CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 gennaio 2018, n. 1963
TARSU – Rifiuti generati dai locali produttivi – Regolari cassonetti per la raccolta – Regolare fruizione del servizio – Pagamento dell’imposta
Fatti rilevanti e ragioni della decisione
1. La M. srl propone tre motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 290/29/13 del 31 luglio 2013 con la quale la commissione tributaria regionale del Lazio, in riforma della prima decisione, ha ritenuto legittimi gli avvisi di liquidazione notificatile dall’ Azienda Municipale Ambiente per la città di Roma – AMA spa per Tarsu 2006, 2007 e 2009. Ciò in relazione ai rifiuti generati dai locali produttivi da essa detenuti in Roma, Via A..
La commissione tributaria regionale, in particolare, ha rilevato che: – il Comune di Roma aveva regolarmente istituito il servizio di raccolta rifiuti nella zona di pertinenza, come anche desumibile dalle fotografie e dagli altri documenti prodotti da Ama; – quand’anche la società avesse incaricato della raccolta una ditta terza, ciò non la mandava esente dall’imposta, secondo quanto previsto dal regolamento comunale n.105/05.
Resiste con controricorso e memoria AMA spa.
2.1 Con il primo motivo di ricorso la M. srl lamenta – ex art. 360, 1 co.n.3) cpc – violazione o falsa applicazione degli artt. 32 e 58 d.lgs. 546/92, nonché 345 cpc. Per avere la commissione tributaria regionale basato il proprio convincimento, di regolare istituzione del servizio, su documentazione irritualmente prodotta, in primo grado, da AMA con la costituzione in giudizio in data 3 gennaio 2012 e, dunque, non nel rispetto di 20 giorni liberi prima dell’udienza di discussione del 23 gennaio 2012.
2.2 II motivo è infondato.
La decisione della commissione tributaria regionale – di prendere in esame la documentazione tardivamente prodotta da AMA in primo grado, in quanto da quest’ultima nuovamente prodotta in appello nel rispetto del termine di costituzione in sede di gravame – deve ritenersi corretta. Essa è infatti conforme alla speciale disciplina del rito tributario di cui al d.lgs. 546/92, in base alla quale – diversamente da quanto previsto dall’art.345 u.c. cpc per il rito ordinario – è fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti in appello (art. 58, 2 co., d.lgs. 546/92 cit..).
Ricorre pertanto, esattamente in termini, l’indirizzo di legittimità secondo cui: “in tema di contenzioso tributario, il giudice d’appello può fondare la propria decisione sui documenti tardivamente prodotti in primo grado, purché acquisiti al fascicolo processuale in quanto tempestivamente e ritualmente prodotti in sede di gravame entro il termine perentorio di cui all’art. 32, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di venti giorni liberi prima dell’udienza, applicabile in secondo grado stante il richiamo, operato dall’art. 61 del citato decreto, alle norme relative al giudizio di primo grado”(Cass. 3661/15; così Cass. 24398/16).
3.1 Con il secondo motivo di ricorso la società lamenta – ex art. 360, 1 co.n.3) cpc – violazione o falsa applicazione dell’art.1 Reg. Comune di Roma n. 105/05, ed art. 14 Reg. Comune di Roma sulla gestione dei rifiuti urbani. Per non avere la commissione tributaria regionale considerato che il Comune, contravvenendo a quanto stabilito nei predetti regolamenti, non aveva istituito né svolto il servizio di raccolta rifiuti nella zona di Via A.. Questa circostanza – già accertata con due sentenze della commissione tributaria provinciale di Roma, per gli anni 2005 e 2008, passate in giudicato – l’aveva anzi costretta ad affidare il servizio ad una ditta privata, come da fatture prodotte in giudizio.
3.2 Il motivo è infondato.
L’istituzione del servizio di raccolta RSU nella zona di riferimento ha costituito oggetto di un preciso accertamento fattuale da parte del giudice di merito; il quale ha concluso in senso opposto a quello sostenuto dalla società contribuente.
In particolare, la commissione tributaria regionale ha ritenuto che quest’ultima non avesse dimostrato il proprio assunto di mancata istituzione del servizio. Sussistendo anzi, agli atti di causa, documentazione AMA comprovante l’esatto contrario; vale a dire: – la presenza in Via A. e strade adiacenti di “regolari cassonetti per la raccolta”; – la adeguata capacità di questi ultimi; – la regolare fruizione del servizio, con relativo pagamento dell’imposta, da parte delle altre ditte similmente operanti nella zona.
Si tratta di affermazioni – del resto neppure censurate sul piano della carenza motivazionale ex art.360, 1 co.n.5) cpc – che inducono ad escludere la lamentata violazione regolamentare, stante l’accertata attivazione del servizio.
Ad escludere l’invocata esenzione da imposta ricorre pertanto – con riguardo alla Tarsu ed ai tributi omologhi che le sono succeduti ( -Via-T.) – il principio desumibile da un dato legislativo già fatto oggetto di orientamento interpretativo costante, secondo cui: “in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, sulla base degli artt. 62 e 64 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, i Comuni devono istituire una apposita tassa annuale su base tariffaria che viene a gravare su chiunque occupi o conduca i locali, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui i servizi sono istituiti. Tale tassa è dovuta indipendentemente dal fatto che l’utente utilizzi il servizio, salva l’autorizzazione dell’ente impositore allo smaltimento dei rifiuti secondo altre modalità, purché il servizio sia istituito e sussista la possibilità della utilizzazione, ma ciò non significa che, per ogni esercizio di imposizione annuale, la tassa è dovuta solo se il servizio sia stato esercitato dall’ente impositore in modo regolare, così da consentire al singolo utente di usufruirne pienamente” (Cass. ord. 18022/13; così Cass. ord.14541/15).
