CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 aprile 2017, n. 19997
Tributi – Reati tributari – Procedimento cautelare – Sequestro preventivo – Successivo accordo conciliativo – Riduzione della pretesa tributaria al di sotto della soglia delittuosa – Irrilevanza – Conferma del sequestro – Autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 12.9.2016 del Tribunale della Libertà di Fermo, nel riesaminare il provvedimento del GIP con il quale era stata rigettata la richiesta di dissequestro e restituzione dell’importo sequestrato fino alla concorrenza del debito erariale rideterminato da un successivo accordo conciliativo intervenuto con l’Agenzia delle Entrate, ha ritenuto di confermare il già disposto rigetto sul rilievo che, pur non essendo di ostacolo alla richiesta il giudicato cautelare superato dal sopravvenuto nuovo accordo, tuttavia l’autonomia del procedimento penale rispetto al processo tributario consentisse di non discostarsi dall’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta laddove come nel caso in esame i presupposti dell’accordo negoziale erano contraddittori rispetto alle deduzioni svolte dalla stessa Agenzia delle Entrate nel giudizio di primo grado innanzi alla Commissione provinciale e che l’ampia riduzione concordata malgrado la pronuncia del giudice tributario ed il sequestro già disposto, unitamente all’iscrizione di un procedimento, sia pure a carico di ignoti per il reato di abuso di ufficio riferito alla prospettata illiceità dell’accordo, doveva ritenersi fortemente sospetta. Avverso la suddetta pronuncia il T. ha proposto ricorso in Cassazione lamentando sotto il profilo motivazionale l’omessa specificazione delle circostanze di fatto che renderebbero maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta rispetto a quella successivamente concordata con l’Agenzia delle Entrate. Sostiene in sintesi il ricorrente che il mero sospetto non costituisce elemento sufficiente, se non supportato da elementi fattuali, per disattendere l’accordo conciliativo tanto più che l’iscrizione di un procedimento penale contro ignoti non riveste valore maggiore di una mera ipotesi accusatoria del Pubblico Ministero che disporrebbe comunque di tutti gli elementi per verificare la sussistenza dell’ipotesi delittuosa e procedere all’eventuale identificazione dell’autore facendo riferimento al nominativo del funzionario che ha istruito la pratica o firmatario dell’accertamento con adesione.
Considerato in diritto
Afferendo la censura svolta ad un asserito vizio motivazionale, occorre premettere che il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice, (così, Sez. U, n. 25932 del 26 giugno 2008, Ivanov, Rv. 239692), con la precisazione tuttavia che se sono ricomprese nel vizio di legittimità la mancanza di motivazione e la motivazione meramente apparente, non vi rientra la sua eventuale illogicità, la quale, pur corrispondendo al mancato rispetto dei canoni epistemologici e valutativi che, imposti da norme di legge (principalmente dall’art. 192, ma anche dall’art. 546, l lett. e c.p.p.), regolano il ragionamento probatorio, non è però presidiata da una diretta sanzione di nullità (Sez. U, n. 5876 del 13 febbraio 2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710).
Ciò detto, muovendo dal presupposto che l’orientamento giurisprudenziale consente di ritenere ormai pacifico/secondo il quale il procedimento penale, in materia di reati tributari, si configura del tutto autonomo rispetto al processo così come all’accertamento tributario, principio che trova il suo suggello normativo, sia pure sul piano squisitamente processuale, nell’art. 20 d.lgs 74/2000, la peculiare problematica oggetto del presente procedimento di natura cautelare è data dalla sopravvenienza, rispetto alla determinazione dell’imposta evasa da parte dell’amministrazione finanziaria coincidente con quella presa a riferimento per la formulazione dell’imputazione in sede penale, di un accertamento con adesione formalizzato dall’Agenzia delle Entrate con l’odierno indagato, da cui trae origine l’istanza di dissequestro. Se quindi costituisce jus receptum che sia rimesso al giudice penale nei reati concernenti evasione di tributi il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Sez. 3, n. 36396 del 18/05/2011 – dep. 07/10/2011 -, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, Sentenza n. 37335 del 15/07/2014 – dep. 09/09/2014 -, Buonocore, Rv. 260188; Sez. 3, Sentenza n. 38684 del 04/06/2014 – dep. 23/09/2014 -, Agresti, Rv. 260389), la circostanza che l’imputazione del reato relativo alla presente misura cautelare abbia preso le mosse da un accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari debitamente vagliato dal giudice, peraltro confermato dall’esito del giudizio di primo grado innanzi alla Commissione provinciale, non comporta l’automatico venir meno, per effetto del ridimensionamento della pretesa tributaria a seguito di accertamento concordato con il contribuente, dell’ipotesi delittuosa originaria quanto meno sul piano dell’accertamento cautelare. Nell’ambito della delibazione sommaria che il giudice è chiamato ad effettuare in punto di fumus commissi delicti non può invero prescindersi dalla natura negoziale che caratterizza l’accertamento per adesione, al pari di ogni forma di concordato fiscale intervenuta tra le parti del rapporto: pertanto pur dovendosi ribadire che il sequestro preventivo non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, è tuttavia la stessa nozione di profitto, corrispondente nella sostanza all’entità dell’imposta evasa, anche senza considerare le sanzioni ad essa connesse, a non essere automaticamente intaccata dalla determinazione concordata del tributo, la quale, in quanto scaturente da un intento transattivo, deve essere comunque vagliata sul piano della maggiore o minore attendibilità rispetto all’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta (Sez. 3, n. 5640 del 2.12.2011, Manco, Rv. 251892). E poiché tale valutazione, includente quella finale del profitto, non può richiedere in fase cautelare un’indagine altrettanto penetrante rispetto a quella che dovrà formare oggetto di accertamento specifico nel giudizio di merito, non può ritenersi che la motivazione addotta dal Tribunale della Libertà a fondamento del diniego dell’istanza di dissequestro avanzata dal ricorrente sia carente sul piano motivazionale: i giudici di merito hanno infatti valorizzato in via cautelativa la sussistenza di un procedimento penale per abuso di ufficio che, in quanto afferente proprio all’accertamento con adesione posto a fondamento dell’istanza di dissequestro, è stata ritenuta preclusiva, unitamente all’ingente riduzione dell’imposta concordata pur in presenza di pronuncia della commissione di primo grado favorevole per l’ufficio erariale, all’accoglimento della domanda di dissequestro, senza che possa sindacarsi in questa sede la coerenza del ragionamento svolto, preclusa dal dettato dell’art. 325 c.p.p.. Né può ritenersi sindacabile a tali fini la circostanza che il procedimento per il reato di cui all’art. 323 c.p. fosse iscritto al modello 44 non potendo richiedersi che il Tribunale adito sospendesse il giudizio di cui era investito in via di urgenza per attendere le indagini del P.M. volte ad identificare gli autori del reato ritenuti allo stato ignoti ed eventualmente a verificarne l’insussistenza.
Non costituisce, invero, motivazione apparente in sede cautelare il diniego dell’istanza di dissequestro fondato su elementi gravi e concordanti in ordine all’affidabilità della riduzione dell’imposta conseguente a successivo accertamento per adesione o concordato fiscale intervenuto tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria, al quale il giudice penale, in ragione della natura negoziale dell’accordo e della sua possibile causa transattiva, non è vincolato nella determinazione dell’imposta evasa rispetto alla originaria pretesa fatta valere dallo stesso Erario.
Non sussistendo pertanto i presupposti per invocare l’intervento di questa Corte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
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