CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 gennaio 2018, n. 2009
Tributi – Accertamento – Ditta individuale – Aumento del capitale sociale – Conferimento ramo di azienda
Esposizione dei fatti di causa
1. Con atto del 16 settembre 2008 la società M. s.a.s. procedeva all’aumento del capitale sociale mediante il conferimento da parte del socio L. M., titolare dell’omonima ditta individuale corrente in Badia Polesine, del ramo di azienda costituito da quattro immobili censiti in catasto alle categorie A/10 e C/6. L’atto veniva assoggettato ad imposta fissa ai sensi dell’articolo 4, lettera a, numero 3, della parte prima della tariffa allegata al d.p.r. 131/1986.
L’agenzia delle entrate notificava avviso di liquidazione con cui assoggettava l’atto ad imposta proporzionale sul presupposto che si trattava di conferimento di beni immobili e non di conferimento di ramo d’azienda. La commissione tributaria provinciale di Rovigo dichiarava inammissibile il ricorso proposto da L. M. e rigettava il ricorso proposto dal notaio rogante M. C. in qualità di responsabile di imposta. Proposto appello da parte del notaio M. C., la commissione tributaria regionale del Veneto lo rigettava.
2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione il contribuente affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.
3. Con il primo motivo il ricorrente deduce nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., per violazione degli articoli 36, comma 3, e 59, comma 1, lett. e, del decreto legislativo 546/92 nonché motivazione insufficiente, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.,. Sostiene che la CTR ha fatto malgoverno della normativa in tema di formazione della sentenza incorrendo in error in procedendo laddove ha ritenuto che la sottoscrizione della sentenza di primo grado a mezzo di una sigla incomprensibile non concretasse la fattispecie della mancata sottoscrizione della sentenza da parte del presidente.
Inoltre la CTR ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza degli elementi di collegamento tra la sottoscrizione manoscritta illeggibile apposta in calce alla sentenza di primo grado e l’intestazione della sentenza stessa, ove era rinvenibile il nominativo del presidente della sezione giudicante.
4. Con il secondo motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in relazione agli articoli 20 del d.p.r. 131/86 e 3 ter del decreto legislativo 463/97. Sostiene che l’agenzia delle entrate ha basato l’avviso di liquidazione non già sul contenuto dell’atto notarile registrato ma su un elemento esterno ad esso, ovvero sul modello 69 utilizzato per la registrazione telematica, quando invece per mero errore era stato indicato sul predetto modello il contenuto dell’atto come conferimento per aumento di capitale di piena proprietà di fabbricato in luogo del conferimento di un compendio aziendale. Inoltre si doveva considerare che dall’atto non appariva alcuna volontà negoziale intrinseca delle parti contraenti difforme da quella palesata dagli stessi. Solo in corso di giudizio l’Ufficio aveva dedotto che mancavano i presupposti per poter ravvisare il conferimento di ramo di azienda in quanto la M. era titolare di impresa dedita all’attività di costruzione dell’immobile per cui i beni conferiti costituivano beni merce e non beni strumentali. Si trattava, in ogni caso, di questioni di fatto che non attenevano all’applicazione delle norme richiamate in sede di liquidazione dell’imposta, dovendosi avere riguardo al mero contenuto dell’atto ed essendovi la preclusione per l’Ufficio di fare riferimento ad elementi esterni allo stesso.
5. Con il terzo motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in relazione all’articolo 57 del decreto legislativo 546/92 nonché vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.,. Sostiene che ha errato la CTR nel ritenere che la questione relativa all’utilizzo da parte dell’ufficio di elementi esterni all’atto e la conseguente necessità di contestare il comportamento della parte contribuente mediante l’emissione di un avviso di accertamento e non di un avviso di liquidazione era stata dedotta soltanto in grado di appello poiché fin dal ricorso introduttivo era stata dedotta l’illegittimità dell’atto impositivo sulla base del fatto che esso era basato su aspetti assolutamente formali e non sostanziali e che, per ciò che concerneva l’aspetto materiale, ossia la natura dei cespiti immobiliari aziendali, esso era stato già comprovato per le vie brevi alla stessa agenzia delle entrate su richiesta della medesima.
