CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 settembre 2017, n. 22171
Licenziamento disciplinare – Proporzionalità fra addebito e sanzione – Lesione irrimediabile del vincolo fiduciario – Condotta rilevante anche sul piano penale – Principio di immutabilità della contestazione – Violazione – Non sussiste – Fatti non contestati risalenti nel tempo – Rilievo quali circostanze confermative della significatività dell’addebito
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di prime cure che aveva accolto il ricorso proposto da M. F. nei confronti della A. s.r.l., ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato dalla società il 14 gennaio 2011, escludendo il preteso difetto di proporzionalità fra addebito e sanzione ritenuto, invece, dal Tribunale.
2. La Corte territoriale ha premesso che al F. era stato contestato di avere incassato il 26 ottobre 2010 la somma di € 503,38 dal cliente F. F. e di non averla immediatamente consegnata al datore di lavoro, trattenendola per 17 giorni. Ha evidenziato, inoltre, che l’addebito era stato ammesso dal lavoratore, il quale nella lettera di giustificazione pervenuta alla società, aveva confermato l’omesso versamento dell’importo ed aveva invocato a sua scusante “gravi motivi familiari”.
3. Il giudice di appello ha ritenuto la condotta di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario perché il F., disattendendo precise direttive aziendali, aveva trattenuto la somma incassata utilizzandola a fini personali e, quindi, tenendo una condotta rilevante anche sul piano penale, la cui antigiuridicità non era esclusa dalla temporaneità dell’appropriazione, tanto più che l’ammanco, verosimilmente, era stato ripianato solo nel momento in cui il lavoratore aveva avuto notizia del sollecito di pagamento effettuato al cliente dalla società, per il tramite di un suo agente.
4. La Corte territoriale ha evidenziato che la giusta causa non poteva essere esclusa facendo leva sulla entità della somma e sull’assenza di danno economico per il datore, perché la condotta era tale da porre in dubbio la correttezza e la lealtà del dipendente, che anche in precedenza aveva tenuto comportamenti analoghi, dimostrando una particolare propensione alla trasgressione degli obblighi contrattuali.
5. Infine il giudice del merito ha disatteso l’eccezione, riproposta dal F. con appello incidentale condizionato, di decadenza dall’irrogazione del licenziamento ai sensi dell’art. 227 del CCNL del settore commercio, perché la società aveva spiegato le ragioni della proroga, utilizzata per accertare se si trattasse o meno di un fatto isolato.
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M. F. sulla base di tre motivi. La A. s.r.l. ha resistito con tempestivo controricorso.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo, articolato in più punti, il ricorrente denuncia ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. “falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2106, 2119 c.c., nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 5 L. n. 604/1966 e dell’art. 7 L. n. 300/1970 “. Premesso che entrambi i giudici di merito avevano ritenuto di non dare ingresso all’istruttoria, il ricorrente rileva che la Corte territoriale non poteva fondare la decisione su circostanze non provate e, quindi, non poteva valorizzare né l’esistenza di “categoriche direttive sull’immediato versamento delle somme incassate”, delle quali la società non aveva offerto alcuna prova, né le asserite ragioni del ripianamento dell’ammanco, perché non era stato dimostrato che il versamento fosse avvenuto solo perché il F. aveva avuto notizia del sollecito del pagamento inoltrato al cliente. Aggiunge che la pretesa utilizzazione delle somme per motivi personali era stata contestata dal lavoratore, il quale aveva formulato capitoli di prova finalizzati a dimostrare di essere stato indotto dal responsabile della filiale a modificare il contenuto delle giustificazioni, nelle quali era stato fatto presente che il ritardo era da addebitare ad una mera dimenticanza, perché, sempre a detta del responsabile della filiale, l’ammissione di responsabilità ed il richiamo a ragioni di carattere familiare avrebbero consentito l’archiviazione del procedimento. Evidenzia, inoltre, che il licenziamento non poteva essere intimato facendo leva su comportamenti analoghi tenuti in precedenza dal lavoratore, perché dette precedenti condotte non erano state espressamente contestate. Aggiunge che la tolleranza mostrata dal datore di lavoro preclude l’esercizio del potere disciplinare perché ingenera nel dipendente la convinzione della legittimità della condotta e della sua inidoneità ad arrecare pregiudizio alla organizzazione aziendale. Evidenzia in via conclusiva che la circostanza provata, perché ammessa, del ritardo di 17 giorni nel versamento della somma ricevuta dal cliente, che aveva indotto come unica conseguenza “una situazione di imbarazzo” tra l’azienda e quest’ultimo, non poteva giustificare la sanzione espulsiva, non essendo idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento delle obbligazioni che derivano dal rapporto contrattuale.