Né potrebbe qui fondatamente invocarsi il giudicato di non debenza portato dalle sentenze CTP Roma relative alle annualità 2005 e 2008. La presente controversia, infatti, si riferisce a differenti annualità di imposta, in ordine alle quali – come detto – il giudice di merito ha concluso nel senso dell’avvenuta attivazione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani. Trattandosi di presupposto fattuale specificamente riferibile alle singole annualità di prestazione del servizio, gli effetti delle sentenze in giudicato non possono temporalmente estendersi oltre i periodi in esse considerate; e ciò proprio per il difetto del requisito indefettibile di durevolezza e permanenza nel tempo del dato oggettivo di attivazione ed erogazione del servizio, inteso quale presupposto dell’imposizione.
4.1 Con il terzo motivo di ricorso la M. lamenta, subordinatamente, la violazione dell’art.5 del citato Reg.105/05, con riferimento all’art.49, co.14, d.Igs.22/97. Posto che l’affidamento ad una ditta terza del recupero dei rifiuti assimilati comportava, per regolamento, quantomeno l’applicazione di un coefficiente di riduzione proporzionale dell’imposta.
4.2 II motivo è per più versi inammissibile.
Assodato, per le già indicate ragioni, che la commissione tributaria regionale non ha violato la legge nell’escludere, nella concretezza della fattispecie, i presupposti della invocata “esenzione” (non debenza) del tributo per mancata istituzione del servizio, si poneva in effetti il diverso problema di verificare se la società avesse subordinatamente titolo per ottenere la dedotta “riduzione” tariffaria proporzionale.
Ciò in base al principio per cui il regime di privativa comunale sulla gestione dei rifiuti urbani e speciali assimilati previsto dall’art.21 d.lvo 22/97 (decreto Ronchi) non esclude che sulla tariffa stabilita a tale titolo venga “applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi” (art.49, co.14 A d.lvo cit.).
Le modalità ed i limiti di esercizio della riduzione (operante sulla parte variabile della tariffa) risultano fissati – nell’ambito della potestà regolamentare assegnata dalla legge ai Comuni – nell’art.13, co.5 del Regolamento del Comune di Roma n.24/03 per l’applicazione sperimentale della Tari. Tale disciplina prescrive che il titolare dell’utenza non domestica debba dimostrare di aver avviato i rifiuti assimilati al recupero “in proprio” mediante: – dichiarazione resa ai sensi del dpr 445/00; – attestazione rilasciata da soggetto autorizzato; – allegazione del registro di carico/scarico; il tutto entro il 31 gennaio di ciascun anno interessato dalla riduzione.
Orbene, il motivo di ricorso in esame si limita a lamentare la violazione dell’art. co. 14 cit., senza farsi in alcun modo carico di rapportare tale asserita violazione alla imprescindibile disciplina secondaria attuativa (tra l’altro individuata nel motivo con riguardo ad una previsione, l’art.5 regolamento comunale n.105/05, apparentemente non pertinente, e la cui rilevanza non viene comunque illustrata).
Soprattutto, esso non specifica la natura dei rifiuti oggetto di raccolta e conferimento “in proprio”; la loro avvenuta assimilazione normativa da parte del Comune; la presentazione in tempo utile della prescritta richiesta di riduzione tariffaria all’amministrazione comunale; l’avvenuta allegazione probatoria, nel giudizio di merito, della documentazione regolamentare richiesta al fine di ottenere la riduzione medesima (i cui presupposti debbono essere provati ad onere del contribuente: Cass.10787/16; Cass. 9731/15).
In assenza di ciò, la censura si rivela del tutto generica, non autosufficiente e carente nella esposizione dei fatti di causa (Cass.15478/14; 5660/10; 15808/08).
Tanto da porre questa corte nell’impossibilità di verificare la rituale deduzione ed allegazione di tutti indistintamente gli elementi integrativi della invocata fattispecie di riduzione tariffaria, al fine di appurare l’effettiva violazione – da parte del giudice di merito – della disciplina (legislativa e regolamentare) ad essa esattamente riferibile.
Nemmeno varrebbe obiettare che la prova dei requisiti di riduzione tariffaria dovevano dal giudice di merito essere sic et simpliciter desunti dalla produzione delle fatture di smaltimento presso una ditta terza, atteso che ciò riguarderebbe, appunto, la “prova” del diritto e non la specificazione della censura; e si risolverebbe, comunque, in un eventuale vizio – non di applicazione normativa – ma di valutazione probatoria. Dunque, in definitiva, di un vizio occorso nella corretta formazione ed argomentazione del convincimento del giudice; astrattamente rilevante ex art. 360, 1 co. n. 5 cod.proc.civ., ma qui non dedotto, né formalmente né sostanzialmente, come tale.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso;
– pone a carico della parte ricorrente le spese del presente procedimento, che liquida in euro 7.300,00, oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge;
– v.to l’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;
– dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.
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