CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2017, n. 36760

Società di persone – Impignorabilità – Liquidazione della quota del socio debitore

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Firenze, a seguito di gravame interposto dall’imputato R.I. avverso la sentenza emessa il 15.11.2013 dal GIP del locale Tribunale, ha confermato la decisione con la quale il predetto è stato riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 388 comma 6 cod. pen. e condannato a pena di giustizia, oltre le statuizioni civili.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato che, con atto del difensore, deduce:

2.1. Erronea applicazione dell’art. 388 comma 6 cod. pen. in relazione alla affermata irrilevanza della impignorabilità del bene e, segnatamente, della quota sociale in questione in relazione alla quale – secondo l’art. 2305 cod. civ. previsto per le s.n.c. ma applicabile alla s.a.s. in virtù del richiamo dell’art. 2315 cod. civ. – il creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore. Di qui la sua impignorabilità. Tanto si riverbererebbe inevitabilmente sull’elemento psicologico del reato.

2.2. Inosservanza degli artt. 163,164 cod. pen. 597 e 599 cod. proc. pen., sussistendo le condizioni per la concessione delle attenuanti generiche o, anche, quelle per la non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis c.p.. e, comunque, quelle per la concessione ordinaria e non subordinata della sospensione condizionale della pena.

Considerato in diritto

1. Il ricorso deve essere accolto essendo fondato il primo motivo.

2. Il reato ascritto all’imputato riguarda la falsa dichiarazione all’ufficiale giudiziario in ordine a cose o crediti pignorabili: nella specie è stata contestata la omessa dichiarazione della titolarità in capo all’imputato di un quota, quale socio accomandante, di una società in accomandita semplice.

3. Per l’espressa previsione dell’art. 2305 cod. civ., richiamato per le s.a.s. dall’art. 2315 cod. civ., il creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore. Rispetto a tale previsione quella dell’art. 2322 cod. civ., circa la trasmissibilità della quota sociale, non costituisce espressione di una deroga alla predetta regola.

Come ha chiarito Cass. Civ. Sez. 1, n. 15605 del 07/11/2002 (Rv. 558296 – 01), “le quote delle società di persone non possono, quanto meno in linea di principio, essere espropriate finché dura la società a beneficio dei creditori particolari dei soci…. Il principio non è enunciato espressamente in alcuna disposizione di legge, ma si desume con sicurezza dalla disciplina complessiva delle società personali, tradizionalmente ispirata all’esigenza che i rapporti fra i soci siano caratterizzati da un elemento fiduciario (il c.d. intuitus personae), il quale implica che, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, le partecipazione sociale può essere trasferita solo con il consenso di tutti i soci, ovvero di quelli che rappresentano la maggioranza del capitale sociale (artt. 2252, 2284, 2322 c.c.). L’espropriazione della quota, comportando l’inserimento nella compagine sociale di un nuovo soggetto, prescindendo dalla volontà degli altri soci, introdurrebbe un elemento di “novità” incompatibile con i caratteri di tale tipo di società. S’intende allora perché il legislatore, quando ha ritenuto di consentire ai creditori particolari del socio di soddisfarsi sui beni rappresentati dalla quota di partecipazione del loro debitore, abbia previsto la possibilità di richiedere (non già l’espropriazione, ma) la liquidazione della quota che, pur intaccando il patrimonio della società, non determina alcuna variazione nella composizione della compagine sociale. Questa scelta chiarisce, altresì, che l’inespropriabilità della quota non si ricollega ad un’esigenza di tutela dei creditori sociali (infatti la liquidazione della quota, comportando la diminuzione del patrimonio sociale, è meno conveniente per tali soggetti), ma è posta a protezione dei soci, in considerazione della particolare rilevanza che l’individualità di ciascuno di essi assume nei loro reciproci rapporti”.

4. Esula – pertanto – dall’alveo di legittimità, la Corte di merito che ha rigettato la analoga doglianza in appello ritenendo irrilevante la questione circa la impignorabilità della quota sociale in capo al ricorrente, assumendo trattarsi di un reato ai danni della amministrazione giudiziaria, che si realizza per il solo fatto di aver tenuto celata, in sede di dichiarazione all’ufficiale giudiziario, la titolarità di un bene.

Deve, invece, rilevarsi che la dichiarazione alla quale – ai sensi dell’art. 492, comma 4, cod. proc. civ. – è tenuto il debitore in sede di esecuzione e la cui omissione o falsità è sanzionata dall’art. 388, comma 6, cod. pen. – ha ad oggetto solo i beni pignorabili e non la generalità di quelli nella sua disponibilità, sicché – al contrario di quanto assume la Corte di merito – rilevante è la questione sulla pignorabilità del bene che, nella specie e per quanto sopra detto, va esclusa.

5. In conclusione, deve essere affermato che l’omessa indicazione all’ufficiale giudiziario da parte del debitore esecutato della titolarità delle quote della s.a.s. non integra il reato di cui all’art. 388, comma 6, cod. pen. il quale ha ad oggetto I’ omessa o falsa dichiarazione in ordine a beni pignorabili e non quelli – come dette quote sociali – impignorabili e, come tali, esclusi all’obbligo dichiarativo.

6. Pertanto, va disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.