1.2. Il secondo motivo, formulato sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione dell’art. 227 CCNL per i dipendenti del terziario, della distribuzione dei servizi, dell’art. 2697 c.c. nonché degli artt. 115, 116 e 117 c.p.c.”. Premesso che le parti collettive hanno previsto un termine perentorio per l’adozione del provvedimento disciplinare, prorogabile previa preventiva comunicazione scritta al lavoratore interessato, “per esigenze dovute a difficoltà nella fase di valutazione delle controdeduzioni e di decisione nel merito”, rileva il ricorrente che la proroga in tanto può essere ritenuta legittima in quanto il datore di lavoro indichi le ragioni della proroga stessa e, ove contestate, ne fornisca la prova. La Corte territoriale, pertanto, non poteva respingere l’eccezione di decadenza, riproposta con l’appello incidentale condizionato, perché detto onere probatorio non era stato assolto dalla società, non potendo a tal fine essere ritenute sufficienti le sole dichiarazioni del legale rappresentante in sede di interrogatorio libero.
1.3. Infine con la terza censura il ricorrente si duole dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti perché nel respingere l’eccezione di decadenza la Corte territoriale non ha considerato che la validità della proroga presuppone la previa comunicazione al lavoratore, che nella specie era mancata in quanto la consegna a mani della missiva era avvenuta non il 29 dicembre 2010 bensì al momento della intimazione del licenziamento. Il ricorrente aveva chiesto di poter provare la circostanza ed aveva domandato la ammissione di prova testimoniale e di interrogatorio formale del legale rappresentante della società, sicché la Corte non poteva respingere l’eccezione di decadenza e ritenere ” assorbite tutte le altre questioni non affrontate in quanto irrilevanti” perché la circostanza non valutata doveva ritenersi decisiva in ragione degli adempimenti di carattere procedurale imposti al datore di lavoro.
2. Il primo motivo è infondato nella parte in cui denuncia la violazione del principio di immutabilità della contestazione ed è inammissibile per il resto.
Occorre premettere che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le più recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110).
2.1. In tema di licenziamento, poi, si è da tempo evidenziato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la disposizione codicistica tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ( Cass. 16.5.2016 n. 10017 che richiama Cass. 2.3.2011 n. 5095 e Cass. 26.4.2012 n. 6498) al quale è anche riservata la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili ai fini dell’accertamento dei fatti rilevanti per la decisione, scelta censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, nei limiti consentiti dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. , e non della violazione di legge (Cass. 20.9.2013 n. 21603; Cass. 18.3.2013 n. 6715; Cass. 5.7.2016 n. 13716).
2.2. Il ricorrente, pur denunciando in rubrica la violazione dell’art. 2119 cod. civ. nonché delle norme del codice che impongono al prestatore gli obblighi di diligenza e fedeltà, sostanzialmente si duole della ricostruzione del fatto operata dal giudice del merito e della mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti, sicché la censura non è riconducibile al vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.
La stessa, poi, non è ammissibile ai sensi del n. 5 della disposizione citata perché, in relazione alle sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore del d.l. 22.6.2012 n. 83, convertito nella legge 7.8.2012 n. 134, l’errore commesso nella valutazione delle risultanze di causa è rilevante solo qualora si sia tradotto nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione fra le parti, che la parte è tenuta a denunciare, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., indicando il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” ( Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053).
