la C.T.R. aveva ritenuto paradossale la sommatoria delle operazioni attive e passive effettuate dall’Agenzia delle Entrate nel suo accertamento ed aveva pure sottolineato che, essendo il contribuente in regime di contabilità ordinaria, le annotazioni risultanti dalle scritture contabili facevano piena prova.
Pertanto, la Corte cassava la sentenza della Commissione Tributaria regionale per vizio di motivazione, poiché il giudice di appello a) non aveva incentrato la motivazione sul reale contenuto dell’accertamento b) aveva ritenuto esaustiva e trasparente la contabilità del P., senza tenere conto che essa non trovava riscontro negli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza che avevano consentito di riscontrare una contabilità parallela e la effettuazione di operazioni commerciali non fatturate c) aveva escluso immotivatamente che le operazioni non contabilizzate dall’impresa fossero inerenti all’attività commerciale d) aveva attribuito valore probatorio pieno alla contabilità del contribuente senza prendere in considerazione le risultanze dell’accertamento che smentivano l’attendibilità di tale contabilità.
La Corte rilevava, inoltre, la erroneità della motivazione della C.T.R. nella parte in cui aveva ritenuto illegittima la sommatoria di versamenti e prelievi dal conto corrente ai fini della ricostruzione del reddito di impresa, sottolineando che nel caso di accertamento fondato su verifiche di conti correnti bancari gravava sul contribuente l’onere di provare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non fossero riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione risultava soddisfatto sulla base dei dati emergenti dai conti correnti bancari. Aggiungeva che in tema di accertamento dell’I.V.A. l’emissione di assegni da parte dell’amministratore, non giustificata da documentazione contabile, faceva legittimamente presumere che la impresa avesse effettuato operazioni non fatturate di acquisto e rivendita di beni.
Il contribuente riassumeva il giudizio e, con sentenza depositata in data 27.7.12, la C.T.R. accoglieva l’appello dell’Ufficio.
Per la cassazione della predetta sentenza ha, quindi, proposto ricorso Giovanni P. affidandosi a cinque motivi.
La Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Il P. ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 384, comma secondo, del cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.
2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.
Secondo la prospettazione del ricorrente, i giudici di secondo grado non avrebbero rispettato quanto statuito nella sentenza di annullamento con rinvio di questa Corte, in quanto si sarebbero sottratti al compito loro demandato di verificare, alla luce delle risultanze istruttorie, se il provvedimento che autorizzava l’accesso presso il domicilio del contribuente fosse stato emesso in presenza dei presupposti richiesti dall’art. 52, secondo comma, del d.P.R. 633 del 1972, nonché di operare una nuova valutazione delle risultanze istruttorie sulle quali la sentenza di rinvio aveva richiesto un supplemento di indagine, al fine di verificare la loro rilevanza ai fini della concessione dell’autorizzazione all’accesso presso il domicilio privato del P., rendendo in tal modo una pronuncia insufficiente su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
3.Il primo ed il secondo motivo di censura sono infondati.
3.1 In caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza del giudice di rinvio fondato sulla deduzione della infedele esecuzione dei compiti affidatigli con la precedente pronuncia di annullamento, il sindacato della S.C. si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice di rinvio, per effetto di tale affidamento e dell’osservanza dei relativi limiti, la cui estensione varia a seconda che l’annullamento stesso sia avvenuto per violazione di norme di diritto ovvero per vizi della motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in quanto, nella prima ipotesi, egli è tenuto soltanto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti, già acquisiti al processo, mentre, nel secondo caso, la sentenza rescindente, indicando i punti specifici di carenza o di contraddittorietà della motivazione, non limita il potere del giudice di rinvio all’esame dei soli punti indicati, da considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, ma conserva al giudice stesso tutte le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento (Cass. n. 23335 del 16/11/2016).
Nella sentenza di annullamento n. 7816/10 questa Corte ha avuto modo di rilevare che la C.T.R., nell’annullare l’atto impositivo per violazione dell’art. 52, secondo comma, del d.P.R. n. 633/72, non aveva valutato <<adeguatamente la circostanza per cui l’Ufficio nel richiedere alla Procura della Repubblica l’autorizzazione ad accedere al domicilio del contribuente aveva ben chiarito I motivi di tale richiesta ed ad essi la Procura della Repubblica ha fatto riferimento quando ha concesso l’autorizzazione…>> ed ha evidenziato che, pur essendo stati rappresentati alla Procura della Repubblica una serie di elementi che portavano a ritenere <<il domicilio come la sede reale della attività commerciale mentre la sede dichiarata svolgeva la funzione di deposito.tali circostanze non erano state affatto prese In esame dalla C.T.R.