6. Con il quarto motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in relazione all’articolo 10, numero 8 ter, e 17, comma 6, lettera a bis, del d.p.r. 633/72. Sostiene che la CTR ha rigettato la doglianza dell’appellante in ordine alla lamentata illegittimità dell’avviso di liquidazione dell’imposta proporzionale di registro in quanto emesso per fattispecie che sarebbe stata assoggettabile ad Iva e non ad imposta di registro. Ciò in quanto l’appellante si era doluto della mancata valorizzazione ad opera dei primi giudici dell’atto di precisazione registrato il 7 aprile 2009 con cui le parti si erano date atto che il conferimento era stato posto in essere da un soggetto Iva ed avevano esercitato l’opzione di esentare l’atto medesimo dall’imposta Iva ai sensi dell’articolo 10, numero 8 ter, del d.p.r. 633/1972. La CTR si è limitata ad osservare che l’operazione non risultava concretamente assoggettata ad Iva laddove, invece, avrebbe dovuto considerare se l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro fosse o meno legittimo valutando se l’operazione ricadesse meno nell’ambito della tassazione proporzionale di registro o nel campo dell’Iva. Peraltro dagli atti di causa emergeva chiaramente che gli immobili erano strumentali poiché si trattava di porzioni di fabbricato ad uso uffici con categoria A/10 e relative autorimesse accessorie con categoria C/6.
Esposizione delle ragioni della decisione
1. Osserva la Corte che il primo motivo di ricorso, con cui si deduce la nullità della sentenza per error in procedendo, avendo omesso la CTR di dichiarare la nullità della sentenza di prima grado che recava in calce la sottoscrizione illeggibile del presidente, è infondato. Ciò in quanto la Corte di legittimità ha più volte affermato il principio secondo cui non costituisce motivo di nullità della sentenza l’illeggibilità della firma dei giudice, a meno che essa non consista in un segno informe privo di qualsiasi identità, al punto da risolversi in una vera e propria mancanza di sottoscrizione (Cass. n. 2040/78); ed è stato osservato che, in tema di sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, la presunzione di identità tra l’autore del segno grafico indistinguibile, utilizzato per siglare e firmare il provvedimento, e la persona del giudice indicato in sentenza non è inficiata dalla mera deduzione dell’assoluta indecifrabilità del segno, qualora fra questo e l’indicazione nominativa del giudice contenuta nell’atto sussistano adeguati elementi di collegamento Cass. n. 5772 del 07/03/2017; Cass. n. 28281 del 22/12/2011).
Nel caso che occupa la CTR ha accertato la sussistenza di un adeguato elemento di collegamento poiché il frontespizio della sentenza indicava chiaramente in nome del presidente del collegio e la parte non aveva fornito alcuna prova per poter affermare un impedimento o altra circostanza che consentisse di escludere l’appartenenza della firma al dott. F.C.. Ne deriva che il motivo è infondato anche sotto il diverso profilo del vizio di motivazione, avendo la CTR indicato quale era l’elemento di collegamento tra la sigla apposta in calce alla sentenza e la persona indicata nel frontespizio.
2. Il secondo motivo è inammissibile in quanto è privo del requisito della specificità sancito dall’art. 366 cod. proc. civ.. Invero il ricorrente ha censurato la sentenza della commissione tributaria regionale per non aver considerato che l’avviso di accertamento era basato sull’analisi del modello 69 utilizzato per la registrazione telematica dell’atto e non sul contenuto dell’atto stesso ma ha omesso di riportare testualmente i passi dell’atto impositivo da cui si sarebbe dovuto evincere il mancato riferimento all’atto. Ciò facendo il ricorrente non ha consentito la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, dovendosi considerare che il predetto avviso non è un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento ( cfr. Cass. n. 9536 del 19/04/2013; Cass. n. 8312 del 04/04/2013 ).
3. Il terzo motivo è infondato. Occorre premettere che l’art. 20 d.P.R. 131 cit. dispone che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”. La Corte di legittimità, con numerose pronunce anche recenti ( Cass. 21676 del 2017; n. 6758 del 2017; n. 1955 del 2015; n. 24594 del 2015; n. 3481 del 2014 ) considera preminente, nell’imposizione, la causa reale dell’operazione e l’effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti, e ciò anche se rinveniente in pattuizioni collegate. La norma non esprime una regola antielusiva, bensì una regola interpretativa in quanto non è possibile qualificare la disposizione della legge di registro come disposizione antielusiva senza forzarne la struttura normativa, introducendovi un elemento estraneo, l’elusività fiscale-, che viceversa corrisponde solo a un’eventualità della fattispecie (Cass. n. 3562 del 2017; Cass. n. 6758 del 2017 ). Ed ha precisato la Corte che la scelta legislativa di privilegiare la sostanza dell’operazione comporta che “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria”, sicché nella individuazione della materia imponibile ha preminenza assoluta la “causa reale sull’assetto cartolare” (Cass. n. 19752 del 2013; n. 10740 del 2013 ) dovendosi considerare, altresì, “l’indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali”. Sono quindi prive di rilievo le questioni relative all’interpretazione dei contratti e all’autonomia negoziale delle parti poiché ha importanza non cosa le parti abbiano scritto, ma ciò che esse abbiano effettivamente realizzato col complessivo regolamento negoziale adottato, anche indipendentemente dal contenuto delle dichiarazioni rese. Pertanto quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva, posto che il ritenere l’imposta di registro come imposta di negozio correlata alla causa concreta dell’operazione costituisce applicazione del principio costituzionale di capacità contributiva. Un’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non è in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivela soltanto nella dimensione complessiva dell’affare ( Cass. n. 6758 del 2017). Ne deriva che non ha rilievo la circostanza che la CTR non abbia esaminato, ritenendola inammissibile perché proposta nel giudizio di appello, la questione relativa all’indebito utilizzo da parte dell’ufficio di elementi esterni all’atto e la conseguente necessità di contestare il comportamento della parte contribuente mediante l’emissione di un avviso di accertamento e non di un avviso di liquidazione, trattandosi di questione infondata in radice.