Nel caso di specie nessun omesso esame può essere addebitato alla Corte territoriale perché la sentenza impugnata ha ricostruito la condotta, nei profili oggettivi e soggettivi, in termini difformi rispetto a quanto sostenuto dal F., il quale con il ricorso per cassazione sollecita una diversa valutazione delle risultanze processuali, non consentita al giudice di legittimità.
2.3. Considerazioni analoghe vanno espresse in merito alla violazione degli artt. 2697 cod. civ. e 5 I. n. 604 del 1966 che può essere denunciata ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. solo qualora il giudice del merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul principio actore non probante reus absolvitur ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo. In tal caso l’errore condiziona la decisione, poiché fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli della incertezza probatoria su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico regola-eccezione, a provare il fatto incerto.
Detta evenienza non si verifica allorquando il giudice, all’esito della valutazione delle risultanze di cause, ritenga provati i fatti allegati dalla parte sulla quale ricadeva il relativo onere. In tal caso la doglianza sulla valutazione espressa, in quanto estranea all’interpretazione della norma, va ricondotta al vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. e, quindi, può essere apprezzata solo nei limiti fissati dalla disposizione, nel testo applicabile ratione temporis.
2.4. Non sussiste, poi, la asserita violazione del principio di immutabilità della contestazione perché detto principio non vieta di considerare fatti non contestati, ed anche risalenti nel tempo, quali circostanze confermative della significatività dell’addebito posto a base del licenziamento, perché in tal caso i comportamenti non contestati assumono rilievo solo ai fini della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità del correlativo provvedimento sanzionatorio adottato dal datore di lavoro (Cass. 19.1.2011 n. 1145; Cass. 14.10.2009 n. 21795; Cass. 17.5.2003 n. 7734).
2.5. Infine il motivo è inammissibile nella parte in cui sostiene, in via logicamente subordinata alle altre censure, che una volta ritenuta provata la ripetuta violazione delle direttive aziendali, la Corte territoriale avrebbe da ciò dovuto desumere la irrilevanza disciplinare della condotta e fare applicazione del principio secondo cui la tolleranza mostrata dal datore di lavoro ingenera nel dipendente la convinzione della legittimità della condotta tenuta.
La sentenza impugnata non affronta la questione posta dal ricorrente, implicante anche un accertamento di fatto, sicché il F., al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, aveva l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa ( cfr. fra le tante Cass. 22.4.2016 n. 8206).
3. Il secondo ed il terzo motivo vanno trattati congiuntamente perché entrambi censurano il capo della decisione relativo alla tempestività del licenziamento, ritenuta dalla Corte territoriale sul presupposto della legittimità della proroga, disposta dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 227 del CCNL per i dipendenti delle aziende del commercio e del terziario.
La clausola contrattuale, che può essere direttamente interpretata da questa Corte, in considerazione della funzione nomofilattica attribuita dall’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., nel testo modificato dal d.lgs n. 40 del 2006 ( cfr. Cass. Sez. U. 23.9.2010 n. 20075), prevede che “L’eventuale adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni. Per esigenze dovute a difficoltà nella fase di valutazione delle controdeduzioni e di decisione nel merito, il termine di cui sopra può essere prorogato di 30 giorni, purché l’azienda ne dia preventiva comunicazione scritta al lavoratore interessato”.
Il ricorrente, nel rispetto degli oneri di specificazione e allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ., ha trascritto nel ricorso i punti salienti dell’atto introduttivo del giudizio di primo e dell’appello incidentale condizionato con i quali la legittimità della proroga era stata contestata innanzitutto perché nell’atto non erano state indicate le ragioni che rendevano necessario il differimento del termine finale ed inoltre perché della proroga il lavoratore aveva avuto conoscenza solo al momento della comunicazione del licenziamento.