La Corte ha, quindi, annullato la sentenza pronunciata dalla C.T.R. per vizio di motivazione e, pertanto, risulta Inconferente il richiamo, da parte del ricorrente, all’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui impone al Giudice del rinvio di uniformarsi al principio di diritto.
Il Giudice di appello neppure si è sottratto al dovere di vagliare gli elementi di fatto sui quali questa Corte, attraverso la sentenza di annullamento con rinvio, aveva richiesto un nuovo riesame al fine di verificare se l’autorizzazione all’accesso fosse stata adottata In presenza dei presupposti di legge.
Infatti, la C.T.R. nella sentenza Impugnata, nell’affrontare la questione concernente la dedotta violazione dell’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, dopo avere posto In rilievo che la Procura, come affermato dalla Corte nella sentenza di annullamento, aveva rappresentato una serie di elementi che Inducevano a ritenere II domicilio come la sede reale della attività commerciale, quali a) Il volume di affari ed il reddito dichiarato dalla ditta, molto al di sotto della reale potenzialità della attività di commercio all’lngrosso b) l’utilizzo della sede dichiarata di via A.M. R. n. Ili unicamente come deposito per II carico e scarico delle merci c) la Intestazione al contribuente di n. 2 utenze telefoniche, di cui una presso la abitazione sita in Rieti, via Collalto Sabino n. 18, e l’altra In via A.M. R. n. IlI, ove era ubicato il deposito, ha ritenuto che detti elementi, complessivamente valutati, fossero di per sé sufficienti a far ritenere che la autorizzazione, diversamente da quanto affermato nella sentenza cassata, <<fosse pienamente In linea con il disposto di cui al secondo comma dell’art. 52 DPR 633/72>>.
Il giudice di appello ha, quindi, preso in esame le circostanze evidenziate dalla sentenza di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione e ha proceduto ad una diversa valutazione di tali elementi di fatto, ritenendoli idonei e sufficienti a giustificare l’autorizzazione all’accesso presso l’abitazione del contribuente.
Conseguentemente deve essere respinto anche il secondo motivo di ricorso concernente il vizio di motivazione, in quanto il giudice di appello ha motivato in maniera esaustiva e non contraddittoria sulla questione sottoposta al suo esame, esplicitando le ragioni in forza delle quali ha ritenuto di dover esprimere un giudizio positivo circa la legittimità dell’autorizzazione all’accesso.
4.Con il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente per evidente connessione, il P. denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.), la violazione dell’art. 42 del d.p.r. n. 600 del 1973 e dell’art. 56 del d.p.r. n. 633 del 1972, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la insufficiente o omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ., nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ..
Il ricorrente, premettendo che le attività di verifica, che hanno avuto ad oggetto il periodo compreso tra il 1° gennaio 1995 ed il 24 marzo 1999, si sono concluse con la redazione del processo verbale di constatazione del 14.5.99 e che il metodo di accertamento non è stato il medesimo in relazione alle diverse annualità oggetto di verifica, ha fatto presente che per le annualità 1995, 1996, 1997 e 1998 la verifica si è basata sull’esame delle movimentazioni in entrata registrate nel conto di mastro, le quali risultavano superiori al volume d’affari della ditta, mentre in relazione al periodo di imposta 1999, oggetto del presente giudizio, la proposta di recupero a tassazione ha preso le mosse da una rilevata discrepanza tra i valori emergenti dalle scritture di carico e scarico del magazzino ed i dati rinvenienti dalla rilevazione fisica delle merci presenti nello stesso.
Ha, quindi, evidenziato che la Agenzia delle Entrate nel ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria regionale, pur
avendo fatto espresso riferimento alle modalità con le quali era avvenuto l’accertamento, si era lamentata di una presunta violazione delle disposizioni che regolavano gli accertamenti di tipo bancario, ossia degli artt. 32 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e degli artt. 51 e 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, richiamando disposizioni che erano del tutto inconferenti, posto che l’attività accertativa, in relazione all’annualità 1999, si era incentrata sulle giacenze di magazzino e non sulle movimentazioni in entrata ed in uscita registrate sui conti correnti personali del titolare dell’azienda.