Non si può affermare, peraltro, l’applicazione anche al caso che occupa dell’art. 20 d.p.r. 131/86 nel testo modificato dall’art.1, comma 87, lett. a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020 ) pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n.302 del 29 dicembre 2017- Supp. Ord. n. 62, ed entrata in vigore l’ 1 gennaio 2018. Invero il novellato art. 20 cit. prevede che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”. Alla norma non si può riconoscere l’effetto interpretativo di quella previgente poiché essa introduce dei limiti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie che prima non erano previsti, fermo restando che l’amministrazione finanziaria può dimostrare la sussistenza dell’abuso del diritto previsto dall’ art. 10 bis della legge 212/2000 (introdotto dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128), il quale, alla lettera a, attribuisce espressamente rilevanza al collegamento negoziale, ma nel solo ambito, appunto, dell’abuso del diritto e non più in quello della mera riqualificazione giuridica. E mette conto considerare che l’orientamento giurisprudenziale prevalente ha escluso la natura antielusiva dell’art. 20 a beneficio di quella della qualificazione giuridica della fattispecie (Cass. 21676 del 2017; n. 6758 del 2017; n. 1955 del 2015; n. 24594 del 2015; n. 24594 del 2015; n. 1955 del 2015; contra n. 2054 del 2017; n. 6835 del 2013; n. 24452 del 2007; n. 2713 del 2002), per il che non si può affermare che la modifica introdotta all’art. 20 d.p.r. 131/86 dalla legge 27 dicembre 2017 n. 205 abbia natura interpretativa alla luce dell’art. 10 bis della legge 212/2000 poiché tale ultima norma disciplina il diverso ambito dell’abuso del diritto.
Non varrebbe obiettare che la relazione illustrativa alla legge 205/17 assegna alla disposizione concernente l’imposta di registro il compito di “chiarire” il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione. Tale elemento può, infatti, agevolmente superarsi sulla base del tenore testuale infine adottato dallo stesso art.1 co.87 in esame, il quale dichiara espressamente di apportare talune “modificazioni” all’art. 20 d.P.R. 131/86, palesandosi così quale disposizione prettamente innovativa del precedente assetto normativo. E ciò trova conferma, in accordo con il dato letterale del nuovo disposto, anche in ragione del fatto che tale modificazione ha determinato una rivisitazione strutturale profonda ed antitetica della fattispecie impositiva pregressa; là dove l’art.20 previgente (secondo l’indirizzo di legittimità) imponeva la tassazione sulla base di elementi (il dato extratestuale ed il collegamento negoziale) che vengono invece oggi espressamente esclusi; fatto salvo il loro ‘recuperò, come detto, nel diverso ambito della sopravvenuta disciplina dell’abuso del diritto di cui all’art.10 bis legge 212/00 cit.. In definitiva, va dunque affermato che l’art.1, comma 87, lett. a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 non avendo natura interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo; conseguentemente, gli atti antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1° gennaio 2018) continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione dell’art.20 d.P.R. 131/86.
4. Il quarto motivo è parimenti infondato in quanto con l’atto introduttivo del giudizio il contribuente ha genericamente adombrato la questione dell’assoggettabilità ad Iva della cessione dei fabbricati al solo fine di affermare la non debenza dell’imposta di registro mentre solamente con l’atto di appello ha introdotto la questione della non spettanza dell’Iva per effetto dell’atto di precisazione registrato il 7 aprile 2009, con cui le parti si erano date atto che il conferimento era stato posto in essere da un soggetto Iva ed avevano esercitato l’opzione di ritenere l’atto esente da imposta ai sensi dell’articolo 10, numero 8 ter, del d.p.r. 633/72. Ne deriva che, dovendo la CTR pronunciarsi sulla base della domanda formulata nel giudizio di primo grado, non era tenuta ad accertare d’ufficio i presupposti per la sottoposizione ad Iva della cessione dei fabbricati e le eventuali cause di esenzione.
5. Il ricorso va, dunque, rigettato e le spese processuali, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è respinto, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a rifondere all’agenzia delle entrate e le spese processuali che liquida in euro (valore della causa euro 24.032), oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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