Entrambe le censure sono state riproposte in questa sede in quanto la Corte territoriale ha respinto l’eccezione di tardività del recesso e ritenuto che la proroga fosse stata legittimamente disposta ” stante la motivata spiegazione offerta dal legale rappresentante della società appellante..”.
3.1. Ciò premesso ritiene il Collegio che la doglianza relativa all’omessa specificazione delle ragioni legittimanti la proroga non sia fondata, posto che la clausola contrattuale è chiara nell’imporre al datore di lavoro solo un obbligo di preventiva comunicazione, ma non richiede che nell’atto vengano anche precisati i motivi che rendono necessaria o opportuna la scelta di avvalersi del termine lungo, per meglio valutare le controdeduzioni ed eventualmente per acquisire ulteriori elementi utili ai fini della decisione.
3.2. Peraltro detta scelta non è assolutamente insindacabile, sicché, qualora il lavoratore contesti la ricorrenza di ragioni che legittimano la proroga, poiché le stesse incidono sulla tempestività dell’atto di recesso, l’indagine che il giudice del merito è chiamato ad effettuare non è dissimile da quella allo stesso riservata nelle ipotesi in cui si assuma la tardività della contestazione. Opera, pertanto, anche in tal caso il principio secondo cui il concetto di tempestività ha carattere relativo e il ritardo nella irrogazione della sanzione può essere giustificato qualora l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero la complessità della struttura organizzativa dell’impresa sia suscettibile di far ritardare il provvedimento di recesso ( cfr. Cass. 19.6.2014 n. 13955; Cass. 12.1.2016 n. 281).
Nella fattispecie la Corte territoriale ha ritenuto che la decisione di avvalersi della proroga fosse giustificata dalla necessità di escludere che anche in passato il lavoratore avesse indebitamente trattenuto le somme versate dai clienti e detta valutazione di fatto non può essere censurata in questa sede.
Non si ravvisa, poi, alcuna violazione di legge nella valorizzazione delle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero dal legale rappresentante della società, perché la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, sebbene il mezzo istruttorio sia solo diretto a chiarire i termini della controversia, tuttavia sulle dichiarazioni delle parti può essere fondato il convincimento del giudice del merito, al quale è riservata la valutazione della loro concludenza e attendibilità (fra le più recenti in tal senso Cass. 29.12.2014 n. 27407).
3.3. Va detto, però, che le parti collettive hanno subordinato la legittimità del differimento alla “preventiva comunicazione scritta al lavoratore interessato”, il che esclude che il datore di lavoro possa manifestare la volontà dopo la scadenza del termine indicato dal primo comma della clausola contrattuale, che, nel rispetto dei canoni di ermeneutica fissati dagli artt. 1362 e 1363 cod. civ., va interpretata tenendo conto del tenore complessivo della stessa, delle espressioni letterali utilizzate, delle finalità perseguite dai contraenti.
In merito occorre premettere che questa Corte, nell’interpretare clausole analoghe di altri contratti collettivi, ha evidenziato, con plurime pronunce, che “nel caso in cui il contratto collettivo di lavoro imponga al datore l’onere di intimare la sanzione disciplinare, a pena di decadenza, entro un certo termine dalla data di ricezione delle giustificazioni fornite dal lavoratore, tale termine deve intendersi rispettato per il solo fatto che il datore abbia tempestivamente manifestato la volontà di irrogare la sanzione, a nulla rilevando che tale dichiarazione recettizia sia portata a conoscenza del lavoratore successivamente alla scadenza di quel termine.” (Cass. 4.10.2010 n. 20566 e negli stessi termini Cass. 2.3.2011 n. 5093; Cass. 10.9.2012 n. 15102; Cass. 20.3.2015 n. 5714).
Si è osservato, infatti, che il principio della scissione tra il momento in cui la volontà di recedere è manifestata e quello in cui si producono gli effetti ricollegabili a tale volontà, affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8830 del 14 aprile 2010 con riferimento alla impugnazione del licenziamento, deve trovare applicazione ogniqualvolta nell’ambito del procedimento disciplinare il momento della esternazione della volontà non coincide con quello della conoscenza da parte del destinatario, perché diversamente risulterebbe intaccato il parametro di ragionevolezza ed uguaglianza formale e sostanziale tra i soggetti coinvolti.