I giudici di rinvio, ad avviso del P., nel riesaminare il merito della controversia, non hanno rilevato che nel caso di specie non erano applicabili i principi in materia di accertamenti bancari indicati nella sentenza di annullamento con rinvio, ma hanno erroneamente ritenuto che la ripresa a tassazione fosse giustificata alla luce della disciplina e dei principi giurisprudenziali valevoli per gli accertamenti fondati su movimentazioni dei conti correnti bancari, incorrendo in tal modo in un vizio di ultrapetizione e determinando una inammissibile modificazione in sede contenziosa della motivazione dell’accertamento ed una diversa giustificazione della pretesa tributaria, in asserita violazione degli artt. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e art. 56 del d.P.R. n. 633 del 1972, oltre che una violazione dei criteri di riparto dell’onere della prova.
4.1 I motivi non sono fondati.
Con tali censure, il ricorrente, sostenendo che i giudici di rinvio avrebbero dovuto verificare la applicabilità al caso di specie dei principi valevoli in ambito di accertamenti bancari, non articola in concreto un vizio di omessa pronuncia o di motivazione insufficiente circa un fatto decisivo, ma contesta nel merito le ragioni che la Commissione tributaria regionale in sede di giudizio di rinvio ha addotto a sostegno della decisione di accoglimento dell’appello proposto dalla Agenzia delle Entrate.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico –
formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. n. 19547 del 4/8/2017).
Nella sentenza impugnata, in realtà, la C.T.R. ha posto in rilievo che la verifica effettuata dalla Guardia di Finanza ha riguardato non solo la documentazione acquisita, ma anche la rilevazione fisica delle merci giacenti nei locali destinati alla attività, ed ha affermato, ai fini deH’accertamento della fondatezza della ripresa a tassazione, che le risultanze dei conti correnti bancari, dalle quali era emerso che negli anni oggetto di verifica la ditta aveva movimentato somme di denaro superiori al suo volume d’affari, e la documentazione extra-contabile rinvenuta nella abitazione del P. costituivano elementi decisivi a far ritenere, <<…in linea con la segnalazione dei verbalizzanti, che tutte le operazioni registrate in avere sul conto di mastro fossero afferenti alle vendite di prodotti oggetto della attività del P., vendite effettuate in violazione degli obblighi di fatturazione, registrazione e dichiarazione>> e, quindi, che la contabilità tenuta in regime ordinario dal contribuente non era attendibile, in ragione della riscontrata effettuazione di operazioni commerciali non fatturate.
All’esito della complessiva valutazione dei suddetti elementi il giudice di appello ha quindi affermato, con riguardo all’accertamento sulle imposte dei redditi, la applicabilità alla fattispecie in esame della presunzione legale
ricavabile dall’art. 32, primo comma, n. 2 del d.P.R n. 600 del 1973; con riferimento all’accertamento dell’I.V.A., partendo dal presupposto che la emissione di assegni da parte del titolare della impresa non trovasse giustificazione nella documentazione commerciale, ha ritenuto che la impresa avesse effettuato operazioni non fatturate di acquisto e di rivendita dei beni, facendo in tal modo applicazione delle presunzioni legali previste dall’art. 51, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 e dall’art. 53, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973.
In difetto di prova contraria, ha conseguentemente considerato non assolto dal contribuente l’onere di dimostrare che gli elementi emersi dalla documentazione bancaria non fossero riferibili ad operazioni imponibili ed ha, quindi, considerato del tutto legittimo l’accertamento impositivo.
Con la motivazione resa la C.T.R., senza operare una diversa qualificazione della fattispecie sottoposta al suo esame, ha, quindi, attribuito evidente prevalenza probatoria alla documentazione contabile ed extra contabile acquisita in sede di verifica ed ha esplicitato in modo esaustivo e non contraddittorio le ragioni logico-giuridiche poste a fondamento della decisione, facendo, altresì, corretta applicazione dei principi di riparto dell’onere della prova.
Il ricorrente, d’altro canto, non ha indicato alcun “fatto”, dedotto e non adeguatamente valutato nella sentenza impugnata, idoneo a giustificare una decisione diversa da quella assunta, ma si è limitato a denunciare in blocco la valutazione compiuta dal Giudice di appello e a proporne una diversa.
Trattandosi, dunque, di censure che non attengono ad un vizio di motivazione, ma che investono il merito della controversia che non può essere riesaminato in sede di legittimità, i motivi non possono essere accolti.
Il ricorso deve quindi essere rigettato.
Le spese di lite del giudizio di legittimità, in applicazione del principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 7.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
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