Il principio di diritto, al quale il Collegio intende dare continuità, deve essere qui ribadito, in quanto, per la sua portata generale, trascende il singolo contratto e la sua applicabilità può essere impedita solo da una esplicita diversa previsione della norma contrattuale, che va esclusa nella fattispecie.
3.4. Invero il tenore letterale dei termini utilizzati dall’art. 227 del CCNL commercio non consente di affermare che i contraenti abbiano senz’altro inteso attribuire rilievo, ai fini del rispetto del termine entro il quale il procedimento disciplinare deve essere concluso, al momento della conoscenza della sanzione da parte del lavoratore, perché il verbo comunicare descrive una relazione fra due soggetti e, quindi, evoca innanzitutto il momento della trasmissione ad altri della notizia o del pensiero, rispetto al quale la fase della ricezione si pone come logicamente e temporalmente successiva.
Ne discende che la volontà delle parti collettive deve essere ricostruita, a fronte di espressioni di significato non univoco, considerando innanzitutto che la disciplina del procedimento realizza una mediazione fra gli opposti interessi delle parti e che, mentre il termine per la contestazione è volto a garantire la tempestività dell’esercizio del potere, in funzione della necessaria tutela del diritto di difesa del lavoratore ed in considerazione del principio del legittimo affidamento sulla irrilevanza disciplinare della condotta, il termine per la conclusione soddisfa esigenze diverse da quelle già assicurate dal contraddittorio procedimentale, ed è finalizzato a garantire la certezza delle situazioni giuridiche, che, una volta avviato il procedimento, implica una valutazione tempestiva da parte del datore di lavoro delle giustificazioni fornite dal lavoratore e una decisione, altrettanto tempestiva, sulla rilevanza della condotta e sulla scelta della sanzione da irrogare.
Rispetto a dette esigenze, quindi, ciò che rileva è il momento della manifestazione della volontà da parte del datore di lavoro, al quale va riferito il termine concesso per gli accertamenti e per le valutazioni, termine che finirebbe per essere compresso, senza ragione alcuna, qualora si pretendesse dal datore di farsi carico anticipatamente di eventuali ritardi addebitabili al soggetto incaricato di recapitare al lavoratore l’atto.
3.5. Considerazioni analoghe vanno espresse con riferimento all’onere di comunicazione imposto in caso di proroga dal secondo comma dell’art. 227 perché, se il termine fissato dal primo comma è rispettato nel momento in cui la volontà viene esternata e trasmessa al destinatario, affinché la proroga possa essere validamente disposta è necessario che, prima dello spirare del termine finale, il datore di lavoro manifesti per iscritto la volontà di avvalersi del prolungamento e entro il medesimo termine, ove non provveda alla consegna dell’atto, avvii la procedura di comunicazione mediante consegna al soggetto incaricato di curare il recapito.
Inoltre poiché le formalità imposte dalla disposizione contrattuale condizionano la legittimità della proroga, qualora il rispetto delle stesse venga contestato, sarà onere del datore di lavoro dimostrare di avere ottemperato alle prescrizioni previste dal CCNL e, quindi, di avere quantomeno avviato, entro il termine di 15 giorni, la procedura di comunicazione al lavoratore del disposto prolungamento.
3.6. La sentenza impugnata ha ritenuto legittima la proroga, senza accertare, pur a fronte di una specifica contestazione reiterata in sede di gravame, se la comunicazione, da intendersi nei termini sopra indicati, fosse stata tempestiva. La stessa, pertanto, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, deve essere cassata in parte qua, con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato al punto 3.5. e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
L’accoglimento del ricorso rende inapplicabile l’art. 13, comma 1 quater, del d.p.r. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Cagliari in diversa composizione.
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